di Fabio Ciabatti
Che differenza c’è tra l’eroe contemporaneo e quello antico? Non molta stando a una delle guide al mestiere di sceneggiatore più diffuse di Hollywood. Christopher Vogler nel suo libro Il viaggio dell’eroe1 utilizza la struttura del racconto mitologico, così come illustrata ne L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell, per spiegare agli aspiranti scrittori di copioni cinematografici l’articolazione essenziale di ogni possibile storia. Hollywood è la macchina per la produzione di immaginario più potente che sia mai esistita. Che bisogno ha di ricorrere a un modello così lontano e apparentemente inattuale?
L’eroe moderno, l’eroe borghese, secondo una consolidata tradizione critica, si costituisce in opposizione a quello epico. Per Luckàcs il romanzo rappresenta un mondo abbandonato da Dio. Per Bachtin il romanzo è la prima forma artistica che si apre al presente e alla sua incompiutezza, mentre l’epica si caratterizza come “passato assoluto”.2 Rivolgiamoci dunque a Campbell. “La parabola convenzionale dell’avventura dell’eroe costituisce la riproduzione ingigantita della formula dei riti di passaggio: separazione-iniziazione-ritorno… L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale; qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria; l’eroe fa ritorno dalla sua misteriosa avventura dotato del potere di diffondere la felicità fra gli uomini”.3
Questa struttura viene interpretata da Campbell in due modi diversi che hanno però lo stesso punto di arrivo: la conciliazione tra l’eroe e il mondo. In primo luogo, si tratta di un viaggio di iniziazione in senso proprio: l’individuo muore e rinasce nell’accettazione del ruolo da adulto che gli viene imposto dalla società, confermando l’identità tra individuo e gruppo. In secondo luogo la funzione dei riti e dei miti è quella di facilitare il passaggio, attraverso l’analogia, dalla caotica molteplicità in cui sono intrappolate le forme della sensibilità e del pensiero umano all’essenziale unità del cosmo. In questa seconda accezione, l’avventura dell’eroe è innanzi tutto un viaggio spirituale. Il mondo degli dei è una dimensione inconscia del mondo a noi noto che, propriamente, non viene scoperto ma riscoperto. La sovrapposizione tra queste due accezioni rende possibile, nei testi di Campbell, il ricorrere di una comparazione tra i riti di iniziazione delle società premoderne e i processi di formazione nella società moderna per lamentare in quest’ultima la mancanza di riti di passaggio.
In realtà iniziazione premoderna e formazione moderna sono due cose esattamente opposte. Nei riti di iniziazione l’individuo viene introdotto in un ruolo che gli preesiste immutabile e di fronte al quale le ragioni del singolo devono restare mute. La socializzazione moderna, come viene narrata nel romanzo di formazione ottocentesco è, al contrario, un processo che incoraggia un momento dinamico, giovanile, soggettivo, un “di più” rispetto all’autorità immediata.4 “La gioventù è esentata per qualche tempo dalla forza vincolante dei rapporti sociali: ma deve pur sempre tornare a misurarsi con loro – e di solito perde… Le grandi speranze sono appassite: illusioni perdute. La possibilità non è diventata realtà”.5
Nel romanzo di formazione l’eroe è normalmente sconfitto, ma per intraprendere la sua battaglia contro lo spirito oggettivo si deve contrapporre a esso come individuo unitario, autonomo rispetto alle norme sociali vigenti nella società. All’inizio del ‘900 questa struttura antropocentrica viene meno. Secondo Franco Moretti, nell’Ulisse di Joyce, Leopold Bloom è un personaggio ordinario cui non succede nulla di straordinario, che si adatta passivamente alla polifonia degli stimoli provenienti dal mondo degli oggetti, delle merci in una metropoli policentrica, senza dare a essi un significato. Con Joyce la sfida emancipatrice del romanzo di formazione viene abbandonata: trionfa la possibilità come possibilità, scompare lo scontro tra realtà e possibilità.
Accanto a questo filone storico letterario del romanzo “alto” si sviluppa un altro filone che, convenzionalmente definiamo “romanzo popolare” e che, secondo Umberto Eco, ha funzione eminentemente consolatoria. In esso ogni crisi aperta viene chiusa.6 Nella lotta tra il bene e il male vince sempre il primo definito secondo i valori dominanti. Lo scontro avviene all’interno del gruppo dei dominatori, buoni e cattivi, che sta al di sopra del popolo oppresso. La soluzione deve essere fantastica, immaginaria, anche se con sembiante realistico. Il lettore deve essere impressionato con colpi di scena, ma soprattutto deve essere tranquillizzato riproponendogli quello che già sa. I caratteri dei personaggi sono dunque prefabbricati, privi di penetrazione psicologica, favolistici, monodimensionali. La necessità di chiudere le crisi tende a una ideologia riformista, paternalista: cambiare qualcosa affinché tutto il resto rimanga immutato.
Torniamo ora all’eroe hollywoodiano. È comprensibile come l’eroe del romanzo di formazione non sia adeguato alle esigenze dell’industria cinematografica americana contemporanea. In fin dei conti si tratta del prototipo dell’eroe borghese in un epoca in cui questa classe è ancora alla ricerca di se stessa, lacerata tra una vocazione rivoluzionaria e una attitudine all’adattamento ai valori ancora egemoni dell’antico regime. Ma per quale motivo l’eroe del romanzo popolare non dovrebbe costituire il prototipo ideale della narrazione hollywoodiana? In effetti questa tipologia è stata ampiamente utilizzata, ma a un certo punto sembra aver mostrato la corda.
Secondo un altro diffuso manuale di sceneggiatura, L’arco di trasformazione del personaggio, i migliori film sono quelli in cui il protagonista, nell’affrontare la sua avventura, ha la necessità di modificarsi, acquistare consapevolezza e superare un problema interiore. I film in cui si compie l’arco di trasformazione del personaggio. Al di là dell’intreccio, il vero motore di una storia, ciò che la rende interessante, è il conflitto interiore dell’eroe, quello che viene definito il fatal flaw. Quest’ultimo si configura come “la lotta, che si svolge all’interno del personaggio, per mantenere un sistema di sopravvivenza ben oltre il momento in cui ha esaurito la sua utilità”.7 Infatti, per quanto sia essenziale il cambiamento, la maggior parte delle persone vi si opporrebbe aggrappandosi a vecchi sistemi di sopravvivenza, solo perché familiari e apparentemente più sicuri. Vediamo qui un esaltazione del mutamento in quanto tale. Infatti, “opporsi al cambiamento porta solo al decadimento morale e alla morte spirituale”.8
In fin dei conti le caratteristiche che deve avere l’eroe di una storia affinché sia accettabile per un’ampia fetta di pubblico dipendono dal tipo di società cui appartiene il pubblico stesso. Vorrei dunque concludere con una schematica ipotesi di lavoro: l’eroe del romanzo popolare è adeguato a una società capitalistica “classica”, fordista; l’eroe che cerca di delineare Vogler attraverso Campbell è invece l’espressione di una società, postmoderna, neoliberista.
La società industriale, fordista, secondo Laval e Dardot,9 aveva forgiato un tipo di soggettività a essa funzionale: l’uomo produttivo, efficiente, utile, docile nel lavoro, incline al consumo. Con il neoliberismo, però, il soggetto deve superare lo statuto passivo del lavoratore salariato. L’individuo si deve fare impresa, accettare la maggiore flessibilità richiesta dai cambiamenti incessanti del mercato. Deve lavorare su se stesso per trasformarsi perennemente, superare se stesso e rendersi sempre più efficiente. Deve esporsi al rischio e assumersi completamente la responsabilità di eventuali fallimenti. In sostanza con l’affermarsi della “nuova ragione del mondo” ci troviamo di fronte allo stessa esaltazione del cambiamento che abbiamo già visto, allo stesso richiamo alla necessità dell’individuo di mutare e di adeguarsi alle esigenze di un mondo in perpetua evoluzione. Se questo è il panorama, l’eroe tetragono, sempre uguale a se stesso del romanzo popolare non è più adeguato. Occorre un eroe flessibile.
Il rito di passaggio della mitologia, adeguatamente reinterpretato come viaggio interiore, diventa dunque un modello per il cambiamento il cui effetto ultimo è la riconciliazione con la realtà. Il viaggio dell’eroe mitologico indica la via affinché si possa compiere con successo l’arco di trasformazione del personaggio, compimento necessario in una società in cui nulla può rimanere uguale a se stesso. Ma, al tempo stesso, il prototipo di questo viaggio rimane il processo di iniziazione in senso stretto in cui l’individuo viene introdotto in un ruolo che gli preesiste immutabile. L’individuo deve cambiare per rispondere alle sollecitazioni che gli arrivano dall’assumere il ruolo di impresa. Ma questo ruolo non può essere mutato. È fuori discussione.
In sintesi, l’eroe del romanzo di formazione ottocentesco cerca di cambiare tutto per non riuscire a cambiare nulla; l’eroe del romanzo popolare cambia qualcosa per lasciare tutto il resto immutato; l’eroe “neoliberista” cambia tutto per non cambiare nulla. In tutti i casi abbiamo l’eroe come individuo che confligge con il mondo e in questo solitario scontro la sua identità viene negata, confermata o trasformata senza che questo possa modificare in modo sostanziale la realtà. Che vinca, perda o pareggi il gioco di squadra non fa per lui. “Che dei movimenti collettivi possano contribuire a costruire l’identità individuale e non solo annullarla, è una possibilità che la narrativa occidentale non ha mai esplorato”10 Immaginiamo di percorrere questa strada. Lungo il nostro cammino che tipo di eroe incontreremmo? E, addirittura, avremmo ancora a che fare con un eroe?
[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti, Fabio Ciabatti (qui e qui), Mazzino Montinari, Maurizio Marrone (qui e qui), Gabriele Guerra (qui e qui) e Pierpaolo Ciccarelli]
Cfr. Chris Vogler, Il viaggio dell’eroe, Audino, 2010. ↩
Cfr. György Lukàcs, Teoria del romanzo, SE, 2015 e Cfr. Michail Bachtin, “Epos e romanzo” in Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, 2001. ↩
Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, 2016, p. 41. ↩
Cfr. Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Einaudi, 1999. ↩
Franco Moretti, Opere mondo, Einaudi, 2003, pp. 137-8. ↩
Cfr. Umberto Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, 2015 e Umberto Eco, “Il mito di superman” in Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, 1999. ↩
Dara Marks, L’arco di trasformazione del personaggio, Audino, 2007, p.85. ↩
Ivi, p. 77. ↩
Cfr. Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, 2013. ↩
Franco Moretti, Il romanzo di formazione, ed cit., formato Kindle, pos. 5706. ↩