di Franco Pezzini
Al trovarsi davanti il termine toroja (to-ro-ja, PY Ep 705), possiamo immaginare che i decifratori della lineare B – la lingua micenea, quella in sostanza degli eroi omerici – saltassero sulla sedia: se non è affatto scontato che il riferimento geografico indichi ciò che a noi richiama, la traduzione “donna troiana” dà ancora di che emozionarsi. Lasciamo perdere per ora la questione se si tratti di “quella” Troia; e non entriamo neppure nel vivace dibattito che contrappone i fautori di una qualche storicità – sia pur poeticamente mediata – degli eventi narrati da Omero ai portavoce di una lettura ben altrimenti critica. Ma è un fatto che quel “come se”, con la riflessione sapienziale che si porta dietro, riguarda uno degli architravi del pensiero occidentale: non solo per le categorie fondamentali dell’assedio e del ritorno (sottolineate da Franco Ferrucci nel suo bel libro del 1974) che ormai fanno inespropriabilmente parte del nostro modo di leggere la realtà, ma perché a un livello anche più ampio e generale quella saga ha fornito materiale di riflessione per secoli. Come – restando al termine citato – in quelle ‘Troiane’ di Euripide che continuano a risuonare di salutare provocazione.
Un certo antimilitarismo emerge entro un po’ tutta l’opera del drammaturgo di Salamina, ma nel caso delle ‘Troiane’ (415 a.C.) il nesso con l’attualità è particolarmente pungente. La trama della tragedia è nota: caduta Troia, in un non-luogo fuori dalle mura seguiamo le vicende delle donne prigioniere degli Achei, in attesa di diventare serve o concubine – comunque schiave e deportate. Quattro donne spiccano nel gruppo, cioè Ecuba, la vecchia regina che ha visto morire massacrato su un altare il marito Priamo, dopo la progressiva strage dei figli; Cassandra la profetessa, che già presente cosa si profili all’orizzonte – per loro ma anche per i nuovi padroni; Andromaca vedova di Ettore, madre di quel piccolo Astianatte presto gettato giù dalle mura per estinguere la casa regnante; e infine Elena la Bellissima, causa almeno immediata della guerra. Ma se il contesto è quello (alla grossa) del 1200 a.C., la situazione messa in scena da Euripide richiama eventi assai più vicini. Infatti solo poco tempo prima (416 o 415 a.C.) Atene aveva deciso l’aggressione – con conseguente sterminio degli uomini e vendita in schiavitù di donne e bambini – all’isola di Melo, rea semplicemente di aver rifiutato di aderire alla lega delio-attica (a guida ateniese, ovviamente) ma disposta alla neutralità. Il contesto della guerra del Peloponneso non permetteva minuetti, ma quell’azione dal fetore di ragion di stato (l’inesorabilità della superpotenza, la sorte di chi non si allinea eccetera) aveva suscitato turbamento in città: ed Euripide, con la sua sincerità al vetriolo, porta il tutto davanti agli occhi dei concittadini – compresi quelli che materialmente hanno compiuto la strage e magari incassato le promozioni del caso. Rendiamoci conto, e pensiamo a qualche evento più vicino: con le ovvie differenze, un po’ come se i responsabili della macelleria alla Diaz andassero trulli trulli a vedersi qualche film d’azione e trovassero sullo schermo le proprie facce – più o meno mascherate o riconoscibili – con un giudizio nettissimo su quanto hanno compiuto.
Attraverso l’immagine delle donne delle città omerica si rende così voce alle schiave melie dei cortili delle case di Atene e di altre poleis dov’erano state vendute, ammutolite dallo shock e dagli stupri; ma insieme – e qui sta il valore universale dell’opera – a tutte le altre di sorte analoga, coro silenzioso e innumerevole nei secoli. I secoli prima di Euripide, ma ovviamente anche tutti i successivi: basti pensare alla rilettura di Jean-Paul Sartre (1964), con un occhio alla Guerra d’Algeria, ai volti moderni dell’imperialismo e a un’atomica che pare la prova provata che la guerra è sempre una sconfitta per tutti. E anche molto più avanti e nell’oggi, fino alle Troiane di quella guerra non ufficiale, “strisciante, clandestina, una guerra contro coloro che cercano di raggiungere i confini d’Europa per esercitare il diritto d’asilo. Contro persone che fuggono da guerre, da persecuzioni – politiche, religiose, razziali, anche di genere –, per cercare di raggiungere una terra dove vivere dignitosamente” (Luca Rastello, presentazione di La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, 2010 ma situazione non sostanzialmente cambiata): dove i soldati achei di turno sono per esempio i gendarmi di certi campi libici per migranti – o, con le differenze del caso, di certe località delle Alpi, teatro di drammi recenti – e i loro solerti colleghi/collaboratori di nazioni tanto sollecite sui diritti umani. Euripide sa bene di giocare con materiale scomodo: ed è per noi non semplicissimo entrare nella testa degli Ateniesi che quell’anno alle grandi Dionisie gli attribuiscono il secondo premio. Forse a fare i disinvolti e mostrare di non riconoscersi.
Una libera, splendida revisione della tragedia che attinge all’opera euripidea, alle riletture di Seneca e appunto di Sartre, ma con provocazioni da altri testi (passi di Mariangela Gualtieri, suggestioni di discorsi presidenziali americani, alcune parti scritte apposta), è stata messa in scena di recente a Torino: si tratta dello spettacolo Ossa, curato – adattamento, regia, in parte le scene – da Susanna Gianandrea e organizzato da Artisti Associati Paolo Trenta. Con passione, competenza e un’asciuttezza che valorizza la drammaticità, con originalità (ma non bizzarria) di soluzioni, la regista ha saputo sensibilmente evidenziare una serie di snodi per una lettura odierna. Non è entrata nei dettagli dei dibattiti dell’oggi, ma ha lasciato aperte le suggestioni nella loro latitudine ulcerante. Alcuni televisori mostrano strappi della vicenda – la distruzione della città, i massacri, le decisioni dei vincitori – in chiave di sobri, veloci servizi da telegiornale; un cumulo di panni sullo sfondo richiama gli abiti tolti a esseri umani lasciati nudi (fisicamente o simbolicamente) e le ossa stesse del titolo; le donne entrano in scena e progressivamente dismettono per lo stesso motivo mezze maschere da teschio; l’astrazione permette di lasciare trasparire libera l’eco da tutte le guerre della storia.
Quel che colpisce ed emoziona già a un primissimo livello è una concretezza (si passi il termine) anche molto fisica che gli attori sanno donare alle parti.
Partiamo dai due volti divini che nell’immaginario ateniese risultano in paradigmatica opposizione – da sempre, fin dal conflitto per assicurarsi il patronato sulla città –, cioè Atena e Poseidone. Ottimamente resi da Serena Inturri e Roberto Briatta (come due ingombranti candidati alle presidenziali americane in rapporto ai problemi dei paesi dipendenti) spiccano sulle loro tribune, concordando dall’inizio che quella dei Greci profanatori di templi sarà una non-vittoria. E quelle tribune – semplici parallelepipedi scuri – diverranno nella rappresentazione giacigli, sedili, strutture temporanee del campo di prigionia, come a ricordare continuamente tale profezia.
A sua volta di presenza fisica impressionante proprio nella sua fragilità, nella dignità pacata e dolente, controllata ma nel modo spontaneo di un’intera esistenza, è l’Ecuba di Irene Laganà (bravissima): e che proprio in quel trovarsi spezzata ma senza lacrime, in quell’aria provata che mantiene decoro e nettezza di parola giganteggia sugli energumeni in mimetica.
Davvero straordinaria – e ancora una volta estremamente fisica, fin nel suo finale trasporto fuori scena, rigida in un delirio di rabbiosa soddisfazione, “Sono la sposa del Sole…” – è la Cassandra di Maria Teresa Cavalli, che sa di divenire causa di morte e rovina per il regno più importante della Grecia. Prigioniera-amante di Agamennone, sarà la classica goccia che fa traboccare il vaso dell’ira della regina-moglie Clitemnestra, e dunque l’innesco per la mattanza al cuore della superpotenza nemica.
Serena Palma riesce a sua volta a reggere con intensità e sobria autenticità, senza quelle sbavature di melodramma che il contesto estremo poteva in teoria minacciare, la grande parte di Andromaca e in particolare la scena tanto difficile della sottrazione del figlio.
Quanto alla scintillante Elena di Delia Campia, sa trattenere tutta l’ambiguità dell’antica eroina: destinata certo – emblematico il sorriso torbido al capitolare di Menelao (Roberto Carelli) – a uscire dalla situazione meglio delle compagne, con quanto di equivoco ciò comporti, ma insieme irriducibile ai nostri facili giudizi. Del resto, come spiega a propria difesa, lei era una semplice pedina nel pacchetto della famosa gara di bellezza tra le tre dee, quando Paride aveva attribuito il frutto ad Afrodite, che gli prometteva appunto l’amore della donna più bella del mondo. Ma – continua – se il principe avesse scelto diversamente, premiando per esempio la dea-regina Era, Troia sarebbe diventata potentissima e tutta la Grecia sarebbe finita sotto il tallone dell’Asia: davvero Menelao & Co. avrebbero voluto questo? Un’ipotesi dal sapore di minacciosa ucronia per un pubblico ateniese i cui nonni se l’erano vista brutta coi Persiani… Ovvio, il personaggio resta molto ambiguo, ma è impossibile non ascrivere anche Elena a una situazione generale che vede la donna comunque prigioniera.
Fin qui una plasticità delle figure in scena, una fisicità con cui idealmente si contrappongono all’indefinitezza di uno spazio, di una sorte. Ma c’è anche una dimensione più sfuggente: qualcosa che lo spettatore antico coglieva più facilmente, noi dobbiamo invece sforzarci di ricostruire e in fondo qui può emergere per suggestioni simboliche. Ecuba, Cassandra, Andromaca ed Elena trattengono infatti connotazioni – dimensioni, ombre più lunghe gettate dalle loro figure – tali da rendere ancora più spiazzante il dramma.
Ecuba non è semplicemente una regina ma la regina per antonomasia: Hekábē è il nome della Grande Madre frigia, la madre degli dei Kubaba/Cibele (per questo Ecuba ha tanti figli?) e potrebbe richiamare il nome stesso di Ecate, la regina dei morti (cui è associata in vari miti tramite il binomio mutazione in cagna & morte legato alla sorte dell’ex-sovrana). Se su un’epica micenea possiamo solo azzardare ipotesi, una proto-Iliade potrebbe aver visto metaforizzare in linguaggio mitico-religioso lo scontro tra popoli come battaglia dei loro dei: e forse la protettrice della città vinta era proprio una dea-regina Ecabe. Ma anche spiegando il nome diversamente (per esempio Hekábē come semplice titolo divino di ogni regina del luogo, a postularne una pluralità e chiarire così la presenza di genealogie stranamente divergenti su una figura tanto importante) resta il fatto di una dignità archetipica della figura. Vederla avvilita e prigioniera è insomma qualcosa di molto più forte di quanto superficialmente percepibile: in scena è una crisi generale, di paradigmi.
A sua volta Cassandra non è semplicemente una profetessa ma una posseduta dal dio, forse il massimo dio di Troia: quei discorsi che Atena e Poseidone intrecciano all’inizio – dati certi presupposti, i vincitori finiscono malissimo – Cassandra lo rende oggetto di rivelazione tra le prigioniere. Se consideriamo che nell’ambito del collasso dell’età del bronzo ad abbattere le città degli eroi omerici furono con ogni probabilità anche lotte intestine, guerre civili, convulsioni sociali, ci rendiamo conto di quale sia il tipo d’innesco esplosivo di cui Cassandra stia parlando. I vincitori conosceranno la guerra nelle loro famiglie, nei loro rapporti di coppia: fuor di metafora, chi permette certi orrori anche nell’oggi la divisione se la troverà in casa a devastargli la vita, non capirà, ma avrebbe solo dovuto ascoltare… Ridurre Cassandra a quella che sa il futuro e non le credono è dunque banalizzante: e la prigionia avvilita di una figura come questa rende ancora più esplosiva la rivalsa che annuncia.
Andromaca. Lei non è – almeno per quanto possiamo sapere – figura di una dea, né posseduta da qualche dio. Eppure assurge ad archetipo: la sua struggente scena di addio da Ettore nell’Iliade potrebbe costituire (si è ipotizzato) un testo autonomo, a un certo cucito lì da un Omero. Il fatto è che Andromaca è – per antonomasia – la sposa del guerriero: la sposa del soldato, di ogni soldato del mondo, quella che vede partire il compagno e resta con il cuore in gola ad aspettare. Trovarla tra le prigioniere è un memento non da poco al pubblico ateniese: se qualcosa non va come previsto, se la guerra (del Peloponneso o qualunque altra) finisce male quello diventa il ritratto di tua moglie. Vederla prigioniera in quel campo è insomma particolarmente scioccante.
E infine Elena: per cui torniamo alle dee, perché l’ambigua, equivoca, pazzesca creatura per il cui fantasma (in tutti i sensi possibili) la gente s’è ammazzata per dieci anni mantiene ben chiaro uno statuto superumano. Feltrinelli ha appena pubblicato un romanzo di impressionante, persino imbarazzante bellezza scritto da un autore molto giovane, La Splendente di Cesare Sinatti, che ha vinto il Premio Calvino 2016 e che aiuta a capire quanto Elena abbia ancora da dirci nella sua spiazzante numinosità. Non si tratta insomma soltanto – diciamo così – della prigioniera che in qualche modo se la sfanga: Elena è la dimostrazione vivente della fragilità dei vincitori, del loro scarso controllo di fronte alle emozioni e alla stessa bellezza.
E insomma eccole, queste quattro donne infagottate tra le altre prigioniere. Come recita la presentazione dello spettacolo, “Una madre, una figlia, una moglie e un’adultera si trovano insieme, prive di una qualsiasi speranza e denudate dei loro abiti e del loro ruolo sociale, obbligate dal nemico ad assoggettarsi ad altre culture e religioni. La loro unica arma è la parola, strumento di un’urgenza di raccontare le proprie storie alla ricerca di una legittimazione in quanto persone”. Una parola che non permetterà loro individualmente di salvarsi (tutte, lo sappiamo, avranno sorti più o meno tristi – anche Elena, alla fine linciata delle vedove dei morti sotto Troia) ma che testimonia l’irriducibilità di ogni singola voce a quel cumulo di panni morti, protesta le loro ragioni a una pubblica coscienza e le traghetta come provocazioni nel tempo. Intercettare quelle voci, farle risuonare ancora, strapparle allo spazio del non-logos – della chiacchiera privata o pubblica o semplicemente della tacita rimozione di quei non-luoghi di prigionieri e profughi – è oggi importante quanto nell’Atene di Euripide.
E poi ci sono gli altri, i vincitori. Vediamo in scena il vilain Ulisse (Gabriele Valente) portatore della ragion di stato, il citato Menelao diviso tra brutalità e fragilità, alcuni silenziosi soldati greci (Gian Piero Craveri e Mariangelo Filo Rubini), nelle divise – non è strano – di eserciti moderni. Ma soprattutto c’è Taltibio (Lorenzo Audisio, molto efficace), araldo di Agamennone e “impiegato della guerra”: gestore nervoso, preoccupato e solerte del fastidio rappresentato dagli sconfitti. Neppure lui ha ancora capito quel che incombe: cioè l’esplosione di un mondo, delle solidarietà comunitarie, familiari e generazionali, fin dal tessuto concreto delle singole vite. Chi ha vinto male è destinato a perdere tutto.
È inevitabile domandarsi chi sia oggi Taltibio, quali ne siano i volti. Non ha necessariamente una divisa addosso, perché certi accordi internazionali sono firmati da civili o presunti tali; e può notarsi persino un certo sgomitare per entrare in quella parte, sedere a quei tavoli, garantire – a dispetto, magari, di strombazzate proteste di cambiamenti – una sorda, assoluta e criminosa continuità. Nel panorama grigio della stagione in cui viviamo chi è Taltibio? Chiudiamo con questa domanda e teniamocela stretta in un esame di coscienza, perché può aiutare a non cadere in buonismi da salotto.
Il cast di Ossa, tutti davvero molto bravi, comprende poi anche Anco Orsini (Enea), Umberto Biagini (un Anchise commovente), Arianna Vagnoni, Antonella De Bonis e Rosy Trischitta (Troiane/reporter) e Chiara Talarico, il cui ruolo mitico di Danaide danzatrice finisce con l’evocare una quinta principessa assente dalla scene, Polissena massacrata sulla tomba di Achille. Immagine di tutte le assenti dalle ‘Troiane’ di tutte le epoche perché, semplicemente, sono state cancellate: sta a noi cogliere anche il loro sussurro.