di Gioacchino Toni
Stanno per iniziare le riprese della quarta stagione della serie televisiva Gomorra che, oltre alla classica ambientazione napoletana, in linea con quanto accaduto nelle serie precedenti, conterrà anche parti girate in contesti esteri, in questo caso, pare, quello londinese. L’intenzione di denunciare il carattere internazionale della criminalità organizzata si sposa con una strategia di marketing volta a raggiungere un pubblico altrettanto internazionale.
Nell’opera di Roberto Saviano, tra le altre cose, si denuncia di come globali siano le strategie tanto della criminalità organizzata quanto delle politiche neoliberiste di cui la prima è parte. Altrettanto globale appare quello che può essere definito il brand Gomorra che alla volontà di rendere internazionale la denuncia affianca una pianificata strategia dell’industria culturale indirizzata alla ricerca di un pubblico planetario. La necessità di denunciare ciò che è globale in maniera globale si intreccia con un’esigenza economica votata alla distribuzione internazionale. Se dal punto di vista economico, sappiamo, si possono tranquillamente veicolare contenuti anche scomodi se questi producono profitto, resta da verificare se il nobile intento della denuncia possa reggere ai meccanismi di mercato di uno spettacolo alla spasmodica ricerca del successo di audience.
Nel saggio di Giuliana Benevenuti, Il brand Gomorra. Dal romanzo alla serie TV (Il Mulino, 2017), si indaga uno dei casi più importanti di narrazione transmediale italiana capace di espandersi su diversi media: al libro di Roberto Saviano, uscito nel 2006, sono poi seguite una trasposizione teatrale, andata in scena per la regia di Marco Gelardi la prima volta nel 2007, una cinematografica, uscita nelle sale nel 2008 e realizzata da Matteo Garrone, dunque la fortunata serie televisiva affidata a Stefano Sollima e mandata in onda a partire dal 2014.
Il caso Gomorra offre interessanti spunti di analisi sia a proposito di produzione di titoli globali che di formazione progressiva di un franchise a partire dalla pubblicazione di un libro. L’altro celebre esempio di successo transmediale italiano è Romanzo criminale che al libro del 2002 di Giancarlo De Cataldo ha visto succedersi il film del 2005 diretto da Michele Placido e la serie televisiva di Stefano Sollima trasmessa a partire dal 2008.
Nel saggio di Giovanna Benvenuti Gomorra, in tutte le sue varianti mediatiche, viene visto come un prodotto in linea con il generale rinnovamento del contesto culturale nazionale che prende il via con la trasformazione dell’industria culturale italiana a partire dalla metà degli anni Ottanta del Novecento quando, sull’onda di fenomeni analoghi già in atto in altri paesi, anche l’editoria nostrana intraprende un processo di concentrazione e di propensione all’internazionalizzazione. La ricerca di visibilità globale sembra divenire, dagli anni Novanta, un elemento centrale in un panorama italiano contraddistinto dalla sostanziale coincidenza tra produzione e commercializzazione.
Qualcosa di analogo accade anche nel settore audiovisuale che, all’inizio degli anni Duemila, adotta una strategia «orientata a produrre blockbuster in grado di alimentare un franchise, ovvero in grado di sostenere una product line di film simili e una gamma di prodotti di intrattenimento a esso collegati» (pp. 16-17). Tali strategie intraprese dall’industria culturale italiana, che così si allinea a quanto già da diversi decenni accade negli Stati Uniti, non mancano di determinare reazioni risentite nella critica e negli ambienti accademici sostanzialmente ostili al dominio della “cultura visuale” accusata di mettere in crisi lo “specifico letterario”. Tale timore ha finito spesso per prendere la forma della strenua difesa della distinzione tra letteratura alta e di massa.
Nel nuovo contesto narrativo italiano, figlio anche delle disillusioni, del ripiegamento sul privato e della grande trasformazione neocapitalista, diversi autori sembrano confidare più sulle caratteristiche empatiche e affettive proprie di una narrazione performativa, piuttosto che sulle capacità riflessive e costruttive. Tra questi autori la studiosa colloca Saviano che, individuando i limiti di un’operazione di mera esibizione di documentazione nella sua volontà di denuncia, preferisce sperimentare nuove forme di comunicazione in cui si intrecciano «prova documentaria, finzione e autofinzione romanzesche» (p. 25).
Da tali riflessioni nasce il libro Gomorra. Qui l’autore ricorre a «una strategia retorica intesa a eliminare, apparentemente, la stessa differenza tra lettore reale e lettere implicito, creando l’impressione che non esista mediazione nel dialogo tra autore e lettore» (p. 27). Lo scrittore adotta una strategia dell’enunciazione che fa coincidere il soggetto dell’enunciato con il soggetto dell’enunciazione tentando di rimuovere «ogni effetto di distanziamento o di controcanto: tra i due soggetti (quello dell’enunciato e quello dell’enunciazione), la coincidenza o la congiuntura sembrano funzionare senza che si formino residui di senso, senza che si aprano crepe o fessure. Si ha in questo modo una “presa di parola” che […] sembra, cioè, solamente implicata da una tensione etica che si riversa in dovere della “rivelazione”: lo scrittore (ossia il personaggio del racconto retroattivamente prodotto dal dispositivo di scrittura appena menzionato) ha così un unico scopo e un unico compito, quello di portare a evidenza gli addentellati del Sistema camorristico» (pp. 28-29).
Le gravi minacce ricevute da Saviano, che lo obbligano a vivere sotto scorta, tendono ad imporre al lettore una sorta di “fiducia acritica” nei suoi confronti e a tal proposito non sono mancate prese di posizione ostili nei confronti dell’autore accusato di utilizzare la fiducia che gli viene concessa per intervenire anche su questioni mal conosciute.
Benvenuti sottolinea come il patto su cui si fonda il rapporto con il lettore in Gomorra sia istituito dalle dichiarazioni del personaggio-scrittore che, tra le altre cose, insiste su come la situazione locale di cui narra non sia che un microcosmo di un meccanismo criminale di portata internazionale aprendo così il libro ad un interesse globale. Nel saggio viene ricostruita la genesi del libro Gomorra a partire dall’attività di Saviano come giornalista ripercorrendo le pubblicazioni degli articoli sul blog «Nazione Indiana» (2003-2005) e sulla rivista «Nuovi Argomenti» che fanno da traccia alla pubblicazione editoriale.
A proposito dell’accostamento della scrittura di denuncia di Saviano a quella di Pier Paolo Pasolini, Benvenuti sostiene che il primo «contamina la letteratura con qualcosa che probabilmente Pasolini avrebbe disdegnato, cioè appunto l’immaginario mediatico» (p. 64). Lo scrittore napoletano, però, continua la studiosa, si propone di introdurre uno scarto importante rispetto a tale immaginario «decostruendo il fascino che promana dagli eroi del male, ponendo al centro della narrazione la propria diretta testimonianza». Differente è anche lo “sguardo parziale” pur ricercato da entrambi gli scrittori e se Pasolini, rivendicando esplicitamente l’autonomia della cultura dalla politica, attribuisce al romanzo un valore differente rispetto a quello dell’articolo che riprende la cronaca, Saviano non intende fare distinzioni.
Se dal punto di vista letterario lo scrittore napoletano trae ispirazione da Pasolini, da quello cinematografico Scarface, nella versione di Brian De Palma del 1983, rappresenta un punto di riferimento importante come modello da rovesciare: si tratta pertanto di riscrivere il mito veicolato dal film al fine di depotenziarlo attribuendo valore a chi si oppone al nichilismo dell’eroe del male. «Nel libro la deepicizzazione delle storie di camorra è resa possibile dai continui inserti saggistici, riflessivi, che spezzano il filo della narrazione, già comunque organizzata a episodi. […] Se l’immaginario contribuisce a creare la realtà, occorre creare un mito positivo, quello di uno scrittore ribelle che sfida il Sistema» (pp. 75-76). Siamo di fronte a una costruzione che avviene sia dentro che fuori il libro e, sostiene la studiosa, Saviano ha dato luogo a un’automitobiografia volta a combattere una violenza intessuta di mitologia.
Il primo adattamento di Gomorra è per il teatro e lo spettacolo viene messo in scena la prima volta nel 2007 da Marco Gelardi che, in collaborazione con lo stesso Saviano, decide di ridurre la mole delle vicende narrate dal libro concentrandosi su di un numero limitato di storie. Il linguaggio, come nel libro, risulta aggressivo e iperbolico con personaggi fortemente tipizzati. «A differenza di quanto accade nel libro, la pièce introduce il legame costituito dalla presenza del protagonista Roberto, interpretato da Castiglione […] In tal modo, come nel libro, il personaggio Roberto si confonde con la persona di Roberto Saviano e tale sovrapposizione è resa ancora più stringente dalla decisione di inserire quale prologo dello spettacolo l’intero discorso tenuto da Saviano a Casal di Principe, del tutto assente, ovviamente, nel libro» (p. 111). La certificazione di veridicità della narrazione che nel libro viene data dall’ubiquità del narratore-testimone, nello spettacolo teatrale verrebbe garantita dal prologo.
Nella trasposizione cinematografica operata da Garrone, anziché affidarsi ad una poetica del dire volta a dissezionare la realtà esponendone la brutalità attraverso un registro stilistico dell’eccesso, si assiste invece ad un’operazione di sottrazione rifuggendo dal modello del gangster movie tradizionale. Il film elimina la figura di Saviano narratore e personaggio che nel libro rappresenta l’opposizione al degrado. L’opera cinematografica mostra il modo di vivere e la cultura di chi ha a che fare con la camorra evitando eccessi stilistici e spettacolarizzazioni. Anche Garrone si pone il problema di come rappresentare il Sistema evitando di conferire fascino al potere dei boss e, a tal fine, decide di raccontare cinque storie di personaggi di secondo piano evidenziando il contrasto tra le loro vite e l’immaginario cinematografico di cui si nutrono. «Il regista, dunque, favorisce una lettura del film come reportage di guerra, legando il significato politico alla sua capacità di presentarsi come veicolo di informazione e proponendo il proprio come un cinema di impegno civile» (p. 95).
Sarebbe dunque la modalità con cui il film cerca una risposta emozionale, oltre che cognitiva, ad indurre lo spettatore a prendere posizione contro la cultura malavitosa. Anche Garrone, come Saviano, intende dar conto delle ramificazioni globali del Sistema evidenziando come il suo funzionamento sia del tutto in linea con quello del neoliberismo. «Lo spettatore è così colto dal legittimo dubbio di non essere davvero al di fuori della guerra di camorra, se è vero che essa è metafora di una guerra indotta dal sistema capitalistico, qui guardato nel suo volto più oscuro e cupo, nella sua disumanità» (p. 99).
Secondo Benvenuti il film non dovrebbe essere ricondotto all’interno del genere noir, quanto piuttosto al racconto distopico e, per certi versi, ciò appare ancora più evidente rispetto al libro grazie all’omissione della presenza dell’eroe-testimone che si ribella al Sistema. «La lettura distopica della realtà attuale situa il libro di Saviano in bilico tra un presente nel quale la catastrofe è in atto e un futuro ancora possibile, ma segnato da eventi che non sembrano avere fine, anche perché riproducono, in forme diverse, la catastrofe che è da sempre in atto. Se nel libro Saviano si prospetta come il sopravvissuto, che reca testimonianza della catastrofe, quasi assurgendo al ruolo di eroe tragico – mentre la prospettiva di Garrone rimane sempre quella di un outsider –, possiamo attenerci per lui – ma, in ultima analisi […] per la filiera mediatica che inaugura – alla definizione proposta da Giorgio Agamben di colui che, sempre inattuale e inadeguato rispetto al proprio tempo, può definirsi davvero “contemporaneo”» (p. 104).
Come Romanzo criminale, anche la serie Gomorra assume il punto di vista criminale sul mondo, permettendo così, come solitamente avviene nel genere noir, di mettere in scena lo sguardo sul lato oscuro del Paese, fatto di criminalità, certo, ma anche di relazioni intessute da quest’ultima con quei poteri che si presentano come la quintessenza della legalità. Come era accaduto con Romanzo criminale, dopo il successo del libro e del film arriva la serie televisiva, in questo caso particolarmente votata all’esportazione del brand a livello internazionale.
Secondo la studiosa la serie non può essere considerata come un adattamento del libro o del film: siamo piuttosto di fronte a una loro espansione narrativa forte anche di ricerche sugli sviluppi del Sistema svolte da Saviano successivamente. Lo showrunner della prima serie, andata in onda nel 2014, è Stefano Sollima, con diversi episodi affidati nel varie stagioni (2014, 2016, 2017) alla regia di Francesca Comencini, Caludio Cupellini e Claudio Giovannesi.
In linea con la pratica transmediale, la serie è pensata per essere fruibile autonomamente dal libro e dal film che l’hanno preceduta; è pertanto possibile approcciare il brand Gomorra a partire da una qualsiasi delle sue produzioni per poi decidere se e come affrontare le altre. La vera novità della serie, secondo Benvenuti, risiederebbe nella volontà di «rappresentare una storia criminale che molto deve alla tradizione del gangster movie, seguendo codici e ricercando effetti che gli spettatori sono abituati a incontrare nella serialità statunitense, ma non i quella nostrana» (p. 131).
Le esigenze della serialità televisiva comportano una modalità narrativa capace di fidelizzare l’audience tendenzialmente attraverso un’economia affettiva incentrata sui personaggi. Uno dei grandi problemi posti dalla serie è pertanto come riuscire a conciliare personaggi che permettano al pubblico di affezionarsi con il brand Gomorra costruito sulla negazione di eroi del male affascinanti. Come può, allora, distinguersi da altre serie, a cui narrativamente strizza l’occhio, magari non interessate all’impegno e alla denuncia? Sarebbe «in primo luogo Roberto Saviano a garantire il patto realistico sul quale è concepita la serie. Insieme a lui, il patto è garantito dagli espliciti pronunciamenti di registi, produttori e attori» (p. 133).
A differenza del film di Garrone basato sulla sottrazione, la serie intraprende la strada del tono epico della saga familiare di mafia. «Rinunciando all’eroe che si ribella al Sistema […] la serie, diversamente da quando aveva fatto il film, costruisce una mostruosa epica del male, che solamente contaminandosi con la distopia, mantiene una distanza critica verso ciò che rappresenta» (p. 135). Ciò dovrebbe essere rafforzato anche dall’assenza del lieto fine sebbene, vale la pena ricordare, l’happy end manchi spesso anche nelle produzioni che tendono a mitizzare agli occhi dell’osservatore le figure dei malvagi. Nel caso di Gomorra, sostiene Benvenuti, la mancanza del lieto fine vorrebbe però ricordare al pubblico che ciò a cui ha assistito si perpetua quotidianamente nei territori controllati dalla criminalità organizzata e su tale pretesa di realismo sembrerebbe fondarsi la strategia di marketing dell’intero brand.
Quanto Gomorra riesca nel suo intento di evitare che lo spettatore provi empatia per i personaggi, capaci di dar luogo a un piccolo star system, è difficile da dire. Inoltre, ricorda la studiosa, la crescente forza iconica di Saviano lo pone al centro di una responsabilità importante visto che è divenuto parte integrante del sistema mediatico che promuove il franchise. «Il caso Gomorra permette di mettere in luce la complessità del rapporto fra scrittore e mediatori culturali (proprietari dei mezzi di diffusione dei prodotti culturali, logiche di mercato, committenza, pubblicità, addetti stampa, editor, conduttori televisivi), mostrando quali negoziazioni e quali contraddizioni siano caratteristiche della contemporaneità» (p. 197).
Con le riprese della quarta stagione alle porte, resta da chiedersi se davvero la serie televisiva sia riuscita nell’intento di ribaltare Scarface e se davvero abbia saputo evitare di mettere in piedi una sorta di racconto epico autoconsolatorio, anch’esso nichilista in fin dei conti, agli occhi di chi si torva a vivere quello squallore e quello sfruttamento che la serie intende denunciare. Roberto Saviano ha più volte sottolineato come l’eventuale immedesimazione del pubblico si dia non con la realtà ma con la sua rappresentazione. Questo, però, poteva valere anche per il film di De Palma. Evitando di scivolare in semplicistiche letture di causa-effetto, viene da chiedersi se, molto più semplicemente, rispetto alle nobili premesse, la montagna (il brand Gomorra) non abbia finito col partorire un topolino (per quanto esteticamente ben riuscito ed economicamente redditizio).