di Sandro Moiso

Mumia Abu-Jamal, Vogliamo la libertà. Una vita nel Partito delle Pantere Nere, a cura di Giacomo Marchetti, Mimesis 2018, pp.224, € 18,00

La risposta fornita da Mumia Abu-Jamal alla domanda è: “quando è un bambino nero” e forse in questi giorni verrebbe anche da dire “quando è un bambino palestinese”, ma l’affermazione, che è contenuta a conclusione del saggio “Tamir Rice of Cleveland”, scritto dal militante Black Panther nell’ottobre 2015 in occasione dell’omicidio per mano delle forze del dis/ordine di un dodicenne afro-americano che ‘brandiva’ un’arma giocattolo in un parco cittadino, può essere utile per dare la cifra di ciò che ha smosso l’animo di decine o centinaia di migliaia di afro-americani, oltre che dello stesso Mumia, anche in anni recenti.

E’ proprio a partire da considerazioni come quella appena esposta che diventa utile e necessaria la lettura del testo la cui recente pubblicazione è stata curata da Giacomo Marchetti, già distintosi, tra le altre cose, per la precedente traduzione e cura, insieme a Nora Gattiglia, dell’autobiografia di David Gilbert, militante dei Weathermen e del Black Liberation Army: “Amore e Lotta” (Mimesis 2016). Anche in questo caso Marchetti antepone al testo una dettagliata introduzione in cui il lettore potrà trovare una ricostruzione dell’esperienza come rivoluzionario e come pubblicista di Mumia Abu-Jamal, una delle voci più autentiche e sofferte dell’America di oggi e di ieri. Un autentico storico e cronista “dal basso” che potrebbe già essere definito tout court, come qualcuno ha già fatto, la voce dell’America.

Non solo dal basso, ma dal fondo del ventre della bestia, ossia da quelle carceri americane in cui l’autore è stato rinchiuso fin dal 1981 come autore dell’omicidio di un agente di polizia. Con questa accusa, mai provata con certezza e a dispetto della dichiarazione di estraneità al fatto sostenuta dall’imputato, Mumia fu condannato a morte e per questo rinchiuso nel braccio della morte per più di vent’anni, in cui oggi non è più detenuto poiché la sua condanna è stata trasformata in ergastolo a vita.

Wesley Cook, nome con il quale è stato battezzato alla sua nascita nella Philadelphia degli anni ’50, entrò giovanissimo nell’organizzazione del Black Panther Party e si mise da subito in mostra per il suo coraggio e per la sua indomita volontà nel perseguire, come giornalista, la verità dei fatti.
Nonostante le condizioni di isolamento e i maltrattamenti, paragonabili a quelli messi poi in pratica ad Abu Ghraib e Guantanamo, l’operazione di annichilimento della sua personalità e delle sue convinzioni politiche non è mai, neppure parzialmente riuscita e la sua opera di cronista della condizione afro-americana, sia in carcere che all’esterno, sta ancora lì a dimostrarlo.

Come afferma Marchetti nella sua introduzione:

“Negli Stati Uniti vive il 5% dell’intera popolazione mondiale, ma viene detenuto il 25% della popolazione incarcerata dell’intero pianeta – 2 milioni e mezzo di persone – di cui l’8,5% si trova in carceri private.
Di questi 2,5 milioni di detenuti, ben 900.000 sono costretti a lavorare in modo gratuito o per 15-20 centesimi l’ora, talvolta anche per dodici ore consecutive al giorno. Soprattutto negli ultimi anni, in cui i bilanci statali si sono ridotti, le carceri hanno lanciato nuovi programmi di lavoro sia all’interno che all’esterno.
Il lavoro in carcere è un ottimo affare per le grandi multinazionali, che possono sfruttare manodopera a bassissimo costo, ad esempio per assemblare prodotti per Walmart, confezionare il caffè per Starbucks, cucire vestiti per Victoria’s Secret o svolgere attività di call-center per compagnie telefoniche come AT&T. Pagare 20 cent all’ora invece che 5 dollari o non pagare affatto i lavoratori è un business appetibile sia per i governi che per le corporations, che annualmente ricavano dall’industria carceraria un volume di affari pari a 2 miliardi di dollari.
L’incarcerazione di massa e il lavoro pressoché gratuito nelle carceri hanno fatto assumere alla condizione detentiva un volto non dissimile dalla vecchia schiavitù”.1

Cosa che non tradisce affatto il tredicesimo emendamento della costituzione americana che recita così: La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura.

Il testo oggi tradotto da Giacomo Marchetti e Marco Pellegrini è stato pubblicato inizialmente nel 2008 dalla South End Press e ricostruisce non soltanto i passaggi e i percorsi della vita dell’autore come militante rivoluzionario, ma anche il percorso di resistenza e lotta (spesso armata) che la componente afro-americana della società nord-americana ha dovuto condurre per la propria sopravvivenza e la difesa della propria dignità fin dagli albori del forzato trasferimento dei suoi componenti dall’Africa ai territori dei futuri, e attuali, Stati Uniti.

Come afferma ancora il curatore:

“Un grande merito di We Want Freedom è quello di collocare la storia delle Black Panther all’interno di un ciclo storico di resistenza che inizia con la riduzione in schiavitù dei Neri africani ma non si esaurisce con la dissoluzione del “Partito” nella sua forma unitaria, dopo le sue molteplici scissioni”.2

All’interno di queste vicende mi sembra particolarmente importante sottolineare e segnalare i primi due capitoli, in cui viene ricostruita la lotta degli afro-americani in un’ottica che un mai sufficientemente sopito democraticimo di maniera e non-violento ha spesso evitato di sottolineare: quella della resistenza armata e violenta contro il potere e le violenze degli oppressori .

Per diradare ogni possibile dubbio Mumia Abu-Jamal afferma:

“Per decenni, studiosi e storici hanno ignorato il BPP. Nel contesto della lotta e della resistenza dei neri non era il benvenuto, veniva considerato una sorta di figliastro.
Le onorificenze della lotta dei neri nel XX secolo sono andate tutte ai veterani del movimento dei diritti civili, simboleggiato dal martire Martin Luther King, accettato dalle élite bianche e nere. Il messaggio di perdono cristiano del Dott. King e la sua dottrina del “porgi l’altra guancia” tran¬quillizzavano la psiche dei bianchi. Per gli americani abituati al comfort, il Dott. King era soprattutto sicuro. Il BPP era l’antitesi del Dott. King.
Il Partito non era un movimento per i diritti civili. Non porgeva l’altra guancia. Era fortemente laico. Non predicava la non-violenza, ma praticava il diritto umano all’autodifesa. Aveva un orientamento socialista e rivendicava (dopo un plebiscito nazionale e un voto) la creazione di uno Stato-nazione nero, separato, rivoluzionario e socialista. Non tranquillizza¬va gli americani bianchi.
Per gli studiosi e gli storici della fine del XX secolo, il BPP rappresentava un’anomalia, non un discendente storico di una linea estremamente lunga di combattenti della resistenza nera. La storia degli africani in America è una storia di profonda resistenza, di tentativi di governo nero indipendente, di autodifesa, di rivolta armata, di aspre battaglie per la libertà. È la storia della resistenza contro l’in¬cessante incubo della “democrazia” della Herrenvolk (razza dominante) americana […]Le origini della resistenza possono essere ricondotte al 1526, quando da una nave spagnola carica di schiavi africani in catene ancorata nell’odierno South Carolina fuggirono quasi un centinaio di uomini. Questi uccisero molti schiavisti e fuggirono nelle dense foreste vergini per unirsi agli abo¬rigeni locali, vivendo liberamente come la loro razza non avrebbe potuto fare per i successivi 400 anni”.3

Gli episodi di questa resistenza costellano la storia degli Stati Uniti dalle loro origini e per i due secoli precedenti, fino ai nostri giorni. Insieme a questi episodi, però, si manifesta spesso non solo la volontà di liberare la popolazione afro-americana, ma anche una sorta di solidarietà con le popolazioni aborigene e, nonostante tutto, pure con gli strati più marginali della popolazione bianca.
Sotto questo punto di vista può essere d’esempio la storia della lunga guerra condotta dall’esercito degli Stati Uniti contro le tribù Seminole della Florida.

“Molti africani vissero liberi tra i Seminole, facendo da interpreti o guerrieri e alcuni divennero perfino capi. La libertà dei neri fu il motivo dell’allontanamento dei Seminole dalla nazione Creek e della formazione della tribù. Il trattato di Colerain del 1796 includeva un impegno per i Creek di restituire i fuggitivi neri ai proprietari, che però non vincolava i Creek che vivevano a nord del confine della Florida e i Seminole che vive¬vano a Sud dello stesso confine, i quali non si sentirono mai vincolati dal patto e questo li allontanò per sempre dai loro simili del Nord. Studiosi del calibro di J.Leitch Wright Jr. definiscono i popoli di questa regione col termine di Muscogulges, in parte perché parlavano la lingua Muskogee. Egli nota che il termine Creek è un termine inglese utilizzato per indicare i popoli che abitavano le regioni rivierasche del Sud-Est. Ana¬logamente, il termine Seminole è un appellativo spagnolo che deriva dalla parola cimarron, un termine ispanico-americano per fuggitivo.
Wright narra che gli “indiani neri” ebbero un ruolo cruciale nel rendere il territorio Muscogulge, o Seminole, un luogo di attiva resistenza per la libertà dei neri […]Molti americani conoscono la storia delle guerre “indiane”, ma pochi sanno che le battaglie più dure si combatterono nelle tre guerre contro i Seminole e che queste guerre furono combattute essenzialmente per la liberazione dei neri. Gli africani che combatterono dalla parte dei Seminole furono talmente tanti che il generale USA Thomas Jesup scrisse: «Questa, siatene certi, è una guerra contro i negri, non contro gli indiani»”.4

Nel 1851 l’ignobile Fugiti¬ve Slave Act (FSA) del 1850, che minacciava le vite e la libertà di tutti i neri, schiavi o “liberi”, sarebbe stata alla base della resistenza di Christiana, in Pennsylvania in cui l’azione di William ed Eliza Parker, coraggiosi combattenti e promotori dell’autodifesa armata dei neri fuggiaschi, ebbe all’epoca un esplosivo impatto politico e sociale.

“Ai primi di settembre del 1851 Edward Gorsuch, uno schiavista del Ma¬ryland, appoggiato da familiari, amici e un Marshal degli Stati Uniti, colpì il villaggio di Christiana, in Pennsylvania, per ricatturare molti schiavi fuggiti. Sfortunatamente per lui, le sue prede si erano stabilite in una comunità organizzata e armata che non aveva alcuna intenzione di permettere che i propri membri tornassero in catene.[…] I nove bianchi armati furono affrontati da cinque neri armati; quando Di¬ckinson disse al padre di lasciare perdere e tornare con cento uomini armati, William Parker gli rispose di portarne anche cinquecento. “Per prenderci vivi ci vorranno tutti gli uomini di Lancaster”. Eliza Parker poi chiamò gli altri del gruppo di difesa suonando un corno e lo US Marshal le sparò, mancandola. Il suono richiamò circa quarantacinque altri neri e contadini bianchi, quaccheri, armati. Eliza non solo chiamò aiuto, ma sostenne anche che bisognava resistere quando alcuni in casa vacillavano. Il marito più tardi scrisse che Eliza “afferrò una falce da granturco, simile a un machete, e dichiarò che avrebbe tagliato la testa a chi avesse tentato di arrendersi”. Parker raccontò anche i dettagli della sua lotta col testardo Gorsuch, che aveva evidentemente scelto la «colazione all’inferno»”.5

L’elenco degli episodi di resistenza e lotta, anche vittoriosa, contro l’oppressione razziale e padronale è lungo e non si può qui nemmeno riassumere. Basti sottolineare che sarà la rivolta di Watts, sobborgo di Los Angeles, nel 1965 a far esplodere ancora il problema delle disuguaglianze sociali, economiche razziali negli Stati Uniti e a rendere evidente ai giovani afro-americani come Bobby Seale e Huey Newton la necessità di auto-organizzazione politica e militare delle comunità nere e a rendere successivamente possibile la nascita del Black Panther Party e la sua rapida diffusione a partire dalla Costa occidentale a tutti gli altri stati dell’Unione.

Certo tale sviluppo politico non poteva essere disgiunto da quella guerra in Estremo Oriente in cui i soldati di origine afro-americana erano usati come carne da macello e, proprio per questo motivo, finivano col solidarizzare con i vietnamiti e uccidere, più spesso di quanto si racconti, i loro propri superiori in grado bianchi. Dando vita ad una solidarietà internazionalista che avrebbe poi contraddistinto nel tempo il Black Panther Party.

Le pattuglie armate del partito cominciarono a girare per le strade dei quartieri neri e delle città, a fare controinformazione e contro-indagini sull’operato violento della polizia e giunsero ad occupare simbolicamente il parlamento dello stato della California a Sacramento. Tutto questo era reso possibile non solo dalla solidarietà di chi sosteneva l’azione del partito e dei suoi rappresentanti, ma anche dal fatto che in California il possesso di armi era tutelato dalla legge dello Stato e le armi potevano essere portate in pubblico, purché non fossero nascoste. Come avrebbe in seguito affermato Bobby Seale: “Mostrammo al popolo che eravamo pronti a morire per loro”.

Prima ancora della nascita dell’organizzazione del BPP, nell’agosto del 1965 la rivolta di Watts aveva mandato in fumo 200 milioni di dollari di proprietà ma, anche se 35 persone erano morte sotto il fuoco della polizia, non era esplosa nel vuoto. Nel 1964 e 1965 rivolte violente erano scoppiate in ogni parte della nazione, mentre nel solo 1967 (ve la ricordate l’”estate dell’amore”?) il National Advisory Committee on Urban Disorders ne contò centoventitre, più o meno gravi. Circa ottantatre persone furono uccise con armi da fuoco, la maggior parte a Newark e Detroit. Il Comitato notò che “la maggioranza schiacciante delle persone uccise o ferite erano civili negri”.

Il recensore si ferma qui per lasciare al lettore la possibilità di continuare una lettura sorprendente sotto molti punti di vista. Soltanto una riflessione è ancora d’obbligo in chiusura: tenendo conto che la NRA (National Rifle Association) soltanto durante il governo repubblicano di Ronald Reagan si dichiarò favorevole ad una riduzione della diffusione delle armi negli Stati Uniti, per il timore di un ulteriore allargamento delle organizzazioni militanti nere, la questione delle armi riguarda soltanto la loro diffusione oppure chi le porta e perché?

«Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto» (Secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America)


  1. Vogliamo la libertà, pag. 19  

  2. op.cit. pag. 20  

  3. Mumia Abu-Jamal, Gli inizi del Black Panther Party e la storia da cui è nato, in op.cit. pp. 41-42  

  4. op.cit. pp.51-52  

  5. pp. 59-60