di Franco Pezzini
Cristiana Astori, Tutto quel buio, Elliot, Roma 2018, pp. 254, € 17,50
Partiamo da una foto: in un bianco e nero sgranatissimo, ma a suo modo straordinaria, onirica. Al primo colpo d’occhio notiamo una sorta di stilizzato baccanale di figure femminili (tre, a guardar bene) circondate da sagome sfuggenti: occupano due terzi dello spazio verso destra in un contesto di festa pagana tra fiori e musica – il capelluto in primo piano, che ostenta sulla schiena l’immagine di un gatto nero, pare stia suonando. Le tre donne e il seguito puntano verso sinistra: dove nel primo terzo della foto, dietro un parallelepipedo che forse è un altare, spicca una ragazza dallo sguardo straniato. Sta fissando quella festa per lei e per l’uomo tenebroso in piedi alle sue spalle con aria soddisfatta. È una festa di nozze.
C’è qualcosa di piuttosto spettrale, nei film che vanno perduti. L’evento triste e magari scellerato della scomparsa di un libro può permettere la sopravvivenza di citazioni (a volte potenziate dall’autorevolezza di chi le tramanda), di interi stralci o di quei riassunti che in fondo costituiscono delle rinarrazioni – infinitamente impoverite, è chiaro – dell’originale, ma almeno nel suo medesimo linguaggio scritto. Mentre è ben raro che di un film perduto sopravvivano sequenze: quando va bene resta qualche foto come appunto l’immagine appena descritta, con uno slittamento però verso un diverso tipo di linguaggio – quello fotografico, degnissimo ma diverso – e la perdita di movimento, luci, eventuale audio. Se i giochi d’illusioni del cinema hanno qualcosa a che vedere con la dimensione del fantasmatico, il film perduto è il fantasma di un fantasma. Anche se talvolta può riemergere.
Di film perduti si occupa Susanna Marino, protagonista di una serie di romanzi di Cristiana Astori. Ora felicemente passati da un altro ambito un po’ fantasmatico – le pubblicazioni da edicola, a volte veri gioielli che però sfarfallano per un tempo breve nel transeunte delle riviste – agli scaffali delle librerie per i tipi Elliot. Un passaggio in realtà attesissimo dopo il successo delle precedenti, scintillanti avventure della cercatrice di pellicole scomparse: testi dove il registro popolare (definizione tecnica, in nessun modo sminuente) svela una ricchezza di vivacità ma anche di cultura nella ricostruzione puntuale di mondi perduti assieme a quei film.
Stavolta è l’ambiguo collezionista torinese Altavilla ad arruolare Susanna alla ricerca di un lost film ungherese del 1921. Un’opera diretta dal transilvano trentottenne Károly Lajthay, già produttore e sceneggiatore, ma soprattutto attore di buon successo (almeno diciassette partecipazioni tra il 1916 e il 1920, a volte come Charles Lederle) e poi regista d’un certo nome (diciotto titoli tra il 1918 e il 1944); ma un’opera sbocciata in un paese il cui cinema nascente è stato travolto dalla Grande guerra. La settima arte in Ungheria si era sviluppata con entusiasmo, in forme anche molto originali: per esempio certe ibridazioni col teatro che vedevano brevi proiezioni seguite dall’irruzione in palcoscenico degli attori in carne e ossa, a interagire coi propri personaggi. C’era anche una produzione critica di qualità; ma l’impatto della guerra era stato rovinoso, e a proteggere il cinema non erano bastate le misure decise nel breve periodo della repubblica comunista di Béla Kun (marzo-agosto 1919) con la nazionalizzazione del settore contro la forza delle produzioni straniere. Chiuso quel periodo (quando artisti di sinistra come Arisztid Olt, all’anagrafe Béla Ferenc Dezső Blaskó, il futuro Bela Lugosi, sono costretti a lasciare il paese), e nonostante i registi ungheresi come Lajthay finiscano col dominare con la loro effervescenza la stessa piazza di Vienna, i contraccolpi sono stati troppi. Il nostro film viene girato per gli esterni in Austria (Vienna, valle di Wachau e Melk) e gli interni al Corvin Film Studio di Budapest e si parla di una première a Vienna nel febbraio 1921, su cui però grava uno strano silenzio; una prima a Budapest sarà solo nel 1923. Intanto in Ungheria è dilagata la crisi del sistema cinema, dalle produzioni alle sale: e in questo buco nero forse complicato da problemi legali o di censura scompare la pellicola che nel 2015 appunto Susanna è incaricata di ricercare. Inviata in una Budapest che ripiega i suoi innumerevoli passati in una sorta di incubo espressionista, dovrà fare i conti con morti orrende di altri cercatori della stessa reliquia; e in parallelo assistiamo a scorci di quel passato, incontrando Lajthay e l’attrice scelta come protagonista…
Partiamo da un aspetto intrigante di tipo classificatorio. Dal punto di vista “tecnico”, la saga di Susanna (chiamiamola così) presenta storie rigorosamente richiamabili alla nebulosa del poliziesco: delitti, pericoli nell’ombra, voltafaccia e colpi di scena, turbamenti della psiche, parecchia azione nel modo classicissimo del feuilleton (fughe sui tetti, discese per sotterranei, inseguimenti…) e comunque colpevoli umani; le venature nere strizzano l’occhio ora al thriller ora all’horror, ma appunto con una chiave interpretativa di tipo razionale. Eppure esistono forti motivi per considerare questi romanzi come compiutamente fantastici, e non soltanto per l’assunto di Borges che lo è tutta la letteratura.
Il fatto è che, almeno in prima battuta, il “fantastico” non è tanto un contenuto quanto un modo di guardare e di narrare: e ciò spicca in questa saga attraverso due coordinate. Da un lato quella soggettiva di Susanna: che non è la protagonista de Il favoloso mondo di Amélie e la sua vita è tutta un pasticcio, tra attacchi di narcolessia, angosciosi ricordi dell’amatissimo Edoardo di cui ha accidentalmente causato la morte, e un irrisolto problema di definizione personale (familiare, rispetto ai genitori ingombranti; professionale e lavorativa; anche sentimentale). Ogni indagine è anche una quest, in qualche modo di se stessa. Dall’altro lato c’è la coordinata oggettiva della narrazione, perché sappiamo che una storia apparentemente priva di contenuti “altri” può svelare sottofondi, echi, paradigmi del fantastico: pensiamo a uno dei romanzi più famosi della storia del poliziesco e in apparenza epifania di razionalità, Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, in realtà tutto tessuto e sostenuto sottotesto da topoi mitici, visionari e fantastici. Sottotesto, appunto: e anche nella saga di Susanna, di genere essenzialmente poliziesco, il sottotesto è fantastico.
Dal primo punto di vista, soggettivo, dimentichiamo Lara Croft: Susanna non è un’eroina avventurosa per carattere, e all’avventura è in genere trascinata obtorto collo (spesso dal predatore di pellicole perdute Steve Salvatori, sorta di controcanto ironico e dalle mille risorse, complice/rivale e iniziatore – non a caso ha perso un occhio, quasi una mutilazione mitica – con cui lei mantiene una burrascosa dialettica di vaga attrazione e baruffe). Certo la Nostra, messa in gioco, sa mostrare iniziativa e tenacia; ma probabilmente proprio il suo statuto antieroico e autoironico è uno dei motivi del grande successo coi lettori. Accompagnato da una caratteristica che resta un po’ implicita, ma innerva le storie – appunto – sottotesto: un rapporto con il sonno (la narcolessia) e la morte (quella di Edoardo, che continua a portarsi addosso come un’ombra) che finisce con il proiettarla in una dimensione in senso lato sciamanica. È per esempio una costante che nelle sue avventure figuri a un certo punto un incontro con il mago Grey Angel (già il nome richiama a un certo tipo di immaginario da spettacolo pop) di un locale pubblico sui Murazzi di Torino, che però ormai non sembrano rappresentare più un’identità in carne e ossa e un luogo materiale: il lettore li percepisce come parte integrante dell’interiorità di Susanna, della sua vita mentale – una sorta di spazio per rielaborare le cose, una camera stagna con il passato – e dei suoi sogni, e il linguaggio è chiaramente quello visionario/fantastico. Ma qualcosa del genere accade più in generale per quelle sensazioni di Susanna che sconfinano nell’allucinatorio e nello spettrale: medium tra il mondo dei vivi e quello dei fantasmi di fantasmi – appunto i film perduti – Susanna è confinata quasi di necessità in una condizione liminare.
Però c’è anche un piano oggettivo, della forma-narrazione. Se nel primo volume della saga, Tutto quel nero, 2011, l’autrice affrontava la favola nera di un perduto film della carismatica attrice spagnola Soledad Miranda, richiamando un intero panorama di cinema di exploitation degli anni Sessanta, e il fiato delle sue ombre; se nel seguito Tutto quel rosso, 2012, il mistero e i cardiopalmi riguardavano Dario Argento ed estensioni sconosciute del film-culto Profondo rosso; se nella terza puntata, Tutto quel blu, 2014 (come i precedenti per Il Giallo Mondadori), Susanna si confrontava con un film e un autore ai più del tutto ignoti, cioè quell’enigmatico L’autuomo di Marco Masi, 1984, in cui suggestione fantascientifica e motivo politico si fondevano attraverso il motivo-simbolo dell’androide; se insomma le pellicole perdute e ritrovate rimandano a temi paradigmaticamente aperti al visionario e al fantastico (su Profondo rosso, formalmente thriller, vale quanto detto per il sottotesto), è in realtà tutto l’intreccio – impianto di trama, dinamiche tra personaggi, sapori d’ambiente – a intonarsi al tipo di cinema evocato, in termini che sfuggono ogni gabbia di corrucciato verismo. Perché i generi sono uno spazio di libertà, non gabbie asfittiche, e le relative demarcazioni – preziose per ragionare su alcune costanti o, più pragmaticamente, per capire su quale scaffale collocare un libro – rappresentano la classica scala da utilizzare e poi esser pronti a gettare via.
L’arrivo di Tutto quel buio non può che confermare una formula di successo: tanto più che il film cercato si muove a sua volta su una pista emblematicamente fantastica. Si tratta infatti del Drakula halála (La morte di Dracula), 1921, il primo film vagamente “ispirato” al Dracula stokeriano di cui esistano notizie articolate: il Nosferatu di Murnau uscirà l’anno dopo, 1922, mentre di precedenti Dracula ricordati dai repertori cinematografici – uno russo e forse uno rumeno, entrambi 1920 – sappiamo troppo poco e possiamo solo fantasticare (sarebbe affascinante capire qualcosa di più sul contesto in cui fermentarono, per esempio sulle eventuali metafore politiche di quello russo; tralasciamo invece, perché comportano altri discorsi, i Conti Dracula spuri apparsi in contesti diversi nella cinematografia anni 1910-18). È insomma Drakula halála il primo film su cui gli studiosi di Stoker possono concretamente ragionare dell’estensione di un mito, e che affascina per una quantità di motivi. Anzitutto le implicazioni di immaginario geografico: il Dracula stokeriano non è un voivoda valacco ma un conte – appunto – ungherese, e il rapporto provocatorio del tema con l’Ungheria tramite una protoproduzione filmica risulta particolarmente intrigante anche a prescindere dai successi più tardi di Lugosi (il fatto stesso che anche le altre prime trasposizioni filmiche del romanzo – la russa e la rumena citate, la tedesca di Murnau – non muovano nel mondo anglosassone di Stoker ma nell’Europa centro-orientale pare interessante). In secondo luogo per i soggetti coinvolti, e le loro dinamiche: per esempio con il regista Lajthay collabora alla sceneggiatura quel Mihály Kertész poi meglio noto come Michael Curtiz, dopo il trasferimento in America che lo condurrà a successi come Casablanca; per contro una certa nebbia avvolge le vite degli altri nomi di cast & crew – in particolare la misteriosissima Margit Lux interprete della protagonista Mary Land, ma anche gli altri, noti ai repertori ma in termini più o meno elusivi. Ancora, il taglio prescelto: della pellicola perduta sopravvive infatti una novelization di Lajos Pánczél, 1924, che mostra come la sceneggiatura marcasse una netta distanza dalla trama stokeriana, nel segno di una rilettura del romanzo allucinatoria e psichiatrica (inevitabile pensare a Krafft-Ebing, a Freud…) molto austroungarica. Aggiungiamo che di tutto l’insieme sopravvivono poche locandine e alcune incredibili foto. Come quella di Paul Askonas nel ruolo di Dracula, una vera e propria maschera straniante di deriva psichica; o l’altra descritta all’inizio, in cui Mary sta sognando – ma sogna davvero? – la sua festa di nozze con Dracula nel tripudio delle altre spose e delle creature della notte…
Non spoileriamo qui sulla trama di Tutto quel buio, sulle ricostruzioni necessariamente libere ma ragionevoli e drammaticamente efficaci offerte dall’autrice ai profili sfuggenti di Margit Lux e di Lajthay – e sull’avventura di Susanna che la condurrà, cercando quei sessantacinque minuti di pellicola, sui bordi del pozzo nero del Male del Novecento. Torniamo piuttosto a quanto detto: se il conte Dracula di Stoker – che conosciamo solo attraverso i diari dei suoi nemici, quasi tutti profili psicologici un tantino disturbati – potrebbe persino non esistere e leggersi come mera fantasia di un gruppo di menti sovraeccitate e sessuofobe, un simile rapporto ambiguo tra spiegazioni “razionali” e fantastico investe sia la trama del Drakula halála sia la ricchezza di spunti di un romanzo – certo – poliziesco, che però non si esaurisce in quella formula. E richiama i lettori alla necessità di un approccio più duttile ai generi e a una maggiore problematicità del discorso oggi corrente sul fantastico.
Se il primo modello del Dracula stokeriano era molto più “poliziesco” del risultato finale, è attraverso gli echi di un linguaggio fantastico che lo spazio del vampiro – chiamiamolo così – può svelare una realtà terribilmente seria, che fermenta in modo tragico dal piano dell’interiorità e dei rapporti interpersonali a quelli della grande Storia. È sempre attraverso quel linguaggio che possiamo riconoscere un senso più pregnante e profondo al rapporto di Susanna coi morti, a certi casi fortuiti della trama (se i morti stessi chiamano la sciamana, non c’è più nulla di “casuale”), alla catabasi finale in tutto quel buio in cui Susanna può riordinare gli ultimi tasselli. È la sua solitudine a renderla tanto recettiva e permetterle anche in questa quest di scoprire qualcosa di sé – e qualcosa abbandonare, in modo consapevole. Piccola grande parabola della capacità del cinema di lavorare sulla luce e sul buio per far emergere ciò che altrimenti resta tra le pieghe, Tutto quel buio è – al di là di ogni lettura di superficie, che pure è lecita e persino divertente – un romanzo profondo, poetico e a tratti davvero emozionante, struggente. Con un epilogo cinefilo delizioso.
Quanto detto basterebbe da solo a far riconoscere ottimi motivi di fascinazione nel romanzo di Astori. A rafforzarli è però un altro elemento: il fatto cioè che in parallelo all’indagine di Susanna anche l’autrice finisca col condurne una propria sul film perduto, con risultati – a dispetto del suo understatement o forse anche grazie a quello – piuttosto clamorosi. In seguito alle sue indagini per Tutto quel nero veniva infatti ritrovato il film “impossibile” con Soledad Miranda (in macchina assieme al marito, sulla stessa strada presso Lisbona dove i due avranno anni dopo l’incidente a lei fatale), già considerato pura leggenda da gran parte della critica; in seguito alle ricerche per Tutto quel blu riemergeva il perduto L’autuomo. Per Tutto quel buio l’autrice si è avvalsa della consulenza di una delle massime autorità sul Drakula halála, Gary D. Rhodes dell’Università di Belfast, che le “ha recentemente rivelato di aver trovato altro materiale, proprio in quel di Budapest: la scoperta ci fa sperare che prima o poi venga alla luce anche questa pellicola, o almeno una parte significativa di essa”. Confidiamo in Susanna.