di Neil Novello
Francescomaria Tedesco, Mediterraneismo, Meltemi, 2017, pp. 195, 15.00 euro
Fin dal titolo dell’ultimo libro di Francescomaria Tedesco il lettore incontra una categoria, o meglio si trova dinanzi a un oggetto culturale, il Mediterraneo, osservato da un inedito angolo di visione, una mediterraneologia critica – giusto il duplice innesco dell’Introduzione – volta a rovesciare un paradigma, da un lato determinato da «approcci orientalizzanti», dall’altro da «concilianti visioni estetizzanti». Con il Nietzsche della seconda Inattuale, verrebbe quasi da sospettare che la lettura critica di Tedesco ambisca a cancellare un persistente sedimento ermeneutico, per così dire una vulgata antiquaria. Calabrese di origine, e vissuto in Calabria, ma emigrato in seguito in Toscana, Tedesco ha quindi vissuto e tuttora vive il Mediterraneo, e la mediterraneità, secondo due maniere, la prima endogena o propria a chi nasce in un luogo mediterraneo, la seconda esogena o di chi vive altrove ma continua a osservare la propria origine, continua accanitamente a pensare, soprattutto a ri-pensare propriamente il pensato culturale sul luogo della propria Bildung. Un doppio cervello e un doppio sentimento sono dunque in attività, il primo ragiona e costruisce un archivio di pensiero dominante, paradigmatico, il secondo lavora a decostruire, a rileggere, a rimeditare il pensato schiudendo il pensiero stesso ad altro orizzonte epistemologico.
Il pensiero antimeridiano è il sottotitolo dell’opera, qualcosa di paragonabile a una clavis hermeneutica in cui l’antimeridianismo incontra il mediterraneismo, incontra cioè proprio la vulgata, l’immagine dominante, lo stereotipo culturale, con una categoria di Gramsci, il senso comune. Ma il senso comune, appena cristallizzato, diviene senso culturale, in altri termini concorre a formare la cultura dominante, egemonica. Ne consegue di trovarsi dinanzi a un vero e proprio blocco del senso, o meglio il senso stesso è stato incanalato entro una prospettiva rovesciata, un imbuto dal quale risalire verso l’aperto della «decostruzione». Ciò tuttavia non vuole dire rovesciare l’asse del mondo, non vuole dire invertire le assiologie egemoniche (Nord/Sud, centro/periferia, Europa/Mediterraneo), essenzialmente vuole dire domandare al tema del Mediterraneo la sua autentica identità emancipando la stessa domanda da possibili derive astoriche, pregiudiziali o finanche metafisiche. Se è vero che la «stigmatizzazione dell’alterità mediterranea» – così scrive Tedesco – in parte tende a ricavare da un «giudizio assiologicamente negativo un elemento positivo», o meglio a esporre la «rivendicazione di una differenza positiva e contestativa», allora qui è in gioco non l’identità (che pure è l’essenza primaria del gioco dialettico e culturale) ma la sua lettura. Anzi, qui si tratta di imprimere al discorso una perentoria sterzata per affermare l’esigenza di una controlettura, poiché l’imperativo è intus legere, leggere cioè dentro o al di là di ogni sospettoso mito ideologico sul mediterraneismo. E ancora capire che una cosa è la complessità per così dire innominabile del Mediterraneo, un’altra è la nominabilità spesso forviante proprio della parola-cognizione mediterraneismo. La stella polare di Mediterraneismo, la pars construens del discorso è allora «invertire lo stigma», cioè provare a ragionare sullo «stereotipo» culturalista riportando il ragionamento stesso entro un alveo di ridefinizione culturale. La lettura di tipo mediterraneista, spesso non scevra, a livello di senso comune, da qualunquismo intellettuale, è un diffusa ideologia. Essa matura nella fondazione di un vero e proprio patrimonio culturale, se un patrimonio culturale è per esempio il fenomeno dell’«orientalizzazione interna», la mentalità entro il cui ingranaggio appare coinvolta l’identità del meridione in genere e della Calabria (in specie). Orientalizzare è un verbo dell’egemonia, un verbo dell’egemonia che egemonizza partendo proprio dall’intepretazione politica della lingua, della parola. La parola ‘orientalizzare’ pertanto è equiparabile a un organismo vivente, poiché adempie per l’appunto a una funzione di tipo (bio)politico, la funzione dell’egemone in relazione all’alterità. Essa è sempre il prodotto di uno sviluppo culturale, la costruzione a tappe di un immaginario collettivo, la cui prima pietra ritroviamo in un’altra parola, l’«esotizzazione» del Sud e la creazione politica della sua diversità. Nel libro di Tedesco vi è però da cogliere una dimensione controapologica. Mediterraneismo figura anche come j’accuse, poiché esso è il referto, se così si può dire, non soltanto di una realtà del pensiero, soprattutto di un pensiero della realtà, specie nella critica ad autori che nelle loro opere o iniziative culturali forniscono un’interpretazione – così scrive Tedesco – del «pensiero meridiano secondo una chiave che qui abbiamo trattato nei termini del mediterraneismo». In altre parole, rovesciare lo «stigma» potrà significare la caduta in una forra filosofica più insidiosa, affidarsi all’immagine dell’alterità o della diversità senza avvedersi di camminare entro il tracciato di un cosiddetto «mediterraneismo dell’alternativa». Per scansare tale deriva o da essa eventualmente emanciparsi, il pensiero meridiano dovrà allora rovesciarsi non tanto nel suo contrario formale quanto operare nella ricerca di un radicalmente nuovo contenuto di discorso. Qui si cerca un antidoto critico-culturale in grado di sovvertire l’«ipostatizzazione del Sud» neutralizzando in tale maniera l’effetto di anamorfismo artificiale causato dalle cosiddette «lenti deformanti» dell’orientalizzazione. Varrà allora intendere che lo spirito antimeridiano che filigrana il libro potrà essere spiegato nel quadro di una lettura ritrovata – come avrebbe scritto Benjamin – contropelo, a questo punto una controlettura non scevra da pericolose conseguenze epistemologiche, l’unica però foriera di vincenti euresi proprio nel campo della ridefinizione non solo nominale di quella cosa che è – al di là della sua dimensione marina – il Mediterraneo.
Ipostatizzare il Sud, questo è alla fine il mito resistente. Per capire ancora di più il fenomeno, anzi per affinare la teoria critica, Tedesco richiama a dialogo la categoria gramsciana di subalterno. In relazione al problema, le domande sono consequenziali: i «subalterni possono parlare?», «Essi possono conoscere forme di organizzazione politica?», «Che rapporto sussiste tra la subalternità e la coscienza di essa?». Le domande costituiscono la premessa generale a uno sviluppo del discorso, anzi a un superamento delle posizioni analizzate, per compiere uno scatto ulteriore, cioè valicare il confine orient-estetizzante o «lirico e poetico» per «discutere di quelle forze sociali che al Sud cercarono di dare corpo all’alternativa». In altre parole, con l’esempio di un Sud resistente e politico, provare a penetrare nell’organismo vivente del meridione rivelando finalmente un ingranaggio realmente diverso sia dall’immaginario collettivo sia dalla cosa-meridione, ora però dotata di un nome de-orientalizzato e de-estetizzato. Sulla falsariga di spontaneità e coscienza storica, la partita politica del subalterno in Calabria, cioè la lotta dei contadini per la conquista della terra nel decennio 1943-1953, alla fine costituisce un esempio storico teso a scardinare anche le metafisiche letture mediterraneistiche. A tale riguardo, Tedesco scrive:
Quello che interessa è segnalare come quelle rivendicazioni da parte dei contadini meridionali fossero la spia di una coscienza antica, legata a risalenti modalità di vivere il rapporto uomo-terra ben prima che la cultura comunista calasse dal Nord per capeggiare il movimento e guidare le rivolte attraverso un’opera di formazione della coscienza collettiva. E che quel movimento si saldò con rivendicazioni moderne che pretendevano di dar corpo al dettato costituzionale sulla funzione sociale della proprietà.
Chiarire dunque che i «protagonisti di quelle lotte erano in agitazione per la rivendicazione di antichi diritti», al discorso di Tedesco apporta in certa maniera un’autenticazione antimeridiana, o meglio figura il richiamo ad hoc di un evento – citato e spiegato nella sua grande importanza anche “civile” -, diviene cioè utile per rileggere in chiave antimediterraneista questa pagina storica del meridione e in specie della Calabria. Ricercare e trovare nell’esempio storico le ragioni che contraddicono normative linee di pensiero, spesso errori di valutazione culturale dei fenomeni sociali, se per il Meridione e la Calabria costituisce un sovvertimento di visione, anzi un rovesciamento di cognizione meridiana e mediterraneista, nel caso della cosiddetta Primavera araba, da un lato allarga l’orizzonte della tesi, dall’altro addiziona a esso e alla sua spiegazione specifica le «ragioni profonde di dissenso e malcontento che attraversavano da tempo la società in questione». Niente dunque di «mollemente adagiato, femmineo, passivo», «disposto a subire prono e inerte», e nessuna «massa informe relegata a un medioevo di oscurantismo anti-tecnologico, femminicida e liberticida», nel Mediterraneo si sono invece agitate (e ancora si agitano) società e culture mosse da una cosciente idealità e progettualità politica e culturale. Riportare l’esempio delle “primavere” riportando al centro del discorso il significato profondo dell’azione politica subalterna, dalla Libia alla Turchia alla Tunisia (con esempi, nel caso tunisino di Amina, anche eterodossi ma comunque riconducibili al tema dominante), in Mediterraneismo significa anche leggere fuori di mitologia fenomeni, casi, eventi, proteste da includere all’interno di un più ampio orizzonte, il risveglio sociale e culturale, soprattutto però, anche nel caso del risveglio, la comprensione – da parte dell’Occidente che guarda l’Oriente – non di un’identità criticabile, solamente, icasticamente di un’identità (non ascrivibile né rubricabile). Decostruire l’immaginario occidentale significa anzitutto cogliere questa identità, non assegnarne una, non falsificarla costruendo un simulacro culturale.
Sotto tale profilo, la lingua del mediterraneismo e della visione mediterraneista, tra le letture mitologiche e adulterate, nella doppia distinzione di stigma dell’arretratezza e stigma dell’alternativa e del riscatto, nello studio di Tedesco riguardano anche alcune merci librarie come l’orientalizzante Terroni di Giancarlo De Cataldo o una merce cine-televisiva come Il capo dei capi, senza dimenticare un cult iper-mediterraneista come Anime nere, il libro (di Gioacchino Criaco) e il film (di Francesco Munzi), entrambi, anche se a diversi livelli di profondità (e anche di dolo), esiti di una spaventosa e desolante falsificazione culturale. La lettura critica (non antiquaria), la decostruzione del senso comune, la lettura contropelo di questa storia mediterraneista, nel segno ideale di Nietzsche, Gramsci e Benjamin, che segretamente popolano il libro di Tedesco, esibiscono allora una funzione di grimaldello culturale. Mediterraneismo si qualifica pertanto entro il quadro di un’immagine aurorale, insieme un segnavia del pensiero contemporaneo sul Mediterraneo e forse già la costruzione (a futura memoria e uso) di un’eredità culturale.