di Luca Baiada
Nel marzo 1996 Berlusconi è all’opposizione per finta, al governo c’è Dini, presto sarà sostituito da Prodi. C’è aria di campagna elettorale. Mentre sta per cominciare il processo Priebke per le Fosse Ardeatine, sull’«Espresso» di venerdì 22 – in quel fine settimana cade l’anniversario del massacro – si affaccia uno scandalo che assumerà proporzioni enormi.
Un articolo, firmato da Alessandro De Feo e Franco Giustolisi, svela l’esistenza di un archivio segreto, negli uffici centrali della giustizia militare, sulle stragi nazifasciste in Italia dal 1943 al 1945: decine di migliaia di morti. Contiene le indagini, alcune pronte per i dibattimenti, tutte frenate negli anni Quaranta e poi sepolte con un provvedimento illegale di archiviazione nel 1960. Si faranno approfondimenti, anche in Parlamento, ma ancora adesso su molti aspetti si ripetono versioni confuse.
Giustolisi darà il nome a quel deposito: Armadio della vergogna. Giornalista e scrittore, continuerà a battersi chiedendo la punizione dei colpevoli e l’attenzione degli intellettuali; nel 2007: «A proposito di silenzio, è ora di chiedere ragione all’informazione circa il suo tacere sull’armadio della vergogna. […] Non è, forse, quella dell’armadio, la più drammatica vicenda italiana e, se non altro, la più singolare di qualsiasi Stato occidentale?»[1].
Un coraggio frontale. Dicono che fosse impolitico; io ricordo i suoi modi vellutati come una carta vetrata. L’energia era quella di una locomotiva, la presa sui fatti avrebbe fatto invidia a un mastino. I pignoli notavano qualche imprecisione, i mediocri non sopportavano l’irruenza, l’apparato storceva il naso; ma si ammiri l’audacia e si rammenti Brecht: anche il grido contro l’ingiustizia fa roca la voce.
Ha fatto in tempo – si è spento il 10 novembre 2014 – a vedere la brutta sentenza del 2012 con cui la Corte internazionale di giustizia dell’Aia ha preferito la ragion di Stato alle persone: l’Italia trascinata in giudizio dalla Germania e condannata. Era già malato, al momento della bella sentenza della Corte costituzionale italiana del 2014, che ha smentito l’Aia e ha permesso di ricominciare a condannare lo Stato tedesco.
I tentativi di chiuderlo in un armadio cominciano presto. Dalla fine della guerra all’archiviazione dei fascicoli passano tre lustri, per l’archiviazione di Giustolisi si fa prima: poche ore dopo la morte, lo stesso giorno, si svolge il convegno L’immunità degli Stati dalla giurisdizione, all’università Luiss di Roma: la sentenza della Corte costituzionale è fresca di deposito, si parla di stragi e risarcimenti ma Giustolisi non lo nominano neanche.
E l’Anpi? Il giornalista riceve dall’associazione una tessera per i suoi meriti, poi viene allontanato. Vicenda ingarbugliata, ficcata in un periodo di gestione dell’Anpi romana superato con malumori. E poi, i suoi rapporti con l’Anpi sono stretti fra la battaglia politica e culturale da un lato, e dall’altro le norme burocratiche, con gli spigoli della condizione umana.
In realtà, la tessera di merito non era in linea con le previsioni e le tessere ordinarie sono soggette a rinnovo. Giustolisi riceve la tessera e partecipa alle riunioni; ma la questione delle stragi lo sconcerta, capisce che si deve fare di più. Ha notato che dopo la riapertura dell’archivio la macchina istituzionale va in salita, e che la Germania collabora sì alla ricerca di dati e documenti, ma per niente all’esecuzione delle sentenze italiane. Ha ragione: a cose fatte si celebreranno una ventina di dibattimenti, mentre l’archivio conteneva centinaia di indagini; di tutti i condannati nei processi usciti dall’Armadio, ne andrà in carcere solo uno.
Così insiste. Nel 2004, col libro L’armadio della vergogna, tenta una ricostruzione del grave insabbiamento[2]. Nel 2005 è sentito dalla Commissione bicamerale e la costringe a misurarsi con un uomo intransigente e non etichettabile: «Si è avuta la netta sensazione che il giornalista, collocato in un’area in senso lato “radicale” e molto critico in genere nei confronti delle istituzioni, non consideri la Commissione stessa come un “interlocutore valido”»[3]. In seguito se la prende con l’Anpi per «l’immobilismo delle cariatidi»[4]. Poi, ripubblicando il libro nel 2011, accusa i vertici dell’associazione di inefficienza e conformismo.
Insomma, a volte colorisce i toni, ma a Giustolisi non basta la scoperta dell’archivio, sente che quel sangue grida, vuole giustizia vera. In due incontri dell’Anpi, nel 2006 e nel 2008, riceve consensi e promesse; poi qualcosa cambia, e lui prova a spiegarlo, nel 2011, ricordando la sparizione della vecchia dirigenza: «Così è avvenuto grazie, soprattutto, a quelle che poi, morto Bulow [Arrigo Boldrini] e ritiratosi Casali, ho pubblicamente definito le cariatidi dell’Anpi nazionale, altrimenti dette, sempre da me e sempre pubblicamente, les rois fainéants, i re inutili, i re parassiti di merovingia memoria»[5]. Nel 2013 l’allora presidente nazionale Anpi Carlo Smuraglia racconta: «Giustolisi ha continuato, imperterrito, ad attaccare l’Anpi, quella del passato e quella del presente, i presidenti precedenti e quello attuale. Basti ricordare che quando sono andato ad un Comitato provinciale, a Roma, per un incontro “ufficiale” con i compagni romani, Giustolisi ha chiesto la parola per “chiedere le dimissioni del Presidente” (da poco eletto) perché “l’Anpi non fa nulla sulle stragi!”»[6].
Ma le famiglie delle vittime lo sentono dalla loro parte. Marcella De Negri, figlia di un caduto a Cefalonia, nel 2013: «Nella totale assenza delle istituzioni, tutte, e delle associazioni, […] Franco Giustolisi ha fatto la battaglia al mio fianco, sempre. Ha scritto articoli sui giornali, ha litigato, appoggiandomi, in passato, con alti magistrati militari, è stato presente»[7]. Luciano Bertinelli, anche lui figlio di un caduto a Cefalonia, lo conosce nell’Anpi e lo intervista nel 2012: «Sosteneva l’esigenza di lottare con ogni mezzo per rompere il muro di silenzio che era stato eretto intorno alle stragi. […] Avevo avuto l’impressione che lo trattassero come si trattano nelle riunioni di famiglia i vecchi zii, un po’ fissati e monomaniaci: con affetto, cioè, ma senza prenderlo troppo sul serio»[8].
Proprio nel 2012, quando l’ingiustizia della sentenza dell’Aia sembra irrimediabile, lui non molla: «Silenzio, ancora silenzio, sempre silenzio. Lo stesso comportamento delle associazioni, delle istituzioni, dei partiti»[9]. «Lo schiaffo maggiore arriva dall’Italia, che rimane in silenzio. L’Anpi in primis è immobile. Perché? Quale è l’inconfessabile segreto?»[10]. «Anche a non essere dietrologi si deve dedurre che c’è un mistero»[11]. Allora, Smuraglia: «Queste affermazioni sono del tutto prive di fondamento e profondamente offensive; e l’Anpi provvederà a tutelarsi, in ogni sede, se del caso»[12].
A novembre dello stesso anno: vattene. Un trattamento ben duro, anche perché si mette in dubbio la sua appartenenza sino ad allora; lui stesso si chiede se sia il caso di iscriversi con una tessera da semplice socio. Insomma, tessera valida, scaduta, da rinnovare? Tessera quale? La sua partecipazione era stata regolare, impropria, dubbia? C’è chi chiede all’associazione un ripensamento, per il giornalista che ha scritto: «Adoro il vecchio profumo di libertà che l’Associazione emana»[13]. Ma niente da fare. Lui va per la sua strada; ancora nel 2014 in un convegno al Senato: «Io dico che non ci può essere pace se non c’è giustizia»[14]. Pochi mesi dopo, all’estremo saluto c’è commozione grande, invece l’Anpi nazionale fa una nota di cordoglio senza dire che è stato dei suoi.
Avrebbe poco senso, adesso, rivedere col bilancino dei regolamenti una vicenda che divise un’associazione importante e un uomo risoluto. Del resto, un po’ tutto il mondo politico, culturale e istituzionale ha trascurato i temi che Giustolisi aveva cari. La sostanza è altrove.
Qualche ipotesi. Occorre chiedersi perché tanto imbarazzo di fronte a chi non si accontenta di storia o memoria, ma chiede giustizia. Giustolisi si è interrogato sulle mancanze e reticenze nel campo democratico, proponendo tesi articolate e difficilmente ricomponibili. Per esempio, ha attribuito l’Armadio della vergogna ai governanti dal giugno 1947 in poi, mentre ha sottovalutato gli altri e ha escluso responsabilità della sinistra, ma prendendo atto che il Partito comunista italiano non voleva troppi conflitti nel paese: «Una teoria mai scritta e catalogata, ma che ebbe gran forza e prese il nome di pacificazione»[15]. Insieme, certe sue letture tendevano in genere ad assolvere la dirigenza del Pci dell’immediato dopoguerra, ma a denunciare una linea accomodata delle forze democratiche negli anni successivi, specialmente nei più recenti: «Il tutto, in riferimento sempre all’Anpi nazionale, condito, evidentemente, dal più classico “quieta non movere”»[16]. E questo in una dinamica di equilibri, ambizioni, prudenze che lui non sopportava: «Forse credono ai fantasmi. Cosa si può dire? Che i consiglieri aspirano alla carica di assessori, gli assessori a quella di sindaci, i sindaci più in su, e, data la tendenza generalizzata, è bene evitare colpi di testa? Ma si guardano mai allo specchio? Cosa vi leggono? Volti indifferenti, colpiti da quel male, l’indifferenza, che Elie Wiesel ha definito il peggiore del mondo»[17]. Chi combatte l’indifferenza non ha vita facile, lo impararono bene Antonio Gramsci e Lorenzo Milani.
L’anno scorso a Como, nel Centro culturale tedesco, si è svolto un convegno voluto da Berlino e finanziato da una fondazione intitolata a un nazista, per aiutare la Germania a continuare a non pagare i risarcimenti. Mentre in un convegno italiano il debito tedesco per le stragi e i deportati non tornati è stato quantificato in oltre cento miliardi, Berlino sborsa meno di quattro milioni per il riparazionismo, cioè per monumenti, restauri e iniziative culturali, per esempio l’Atlante delle stragi, un prodotto deludente ma gradito alla diplomazia tedesca. Il rapporto fra lo speso e il dovuto, nell’ipotesi più rosea per l’Italia, è di quattro a centomila. Contro questo stato di cose miserrimo, un gruppo di sezioni Anpi della Toscana – la regione più colpita dalle stragi – si è espresso con una lettera convincente, senza esito. Eppure nello stesso periodo Sergio Fogagnolo, figlio di un caduto in una strage e presidente di una sezione lombarda, si è dimesso dall’Anpi anche per le sue perplessità sull’Atlante. In una nota pubblica del luglio 2017, l’allora presidente Smuraglia ha prospettato persino l’eventualità di agire in giudizio contro i sopravvissuti alle stragi che contestano. Intanto l’Avvocatura dello Stato italiana è intervenuta nei processi civili intentati dalle vittime, e ha preso posizione contro di loro per ordine della Farnesina, assumendo di fatto la difesa tedesca. Siamo a questo punto: se le vittime fanno causa alla Germania, lo Stato italiano la difende; se protestano, l’Anpi dice che potrebbe far causa a loro. Eppure, quest’anno per il Giorno della memoria il presidente Mattarella ha denunciato l’indifferenza e ha ricordato «la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati» nella Shoah: nell’Armadio i casi di assassinio di ebrei e quelli di strage ebbero lo stesso trattamento. Questi temi sono aperti; viene da chiedersi che direbbe Giustolisi.
Ma chiedersi cosa farebbe chi non è più, è solo un modo per eludere il problema. Conta cosa facciamo noi, da vivi, mentre la memoria si traveste da giustizia e si dice Europa pensando Germania.
In fondo, nella metafora dell’Armadio della vergogna c’è la questione dell’autostima degli italiani, mortificata come in una punizione infantile, di quelle della scuola miope e superstiziosa. Dietro l’armadio, contro il muro, il silenzio, l’ubbidienza cieca, niente domande scomode, il capoclasse spione, la solitudine, la coscienza che insorge, il cuore che reclama voce, attenzione, fratellanza.
Nel film dei Taviani San Michele aveva un gallo un bimbo viene chiuso fra due porte, al buio come in un armadio, e da grande diventa un cospiratore (è ispirato a un racconto di Tolstoj, ma la scena del castigo al buio è italiana). Queste educazioni lesive, queste squalifiche profonde vogliono fabbricare marionette, a volte forgiano ribelli, sempre lasciano cicatrici. Il fascismo fu anche questo, un suicidio postumo del Risorgimento, in cui i nipoti dispersero le faticose conquiste dei nonni. Se non abbiamo più il battagliero Giustolisi, almeno proviamo a decifrare chi siamo.
Ci sono momenti in cui si cammina a tentoni, da soli. Giustolisi, che ha svelato all’opinione pubblica l’Armadio, non ha visto la fine dell’ultimo processo, chiuso nel 2015. Unghia del mignolo di un Mosè con la penna all’arrabbiata, si è spento sulla soglia di una terra promessa in cui non siamo entrati neppure noi.
[1] Daniele Biacchessi, Il paese della vergogna, Chiarelettere, Milano 2007.
[2] Franco Giustolisi, L’armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma 2004.
[3] Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, Relazione di minoranza.
[4] Biacchessi, Il paese della vergogna, cit.
[5] Franco Giustolisi, L’armadio della vergogna, BEAT, Roma 2011.
[6] https://groups.google.com/forum/#!forum/deportatimaipiu.
[7] https://groups.google.com/forum/#!forum/deportatimaipiu.
[8] http://municipio2roma.anpi.it/incontri/.
[9] «il manifesto», 2 ottobre 2012.
[10] «il Fatto Quotidiano», 2 ottobre 2012.
[11] «BBC History Italia», n. 19 (novembre 2012).
[12] comunicato Anpi 5 ottobre 2012, www.anpi.it.
[13] «il manifesto», 14 agosto 2011.
[14] webtv.senato.it.
[15] Biacchessi, Il paese della vergogna, cit.
[16] Giustolisi, L’armadio della vergogna, 2011, cit.
[17] Giustolisi, L’armadio della vergogna, 2011, cit.