di Filippo Casaccia
Fabio Zuffanti, Battiato: la voce del padrone. 1945-1982. Nascita, ascesa e consacrazione del Fenomeno, Arcana, 2018, pp. 317, € 19,50.
Franco Battiato: il Maestro, l’artista pop, il provocatore sperimentale, il compositore classico contemporaneo. Il Fenomeno, come conferma il sottotitolo della biografia musicale che gli ha dedicato Fabio Zuffanti, musicista a suo volta e scrittore prolifico, autore di diversi libri (tra cui una recente e gustosa raccolta “notturna” di racconti brevi) e di una decina di album che spaziano dal prog migliore al pop più intelligente nella sua ricerca di contaminazioni.
Ecco, forse la chiave per comprendere la qualità altissima di questo saggio sull’artista catanese (in realtà di Jonia, effimera unione amministrativa di Giarre e Riposto, dove effettivamente nacque) è la capacità dell’autore di narrare una vicenda umana e artistica con una competenza musicale mai distante dal lettore: a fianco al testo appaiono, volta per volta, analisi musicologiche degli album di Battiato che rivelano anche al più digiuno di cultura musicale la loro complessa architettura e la ricchezza di rimandi nell’opera dell’artista.
Il libro – che termina con un allusivo continua… – documenta la parabola di Battiato dalla nascita fino alla clamorosa affermazione commerciale de La voce del padrone, primo album italiano a raggiungere il milione di copie vendute e autentico capolavoro della discografia nazionale. Per la mia generazione quel disco era stato un fulmine a ciel sereno, una sequenza di capolavori diventata la colonna sonora dell’estate dell’inaspettato mundial spagnolo e ancora oggi non riesco a separare quella euforia (che a Battiato sicuramente non sarebbe piaciuta) da quel suono, da quei versi. Musica e parole che a me come a molti altri risultavano fascinosamente incomprensibili, un cut up magistrale di citazioni, ricordi, rimandi, allusioni la cui comprensione si sarebbe rivelata negli anni a venire e che oggi, con un testo esplicativo come questo, risultano assolutamente cristallini. Dunque: c’è un Battiato delle canzonette anni Sessanta (pressoché sconosciuto), poi c’è il Battiato di Fetus e Pollution, rock sui generis, provocatorio ma già geniale come dimostrano l’attenzione dall’estero e la stima, per dire, di un Frank Zappa. Dopo la sbornia e il successo di queste prime uscite il musicista intraprende un percorso sperimentale che arriva a spogliare la sua musica fino al minimalismo austero de L’Egitto prima delle sabbie, premio Stockhausen del 1978. Per gli spettatori dei suoi spettacoli – sempre più radi, durante gli anni Settanta, sia spettacoli che spettatori – e per la critica disorientata è un sentiero autodistruttivo ma Zuffanti riesce a far comprendere come il processo di sottrazione sia in realtà un arricchimento continuo: Battiato precorre la musica cosmica tedesca, si abbevera al minimalismo di Philip Glass, studia La Monte Young e Terry Riley e si dedica a composizione e armonia dopo una strigliata dell’amico Karlheinz Stockhausen che gli impartisce la prima lezione di notazione musicale. E intanto viaggia, conosce, instaura rapporti affettivi e artistici con altri outcast del panorama italiano. Gli esordi rock sono a fianco di Gianni Sassi ma ci sono anche Giorgio Gaber o Claudio Rocchi a seguire i passi di Franco nella sua carriera musicale. Sono anni di tensioni ideali interiori, di un ascetismo reale (anche per le scarsissime disponibilità economiche) che la figura allampanata del musicista restituisce benissimo e che conosciamo grazie alle foto magistrali di Roberto Masotti, autore dello scatto celeberrimo che appare sulla copertina del libro (e che, lavorato da Francesco Messina – altro artista grafico clamoroso -, identificherà proprio La voce del padrone).
Poi l’incontro con un partner in crime assolutamente impensabile: il maestro Giusto Pio, che diventa – come poi accadrà altre volte, per esempio con il filosofo Manlio Sgalambro – il socio ideale per provare a tradurre compiutamente la ricchezza di esperienze di Battiato.
Quando nel 1979 esce L’era del cinghiale bianco è come se tutte le influenze e gli influssi culturali assorbiti nei dieci anni precedenti avessero finalmente trovato forma ed espressione in una sorta di pop sperimentale, prezioso, originale e irresistibilmente melodico e ritmico. La chiamata alle armi di Patriots raffinerà la formula che arriverà al suo apice con La voce del padrone: Georges Gurdjieff arriva così in alta classifica, tra citazioni che vanno da Bob Dylan a Giacomo Leopardi, un collage unico, talvolta ironico ma che, più spesso, produce senso e funziona da provocazione, da testimonianza e da memoria, uno degli aspetti ricorrenti nell’opera del musicista.
Il 1981 e il 1982 sono gli anni in cui qualunque cosa tocchi Battiato e il suo magic team (tra cui Angelo Carrara e Alberto Radius) diventa oro: ne beneficia Milva ma anche Giuni Russo col tormentone di Un’estate al mare e Alice che, con Per Elisa, vince il festival di Sanremo con soluzioni armoniche e testuali impensabili per la rassegna canora, un’affermazione che non si potrà mai più ripetere.
Fabio Zuffanti ha il merito di ricostruire la crescita e l’affermazione di una personalità unica, dando voce a tutti i protagonisti con precisione e competenza. Ed è unica anche l’opera che ne deriva: Franco Battiato è uno dei pochissimi artisti di successo che non faccia riferimento alla musica pop o rock americana, semmai alla tradizione classica (quanto contrappunto bachiano in queste sue “canzonette” sublimi!) o alla musica araba, un rifarsi a una mediterraneità solare che comunque guarda a Est piuttosto che al West. Perché – e come dargli torto? – “il giorno della fine non ti servirà l’inglese”.