di Fabio Ciabatti
Enzo Traverso, I nuovi volti del fascismo, Ombre Corte, 2017, pp. 141, € 13,00.
Il fascismo può tornare? La domanda non appare retorica dopo la tentata strage di Macerata e la diffusa accondiscendenza, se non aperta approvazione, con cui è stata accolta. Senza considerare le 152 aggressioni fasciste in Italia dal 2014 a oggi, registrate da Infoantifa.1 È senz’altro interessante, a questo proposito, prendere in considerazione le tesi espresse dallo storico Enzo Traverso nel suo libro intervista I nuovi volti del fascismo. Precisiamo subito che la posizione dell’autore è interlocutoria rispetto alla domanda posta all’inizio. Traverso sostiene che il fenomeno politico oggi prevalente non è tanto un rigurgito di neofascismo, che pure c’è, quanto una realtà più sfuggente, ambigua, suscettibile di esiti diversi, che è meglio definire postfascismo. Il punto di osservazione privilegiato è la Francia, dove lo storico insegna, con il Fonte Nazionale di Marine Le Pen come oggetto di analisi principale. Ma non mancano numerosi riferimenti al caso italiano, in particolare a due partiti come Fratelli d’Italia e la Lega.
Secondo l’autore, le formazioni postfasciste vengono per lo più da una tradizione fascista in senso proprio, ma da questa si sono emancipate. Altri partiti, come la Lega, hanno origini storico-culturali diverse, ma il loro posizionamento politico attuale è analogo. Autoritarismo, gerarchia, ordine, xenofobia, identitarismo, nazionalismo, sessismo, plebiscitarismo, potere carismatico sono senz’altro elementi che il postfascismo eredita dai suoi progenitori novecenteschi. Manca però qualcosa al postfascismo rispetto al suo precedente storico, potremmo dire seguendo il ragionamento di Traverso. Di fronte alla crisi si propone come difensore dei “piccoli bianchi”. E fin qui nulla di nuovo. Ma in questa difesa esso assume un’attitudine meramente reattiva, in senso proprio reazionaria.
Al contrario, ci ricorda Traverso, i fascismi storici si rappresentano come rivoluzionari, portatori di un’utopia. I valori ripresi dalla tradizione conservatrice e reazionaria vengono articolati all’interno di un’accettazione entusiasta della modernità, in particolare della scienza e della tecnica. Mussolini e Hitler inventano un nuovo stile politico, la loro propaganda si ispira alle avanguardie artistiche europee ed è finalizzata, tra l’altro, alla mobilitazione delle masse. La loro ideologia si configura addirittura come religione politica perché cerca di sostituire quella tradizionale proponendo un proprio sistema di valori, simboli e rituali. Il fascismo storico, in altri termini, vuole creare un nuovo ordine. Si oppone frontalmente al liberalismo, considerato decadente, così come al comunismo. Propone una terza via.
Oggi, ovviamente, non c’è alcun bisogno di opporsi al comunismo. Rimane in piedi soltanto il liberalismo. Da un punto di vista politico il postfascismo non contesta la democrazia parlamentare, anche perché, nella sua forma tendenzialmente dominante, la post-democrazia, assume tratti sempre più autoritari. Assistiamo spesso al malsano tentativo di contrastare il postfascismo assumendone le parole d’ordine da parte dell’establishment politico. “Aiutiamoli a casa loro”, tanto per fare un esempio. Le politiche securitarie, soprattutto contro gli immigrati, sono moneta corrente. Assai diverso è l’atteggiamento del fascismo e del nazismo negli anni ‘20 e ‘30. Il sistema democratico è utilizzato esplicitamente in modo strumentale, l’obiettivo è apertamente quello di abbatterlo.
Oggi, sottolinea l’autore, il modello antropologico neoliberale, quello che mette il libero individuo al centro soltanto per imporgli di organizzare la vita come un’attività imprenditoriale, non è minimamente messo in discussione. Di conseguenza cambia rispetto al passato il rapporto tra leader e masse. Hitler e Mussolini propongono un una filosofia con connotazioni vitalistiche e al tempo stesso mortifere. La massa è in senso proprio truppa, l’individuo è un soldato pronto al sacrificio, anche estremo, per la comunità di sangue e suolo teutonici o in nome della stirpe italica. Il leader è un condottiero, con tanto di uniforme da parata. Il leader postfascista è invece un personaggio mediatico il cui carisma deriva dalla capacità di maneggiare gli strumenti del marketing politico. Guai a parlare di sacrifici! L’unica religione ammissibile è quella del mercato. Il godimento dei beni di consumo è un diritto inalienabile. Alcune libertà individuali difficilmente sono messe in dubbio. Il fatto che il musulmano abbia sostituito l’ebreo quale figura paradigmatica dell’alterità, quale barbaro per eccellenza, consente ad alcune formazioni postfasciste di farsi paladine dei diritti e delle libertà delle donne. Il caso paradigmatico è quello olandese.
Date queste coordinate antropologiche, difficilmente il postfascismo può proporre una critica frontale all’ideologia del mercato di stampo neoliberista. Il nazionalismo, lo statalismo e l’imperialismo del fascismo storico costituivano un pacchetto coerente con le esigenze dei capitali nazionali dell’epoca, colpiti dalla crisi del ’29, soprattutto di quelli che risultavano più deboli nell’ambito della competizione interimperialistica. Nei nostri giorni il ritorno ai mercati nazionali non è nell’agenda delle élite capitalistiche. Certamente, ci ricorda Traverso, i partiti postfascisti si oppongono alla globalizzazione, alle politiche neoliberiste dell’Unione Europea, all’euro. Tuttavia ciò non avviene in nome di una richiesta di maggior intervento pubblico nell’economia, ma di un ritorno ai mercati e alle monete nazionali, confidando nel fatto che questo ritorno, insieme al blocco dei flussi migratori, consenta una maggiore protezione sociale e una maggiore distribuzione della ricchezza a favore degli autoctoni. Il postfascismo, in effetti, presenta secondo Traverso una connotazione sociale più forte rispetto ai suoi antenati. Una connotazione che può esprimere grazie al fatto che il suo antagonista storico che occupava questo terreno, il comunismo, è scomparso dai radar. Per di più ciò che è rimasto della sinistra istituzionale, assumendo una posizione neoliberista, lascia ampie praterie alla destra sociale.
Questa maggiore sensibilità sociale non può comunque arrivare al cuore del problema: il rapporto tra capitale e lavoro. Una questione che, di fatto, non è messa sufficientemente a fuoco nel libro di Traverso. Se è vero che un’analisi improntata al riduzionismo economicista ci fa perdere di vista le fondamentali differenze tra il fascismo e la destra conservatrice e reazionaria, non si può dimenticare che il fascismo storico è stata la clava utilizzata dal grande capitale per bastonare un movimento operaio la cui forza si riteneva mettesse a rischio il mantenimento dei rapporti sociali di produzione capitalistici. Rimuovendo questo, non si capisce ciò che giustamente rileva l’autore a proposito della traiettoria delle formazione fasciste del secolo scorso: nate come movimenti minoritari di “plebei arrabbiati”, esse diventano rapidamente interlocutrici delle élite economiche e finanziarie.
Oggi le forze che dominano nell’economia globale, ci ricorda Traverso, puntano su altri cavalli: in Francia su Macron, in Italia su Renzi. Nel nostro paese, aggiungo, siamo arrivati addirittura al tentativo di riesumazione della mummia di Berlusconi. Fino a quando? Finché, mi viene da dire, questi rappresentanti politici assicureranno l’approvazione di provvedimenti come la loi travail o il jobs act. Cioè fino a quando consentiranno di approfondire il dominio del capitale sul lavoro. Oggi sembra proprio che le élite capitalistiche non abbiano nessuna intenzione di rinunciare a una continua gara al ribasso sui diritti e sulle condizioni del lavoro. A tal fine, per il momento, non hanno bisogno di rompere formalmente con lo stato di diritto e la democrazia. La velenosa sintesi di austerità e xenofobia consente loro un dominio pressoché incontrastato. È sufficiente dare agibilità e legittimità politica alle formazioni postfasciste, e anche a quelle neofasciste, per creare un capro espiatorio in grado di esorcizzare il ritorno della lotta di classe. Che al momento è sottotraccia, incapace di creare massa critica.
Difficilmente, però, questa situazione può essere considerata stabile. Perché l’utilizzo di politiche autoritarie per contrastare i postfascisti crea sempre maggiore spazio per questi ultimi che sono perciò portati a radicalizzare le loro posizioni. Al tempo stesso, gli uomini più o meno nuovi messi al comando per attuare politiche né di destra né di sinistra non possono che dilapidare velocemente il consenso artificialmente creato attorno a loro perché proseguendo sulla strada delle politiche di austerità e di precarizzazione si approfondisce la macelleria sociale. La parabola di Renzi è esemplare. Sorprende, dunque, che l’unico scenario esplicitamente delineato da Traverso per prospettare una radicalizzazione del postfascismo verso forme aperte di neofascismo sia quello della rottura dell’Unione Europea. Ancora oggi, a mio parere, la variabile fondamentale rimane il conflitto di classe. Di fronte al suo auspicabile riemergere, in un clima politico oramai assuefatto alle più becere pulsioni autoritarie e xenofobe, non è plausibile una nuova convergenza tra “plebei arrabbiati” e élite capitalistiche?