di Alexik
Prison Break Project, Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, Edizioni Bepress, 2017, pp. 277.
A volte si incontrano dei libri necessari.
Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico, è sicuramente uno di questi.
E’ un libro necessario perché finalmente qualcuno – un collettivo di ricercatori precari – si è assunto l’onere di fare il punto, in una prospettiva sia storica che attuale, sull’insieme dei dispositivi repressivi elaborati negli anni dai poteri costituiti contro i movimenti conflittuali.
E’ un libro necessario perché indaga la repressione nella sua complessità: non solo come strumento giudiziario e poliziesco, ma come frutto di ‘una deliberata scelta politica che coinvolge governanti, politici, magistrati, funzionari di polizia, giornalisti e cittadini democratici’.
Uno scontro che non utilizza solo gli armigeri, ma si gioca anche sul terreno dell’immaginario attraverso una narrazione della realtà che rende l’azione poliziesca e giudiziaria accettabile, auspicabile, desiderabile da parte di un’opinione pubblica appositamente costruita.
Il ‘nemico pubblico’
Operazione fondamentale a questo fine è la costruzione del ‘nemico pubblico’, che avviene seguendo le fasi di un format ormai consolidato:
- “Nominare il nemico, attraverso l’attribuzione eteronoma, “dall’alto”, di un’etichetta, sulla base di incerte o terrorizzanti definizioni”.
- Indicare il nemico – con tutta la forza amplificativa del potere mediatico – provocando un clima di emergenza permanente mediante “sollecitazioni, reiterate e periodiche, di ondate emotive di panico rivolte verso avvenimenti, condotte o gruppi che assurgono di volta in volta a minaccia della tranquillità”.
- Indurre la richiesta di ordine e darle tempestiva risposta “attraverso la spettacolarità degli interventi dei commandos di polizia e forze speciali, che accompagnano la scure di interventi giudiziari, e la solerte messa in vigore di leggi realizzate ad hoc“.
La costruzione del ‘nemico pubblico’ non è certo un fenomeno recente.
Nella storia del Bel Paese lo stigma è stato addossato, di volta in volta, a gruppi sociali, etnici, religiosi o politici, creando artificialmente una percezione diffusa della loro presunta pericolosità per l’intero corpo sociale.
Troppo lungo sarebbe elencarli tutti: nemiche furono le plebi meridionali all’indomani dell’unità; nemici i ‘disfattisti, pacifisti, austriacanti’ che si opposero alla grande guerra; nemici i partigiani nell’Italia repubblichina; nemici i comunisti; nemici gli anarchici a cui imputare le stragi di Stato; nemici i braccianti e gli operai in sciopero; nemici i ribelli e i rivoluzionari tutti; nemiche, in generale, le ‘classi pericolose’.1
Uno stigma riservato non solo ai soggetti conflittuali, ma estendibile a piacere anche al capro espiatorio del momento: gli ebrei di ieri, i migranti di oggi, i rom di sempre.
Il fenomeno ha dunque una lunga tradizione.
I compagni del Collettivo Prison Break Project ne hanno attualizzato l’analisi con particolare riferimento alla criminalizzazione dei movimenti conflittuali in Italia dall’inizio del nuovo millennio ad oggi.
Sono gli stessi anni in cui, negli ambiti del dibattito giuridico, l’elaborazione del giurista tedesco Günther Jakobs sul “diritto penale del nemico” ha cominciato a guadagnarsi cittadinanza teorica.
Del resto “la categoria del nemico chiama in causa la logica della guerra, ossia l’esigenza di neutralizzare l’avversario ad ogni costo. Tale esigenza può tuttavia entrare in contrasto con le ordinarie procedure e garanzie giuridiche. Per ovviare a tali complicazioni, alla costruzione sociale del nemico consegue sul piano giuridico un vero e proprio diritto penale del nemico”.
La questione è importante. Perdonate, dunque, se mi attardo in una digressione aprendo una parentesi di approfondimento.
Il diritto penale del nemico
“Alla political corretness ciò che sto per dire non corrisponde affatto.
Politically correct è voler vedere in ogni essere umano, sotto tutti gli aspetti una persona, e in ogni persona un consociato… corredato di così detti diritti umani; ma materia di questa conferenza sono le condizioni della giuridicità e pertanto i confini della giuridicità”.
“Chiunque sia in grado di promettere almeno in qualche misura fedeltà all’ordinamento, è titolare di una legittima pretesa ad essere trattato come persona in diritto.
Chi non offre simile garanzia in modo credibile, tendenzialmente viene trattato da non cittadino“.2
Così Günther Jakobs, davanti ai colleghi riuniti in un convegno a Trento nel marzo 2006, esponeva i principi del ‘diritto penale del nemico’, un diritto parallelo, riservato all’ “avversario per principio” che va trattato in modo diverso, in quanto nemico, da un cittadino con manchevolezze più probabilmente passeggere…
Chi precisamente vada preso in considerazione a riguardo è certamente difficile da stabilire…”.
Nemici quindi dalle sembianze incerte, che possono variare a seconda di mutevoli esigenze, ma nella cui schiera Jakobs esplicitamente include ”l’avversario del potere costituito”.
Nemici spogliati della personalità giuridica e delle garanzie previste dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, retrocessi ad uno stato di “non-persone in diritto”.
Un concetto, quello di “non persona”, che – soprattutto se formulato da un tedesco – rievoca mostri di un passato non troppo remoto.
Mutuando le parole della ricercatrice Giulia Fabini “il diritto penale del nemico non si occuperebbe di crimini diversi rispetto agli altri crimini, ma si occuperebbe di autori di crimini diversi dagli altri autori”.3
La prima deformazione investe dunque il principio di legalità nell’identificazione di ciò che è punibile: non più il reato, ma il reo, indipendentemente dal reato.
Il “diritto penale del nemico” sgombera inoltre il campo da fastidiosi orpelli, quali l’eguaglianza di fronte alla legge, la presunzione di innocenza, l’onere della prova, i diritti della difesa.
Nello schema concettuale di Jakobs ciò che ha prevalenza assoluta è “la sicurezza della società dal reo”.
Essa viene “perseguita o attraverso una custodia preventiva legittimata in quanto tale o attraverso una pena privativa della libertà che sia tale da garantire la sicurezza…
….queste pene non si possono spiegare con la considerazione di ciò che è accaduto … ma soltanto con la presenza del pericolo”.4
La pena, dunque, può essere inflitta in base alla mera percezione del pericolo (vero o presunto che sia), ancor prima che il delitto venga posto in essere, come nella miglior fantascienza di Philip Dick in Minority report.
O come nella peggiore realtà delle cd ‘guerre preventive’.
E’ dalla ‘guerra preventiva’, dalle ‘guerre al terrorismo’ successive all’11 settembre 2001, che le concettualizzazioni di Jakobs traggono un’insperata fortuna, trattandosi dei postulati più idonei a dare una parvenza di legittimità a pratiche quali gli internamenti extralegali, le extraordinary renditions, le detenzioni senza processo, le torture dei prigionieri, l’annullamento del diritto alla difesa.
I precetti del “diritto penale del nemico” si adattano perfettamente al Patriot Act statunitense ed al modello Guantanamo, che prevedono la cancellazione per i non cittadini americani dell’habeas corpus, gli arresti e le detenzioni illimitate senza la formale contestazione di accuse, la soppressione delle garanzie processuali, l’istituzione di tribunali militari speciali, il crollo di tutte le garanzie in materia di intercettazioni, di perquisizioni, di arresti e di prove, la tortura.5
Comprensibilmente la teoria sul “diritto penale del nemico” ha generato numerose reazioni negli ambiti del dibattito giuridico6 e negli ambienti garantisti, allarmati dalla sua crescente affermazione nel contesto delle politiche sicuritarie ed emergenziali degli Stati e nelle relative normazioni.
Fra le prese di posizione più autorevoli, quella di Luigi Ferrajoli:
“La ragione giuridica dello stato di diritto non conosce nemici ed amici, ma solo colpevoli e innocenti.
Dobbiamo allora domandarci: di che cosa stiamo discutendo quando parliamo di “diritto penale del nemico”?
Io credo che dobbiamo riconoscere, con assoluta fermezza, che stiamo parlando di una contraddizione in termini, che rappresenta, di fatto, la negazione del diritto penale: la dissoluzione del suo ruolo e della sua intima essenza“.7
Ferrajoli denuncia l’uso normativo della formula del “diritto penale del nemico”, che trasforma la giustizia in vendetta stravolgendo il senso del processo penale.
“Lo schema dell’amico/nemico imprime una connotazione partigiana sia all’accusa che al giudizio, trasformando il processo in momento di “lotta” …
Il processo… è divenuto quel che “chiamasi processo offensivo”, dove “il giudice diviene nemico del reo, di un uomo incatenato… e non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto…
Se il presupposto della pena è rappresentato, più che da fatti delittuosi determinati, dalla sostanziale personalità … del loro autore, il processo decade inevitabilmente da procedura di verifica empirica delle ipotesi d’accusa in tecnica d’inquisizione sulla persona…”.8
Ma questa descrizione corrisponde con esattezza a quella che è sempre stata l’esperienza prevalente del processo penale vissuta dai soggetti conflittuali, ben prima e senza alcun bisogno delle teorie di Jakobs.
Senza nulla togliere alla sua pericolosità dal punto di vista normativo, a livello descrittivo il “diritto penale del nemico”, nella sua crudezza, fornisce una chiave di lettura molto più credibile sulla funzione dei codici e sulla realtà dei tribunali, di quanto non faccia la retorica sullo Stato di diritto.
Per dirla con i compagni del Prison Break Project, “un pregio innegabile della teorizzazione del diritto penale del nemico è quello di richiamare con franchezza la dimensione conflittuale del diritto e di evidenziare come esso operi in base ai rapporti di forza esistenti.” (Continua)
In proposito è consigliabile la lettura di Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe (1943-1976), Odradek, 2003, XXVI-349. ↩
Günther Jakobs, Diritto penale del nemico. Una analisi delle condizioni della giuridicità, in Delitto politico e diritto penale del nemico, a cura di A. Gamberini e R.Orlandi, Monduzzi, 2007, pp. 109/129. ↩
Giulia Fabini, Migranti e polizia. Tra diritto penale del nemico e regole del disordine, 2011. ↩
Günther Jakobs, op cit. p.123. ↩
Sull’argomento: Vittorio Fanchiotti, Il diritto penale del nemico e i nemici del diritto. Strategie antiterrorismo e giurisdizione negli Stati Uniti, in “Questione Giustizia”, n. 4, 2006. ↩
Ne riporto alcune: Federico Zumpani, Critica del diritto penale del nemico e tutela dei diritti umani, in “Diritto e questioni pubbliche. Rivista di Filosofia del Diritto e Cultura Giuridica”, n. 10, 2010, pp. 524/52.
Eugenio Raúl Zaffaroni, Buscando al enemigo: de Satán al derecho penal cool, dicembre 2012.
Valentina Corneli, Francia e emergenza terroristica: un diritto penale del nemico?, in “Osservatorio Costituzionale”, Aprile 2015.
Interessante in proposito anche A. Gamberini e R.Orlandi (a cura di ), Delitto politico e diritto penale del nemico,Monduzzi, 2007. ↩Luigi Ferrajoli, Il “diritto penale del nemico” e la dissoluzione del diritto penale, in “Panoptica”, vol.2 n. 7, 2007, p. 99. ↩
Ibidem, p. 93. ↩