di Filippo Casaccia
Sabato 11 gennaio
La prendo larga: ho una prof di storia e filosofia che avrà quarant’anni, massimo quarantacinque, la Canepa. Interessante, un po’ sciupata, con un passato movimentista, se non ho capito male. Ci chiama per nome: la cosa dà fastidio a molti dei miei compagni ma a me pare la cosa più adulta che ci sia capitata in questo liceo.
Beh, a novembre succede che un martedì facciamo tutti sciopero. Uno sciopero strategico per evitare un’interrogazione micidiale di fisica, una strage annunciata, e il giorno dopo, lei, alla prima ora, controlla le giustificazioni. Firma i libretti in silenzio ma si vede che sta covando un’incazzatura da pantera, anche se lo sciopero non la riguardava.
Quando finisce, chiede:
«E per cosa avete scioperato, ieri?».
Silenzio in classe.
Anch’io, francamente, non ricordavo nulla, se non un volantino con disegnato Spadolini a pecora e dei missili che gli puntavano dritto al culo.
A quel punto lì la prof rincara la dose:
«Okay. E la manifestazione com’è stata?».
Ancora silenzio.
Che una prof ti faccia il mazzo perché scioperi qui è consuetudine ma che s’imbufalisca perché non sei andato in corteo è grandioso. Ci ha fatto una cazziata epocale, con sacrosanta rampogna su diritti e doveri, sul nostro ruolo di attori politici e bla bla. Poi ha chiamato alla lavagna il povero Vaiolo, o Enzo come lo chiama lei, e l’ha brasato: 3 e mezzo, gli ha dato. A fine lezione era ancora nervosetta e ci ha caricato di compiti e ho pensato che ci fosse un po’ di confusione tra politico e privato. Però aveva schifosamente ragione e, adesso, ogni volta, prima di andare in piazza a dimostrare ci penso. E poi ci vado comunque.
Il fatto è che io stamattina non avevo voglia di entrare in classe, ma proprio per niente. Ci sono quei giorni in cui Genova ha una luce particolare e nell’aria tersa pulita dalla tramontana i colori diventano vivissimi. È come se si potesse vedere la città attraverso l’obbiettivo di una reflex: tutto nitido, splendente e a fuoco. Fa un bel freddo ma non c’è una nuvola e il cielo è blu cobalto. Quando sono arrivato davanti a scuola ho visto gli studenti medi che volantinavano e ho capito che il mio destino era segnato anche se Jacopo non sentiva ragioni:
«Sono solo cinque giorni che siamo tornati, dài», ha detto. «I voti del primo quadrimestre ce li portiamo alla maturità!».
Sì, e tutto quello che vuoi – ho pensato – ma oggi no, io non entro. Non me la sento, è una mattinata troppo bella per perderla con due ore di disegno e due di ginnastica: io vado in manifestazione. Ho calcato il mio berretto andino in testa e ho preso il 41 puntando verso Caricamento, dove c’è il raduno per una fantomatica adunata contro un preside di un istituto tecnico che ha punito due studenti che si baciavano durante la ricreazione. Questa storia da romanzo del secolo scorso la apprendo quando arrivo lì, all’assembramento, assieme a dir tanto a trecento ragazzi, la crema dei liceali genovesi, scansafatiche sì ma con un progetto politico o quasi in testa: si tratta di una baciata, mi dicono, una magnifica occasione per scambiarsi germi davanti a tutti con la scusa di una rivendicazione, dimostrando che si è innamorati o forse no ma non importa. Perché è una giornata spettacolare ed è bello urlare contro il ministro Falcucci, contro questo preside bacchettone e contro tutti i vecchi che ti guardano strano perché loro, alla nostra età, se lo sognavano di baciarsi per strada.
Come me del resto, perché – realizzo – sono solo come un cane.
Non ci sono tante bandiere politiche o striscioni, solo moltissime coppie. Mi metto diligentemente nel gruppone e declamo gli slogan, alzo il pugno, rido e canto, cercando la complicità di qualche altro cane sciolto, diciamo così.
Poi inquadro una coppia di ragazze spaiate e mi accodo: una ha una giacchetta verde militare e dei pantaloni marroni bellissimi, un po’ flosci, con le tasche laterali. Mentre sto ammirando l’originalità stilistica, lei si gira e mi guarda assieme all’amica. Lo slogan Ucci ucci! Sento odore di Falcucci mi muore in gola, mentre le sorrido. È… perfetta. Capelli lunghi, scuri, la riga in mezzo. Una cicatrice rosa sulla guancia destra, come Capitan Harlock, ma che le dona pure. Occhi chiari, allegri. Sussurra una cosa all’amica, fissandomi, e poi scoppiano a ridere.
Trovo la fantasia per dire una cosa giusta anch’io, una volta tanto:
«Ciao!».
Il corteo si ferma. Ancora canti e slogan, mentre ci guardiamo tutti un po’ imbarazzati, perché adesso dovrei inventarmi qualcos’altro. A levarmi d’impaccio arriva uno del servizio d’ordine, che in una manifestazione così è una cosa ridicola. È alto due metri, gli occhiali con la montatura nera spessa e un barbone da Fidel.
Si rivolge alla ragazza, sarcastico:
«Con uno del King?».
Ho lo stemma del mio liceo sullo zaino, in effetti, che fa molto campus americano, sul versante vorrei ma non posso. Poi si rivolge a me:
«Un fighetto della borghesissima Albaro! Oggi che ci si bacia, lotta dura senza paura, eh?».
Non so se sia veramente la giornata giusta o gli occhi di questa qui coi pantaloni militari o la congiunzione astrale, ma gli rispondo al volo, sicuro e senza calcolare le conseguenze:
«Beh, oggi giornata libera… sono appena tornato dalla zafra, non so se hai presente».
Fidel strabuzza gli occhi perché tutto s’aspettava fuorché una messa in dubbio del suo fervore rivoluzionario, da un albarino poi.
«La zafra?».
Ho rischiato, sì, ma quanti italiani andranno a fare il raccolto della canna da zucchero a Cuba?
Il castrista balbetta e chiede rispettosissimo:
«E dove!?».
«Cienfuegos, amigo!», gli rispondo. «Record personale di 326 chili in un giorno!». Che non so se sia poco, tanto o troppo, e allora faccio il modesto:
«Ma c’erano dei compagni bulgari che ne tagliavano anche di più».
Ho evocato tropici, rum e compagni fratelli del Patto di Varsavia: Fidel non è più ostile, balbetta qualche monosillabo e se ne va, tra l’ammirato e il tramortito, inventandosi un’emergenza in coda al corteo. Lo segue l’amica di Capitan Harlock, che ci lascia soli strizzandole l’occhio. Io non so bene che dire, adesso, ma la sconosciuta Perfetta mi porge la mano e rivolge lo sguardo verso la testa del corteo, come a dire: andiamo!
E allora andiamo, sì.
Cantiamo e ci sorridiamo, dicendoci tutto quello che vogliamo sentirci dire e ci fermiamo solo quando un ragazzotto dell’ITIS con la kefiah, uno che ho già visto tante volte in manifestazione, sale su una panchina e proclama col megafono che è venuto il momento di rispondere al preside. Si abbraccia con la tipa che gli sta di fianco e, là!, si sparano un limone che dura trenta secondi.
Silenzio emozionato e poi, quando finiscono, applauso liberatorio, come se dovessimo tutti riprendere fiato assieme a loro. È il segnale convenuto e tutte le coppie si uniscono in questo splendido gesto di resistenza civile. La ragazza Perfetta dai pantaloni con le tasche mi prende le mani, mi avvicina e alza le spalle, come a dire che ci tocca per solidarietà politica: mi toglie il berretto andino, se lo mette e mi invita con i suoi splendidi occhi. Cosa si fa in questi casi?
Mi bacia. Quando ci stacchiamo ride. E allora sono io a baciarla. Non so se lei baci bene o se lo faccio bene io – cosa di cui dubito, se non altro per scarsissimo curriculum – ma questa manifestazione ci piace. Eccome!
E da lì è una passeggiata. Mano nella mano.
Può nascere così una storia?
Io non capisco più nulla, felice come non mi capitava dall’11 luglio 1982.
Le chiedo come si chiama.
«Annalisa», dice, e aggiunge: «come la canzone dei New Trolls!».
Come, pardon?
«Io Eugenio». Esiste una canzone di De Gregori, ma non mi pare il caso.
Seguiamo il corteo, leggeri e un po’ stupidi. Chi sei, cosa fai, cosa studi, cose così, senza neanche ascoltarci, senza che lei mi chieda mai se ho la moto o quale sia la compagnia con cui esco, guardando invece le altre coppie e sentendoci bellissimi perché lo siamo anche noi, una coppia. Magari un po’ improvvisata, però due che sono uno, adesso. Lei ogni tanto mi indica degli scorci della città che non avevo mai degnato di uno sguardo. E Genova non è bella, è splendida. Vedo il leone in marmo che sta a fianco della scalinata della cattedrale di San Lorenzo e un po’ mi commuovo: sono nella Corazzata Potëmkin di Ejzenstejn!
«Ma Cuba?», chiede lei. Guardo in basso, confesso:
«In realtà non son mai stato più a ovest di Nizza».
Per fortuna ride.
«Ci andremo assieme, allora!».
E certo. Altro bacio. Flirtiamo, giocando alla coppia anche se non sappiamo neanche chi siamo. Ma è stato tutto così naturale che non mi sembra vero. Non so se sotto il pavé parigino ci fosse la sabbia, ma oggi sotto i lastroni di arenaria genovese pare proprio di sì.
Arriviamo davanti a Palazzo Ducale, un po’ scalcagnato come questa manifestazione felice e indolente, quando scoppia il casino. Un celerino – dei trenta che ci seguono a distanza – si piglia con un fesso che sta in coda al corteo. Non ho capito bene: una frase stupida, uno spintone, una manata. Fatto sta che il fesso – e sfigato aggiungo, perché non aveva nessuno con cui baciarsi e questo io ormai lo posso dire ad alta voce – finisce a terra. Quei Nobel coi manganelli gli tirano dei calci, un altro manifestante reagisce, un pulotto colpisce due che si stanno baciando e gli spacca le labbra nel bacio più eroico e sanguinante che abbia mai visto, e poi è il caos. Chi scappa, chi reagisce, chi non capisce: ma si possono caricare trecento studentelli imberbi che slinguazzano?
Sì, cazzo, si può, maledizione.
Il piccolo corteo sbanda e torna indietro, davanti al Duomo. Il leone è ancora accucciato e della Corazzata Potëmkin è rimasta solo la fuga precipitosa. Sono sballottato e la mano di questa perfetta Annalisa mi sfugge tra cappotti, zaini e caschi. Mi giro e non c’è più, non vedo la giacchetta militare e neanche il mio berretto che le è rimasto in testa. Qualche deficiente in divisa pensa pure che serva un lacrimogeno. O due o tre, perché ora c’è una nebbia giallorosa che avvolge tutti, un caffelatte onirico in cui la folla si dirada. Si agitano ombre sparse e ce n’è una più scura che sta ferma, a cinque metri da me, col manganello tenuto basso.
Mi sta fissando, direi.
Io strizzo gli occhi che lacrimano, ricambio lo sguardo e poi mi volto per vedermi dietro, perché non può mica avercela con me, che sto qui, fermo.
«Ma ce l’hai con me? ».
Ce l’ha con me eccome, ‘sto stronzo: alza il manganello e mi carica cacciando un urlo.
Roba da pazzi. Altro che vacanze cubane: mi volto e corro giù per via di Scurreria rischiando di volare sul selciato, perché è una strada con una pendenza di non so quanti gradi, ma tanti, e da lì arrivo in piazza Campetto e poi risalgo verso piazza San Matteo con un polmone in gola, la milza che urla e i polpacci in fiamme. Mi fermo davanti alle vetrine di un negozio di dischi, facendo finta di essere lì per caso, controllando nel riflesso del vetro se c’è qualche manganello alle spalle.
Ma nessuno insegue più nessuno, a parte me che dovrei, perché ho perso Annalisa.
E anche il berretto andino.
Ma più Annalisa.