di Paolo Lago
Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017, pp. 270, € 26,00
Quando pensavo alla relazione fra ecologia e letteratura mi veniva subito in mente, in maniera quasi automatica, il finale de Il barone rampante (1957) di Italo Calvino. In questo romanzo, il fratello del protagonista – narratore dell’intera storia – dopo il lungo flashback narrativo relativo alle vicende di Cosimo, il «barone rampante» che ha trascorso tutta la sua vita sugli alberi, afferma che adesso, nel momento in cui sta scrivendo le sue memorie, gli alberi non ci sono più o si sono drasticamente ridotti: «Ogni tanto scrivendo m’interrompo e vado alla finestra. Il cielo è vuoto, e a noi vecchi d’Ombrosa, abituati a vivere sotto quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo. Si direbbe che gli alberi non hanno retto, dopo che mio fratello se n’è andato, o che gli uomini sono stati presi dalla furia della scure» (I. Calvino, I nostri antenati, Mondadori, Milano, 2003, p. 303). Dopo la morte di Cosimo, il ragazzo e poi l’uomo che ha vissuto sugli alberi, gli stessi alberi sembrano non aver resistito, sono morti, sono stati tagliati. Il «barone rampante», infatti, era stato un po’ un simbolo della sinergia uomo-natura: come nota Gregory Bateson, almeno a partire dal XVIII secolo, si è creata una profonda frattura fra coscienza individuale umana e natura. Non è un caso, tra l’altro, che la vicenda del romanzo di Calvino si ambienti proprio nel Settecento, quell’epoca dei lumi in cui tale frattura ha iniziato a prodursi. Cosimo, diverso da tutti, è l’uomo che va in direzione opposta, che ‘ritorna’ alla natura. Bisogna inoltre ricordare che il romanzo è del 1957, in un periodo in cui l’Italia stava inesorabilmente e rapidamente mutando sotto la spinta del benessere e delle ricostruzioni postbelliche, e la penna di Calvino non è certo immune da uno spirito di denuncia nei confronti della società contemporanea, denuncia un po’ nascosta sotto il piglio fiabesco della narrazione.
Adesso, a schiarirmi le idee c’è un interessante e rigoroso saggio di Niccolò Scaffai che illumina in modo adeguato le complesse relazioni fra ecologia e letteratura, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, uscito recentemente per Carocci. Come spiega l’autore nell’introduzione, uno degli intenti principali del libro è quello di porre «al centro la relazione tra ecologia e letteratura facendo reagire la tematica ambientale con i dispositivi formali che ne definiscono la presenza nelle opere d’invenzione» (p. 14). Un importante dispositivo è, ad esempio, lo straniamento: per illustrare i danni prodotti dall’inquinamento sull’ambiente, un autore può farci guardare con occhi diversi gli effetti di alcune nostre abitudini quotidiane facendocele osservare dalla prospettiva di altri esseri, animali o creature fantastiche. Dispiegando su letteratura e ecologia uno sguardo comparatistico, Scaffai sottolinea dunque l’importanza, fra gli studi culturali, dell’ecocriticism, disciplina che, da una parte, interpreta la relazione tra uomo e natura presente in un testo, dall’altra tende a fare dell’opera letteraria uno strumento di diffusione per la coscienza ambientale. Basti pensare alla letteratura americana: opere importanti in questo senso sono Foglie d’erba (1855-92) di Walt Whitman o Walden ovvero Vita nei boschi (1854) di Henry D. Thoreau. All’interno della cultura americana, infatti, è presente in profondità l’aspirazione alla vita in una natura incontaminata, la wilderness. Un autore americano contemporaneo in cui è presente una forte componente ecologica è poi Jonathan Franzen, in cui grande rilievo ha l’esperienza stessa della natura. Ad esempio in Libertà (2010), la coppia protagonista, appartenente alla classe borghese, decide di trasferirsi in una località a diretto contatto con la natura all’insegna della riscoperta dei valori fondamentali, sulla scia del grande archetipo thoreauviano. La critica ecologia può poi fondersi con la geocritica, la quale studia la rappresentazione dello spazio nella letteratura. Ogni ambiente è infatti prima di tutto uno spazio e, come scrive il maggior esponente della geocritica, Bertrand Westphal, un punto d’incontro fra spazio e ambiente può essere intravisto nel momento in cui entrano in sinergia la «cultura guardata» e la «cultura guardante», in modo da creare uno spazio coabitato da una multifocalità di prospettiva.
La natura è poi presente all’interno della letteratura sotto forma di diversi topoi, come ad esempio il locus amoenus. Quest’ultimo è uno spazio caratterizzato da una vegetazione fresca e ombrosa, un corso d’acqua, il tutto attraversato da una leggera brezza e dal canto degli uccelli. Il locus amoenus è presente in tantissime opere della letteratura classica e medievale: in Virgilio, ad esempio, il paesaggio ben regolato assume quasi il simbolo del buon governo, all’interno di un gioco di metafore assai presente non solo nelle letterature classiche. Un altro importante topos è quello della primavera, connotato contemporaneamente da angoscia e bellezza, il quale vede la sua più importante presenza nelle letterature romanze. Se la natura si risveglia in aprile (il mese “che apre”), spesso e volentieri il poeta è angosciato e soffre per le pene d’amore infertegli da una insensibile dama. Si tratta comunque di una rappresentazione topica di lunga durata, se esso è presente, mutando nella forma, in poeti contemporanei come Montale, Pasolini o Zanzotto. Ad esempio, L’arca di Montale si apre con l’immagine di una tempesta – una vera e propria catastrofe atmosferica – la quale «ha sconvolto / l’ombrello del salice, / al turbine d’aprile». In Pasolini, invece, la primavera assume connotazioni dolorose soprattutto per la lontananza della persona amata, soprattutto nelle giovanili poesie in friulano e ne L’usignolo della chiesa cattolica. In Zanzotto, lo spazio del locus amoenus diviene poi lo spazio eletto dell’otium cum litteris, consacrato all’«autocoscienza della poesia» (Galateo in bosco).
Un capitolo del saggio di Scaffai è successivamente dedicato alla letteratura distopica e al tema dell’apocalisse. Quest’ultima è rappresentata in moltissimi romanzi contemporanei come un disastro ecologico che colpisce la terra, mentre gli esseri umani superstiti sono costretti a muoversi in uno spazio devastato e contaminato. Un genere contemporaneo in cui letteratura e ecologia entrano in stretta correlazione è l’ecothriller: «Il protagonista di un eco thriller, spesso un giornalista o uno scienziato (talvolta una coppia, in cui uno dei due personaggi, per lo più quello femminile, ha lo scontato ruolo di deuteragonista) deve fronteggiare e possibilmente sventare un’emergenza biologica e ambientale, scatenata, favorita o sfruttata da un antagonista (un’associazione segreta o semplicemente criminale)» (p. 114).
Un importante tema che attraversa la relazione fra letteratura e ecologia è poi quello dei rifiuti, intesi come oggetto di straniamento che porta a concepire l’esistente in forma di spazzatura. Ad esempio, in un romanzo in cui la tematizzazione dei rifiuti assume un ruolo preponderante, Underworld (1997) di Don DeLillo, il protagonista percepisce ogni oggetto, anche nuovo, «in termini di spazzatura», mentre quest’ultima assume connotazioni sacre e quasi feticistiche. Nella pièce teatrale di Daniel Pennac, Il sesto continente (2012), un personaggio intende trasformare la famigerata, gigantesca «isola dei rifiuti», (realmente esistente, individuata nell’Oceano Pacifico e composta per l’ottanta per cento da materiale plastico) in una attrazione turistica organizzando delle crociere. Essa viene così offerta al voyeurismo di massa dei croceristi, «testimoni di un “naufragio” ecologico di cui sono responsabili e vittime, oltre che spettatori» (p. 142). Anche Italo Calvino, ne Le città invisibili (1972), tematizza l’invasione della spazzatura all’interno dello spazio cittadino, anche stavolta con uno spirito di denuncia: come egli stesso scrive a proposito del libro, «Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili».
Nel Novecento letterario italiano un autore che ha affrontato da vicino tematiche ecologiche è senza dubbio Pier Paolo Pasolini. Oltre ad aver rappresentato poeticamente la trasformazione dell’Italia, anche in termini ecologici (basti ricordare il «pianto della scavatrice», nell’omonima poesia delle Ceneri di Gramsci, in cui la scavatrice ‘urla’ di dolore devastando i prati per la costruzione di nuovi quartieri di periferia, oppure la descrizione delle ‘devastate’ periferie romane nel postumo e incompiuto Petrolio), Pasolini, in un celebre articolo degli Scritti corsari, utilizza la metafora della «scomparsa delle lucciole» per indicare il mutamento del potere in Italia. Il potere che spadroneggia dopo la «scomparsa delle lucciole» è quello dei nuovi consumi, un regime forse più terribile di quello fascista, irreggimentatosi con il tacito consenso della classe politica democristiana degli anni Sessanta e Settanta.
Anche Paolo Volponi possiede uno spiccato sguardo ‘ecologico’, soprattutto ne Il Pianeta irritabile (1978), in cui è evidente il richiamo di scrittori come Huxley, Orwell, Asimov e Bradbury. La vicenda del romanzo si svolge a partire dall’anno 2293 nel territorio marchigiano caro all’autore ma il paesaggio è ormai irriconoscibile poiché il mondo è stato devastato da una grande esplosione atomica. I protagonisti di questa sorta di favola ecologica sono un babbuino, un’oca ammaestrata, un elefante e un nano. Quest’ultimo, l’unico umano del gruppo, si convertirà verso l’animalità rinunciando al linguaggio e estraniando in questo modo la dimensione umana da una natura che proprio dall’uomo era stata devastata.
Anche nei risvolti più contemporanei del romanzo italiano – ai quali è dedicato l’ultimo capitolo del ricco saggio di Scaffai – è possibile incontrare tematiche ecologiche. Ad esempio, in Violazione (2012) di Alessandra Sarchi, in cui il ‘ritorno’ alla natura dei protagonisti è oscurato dalla violazione e dai gravi danni inferti al territorio da parte del proprietario della casa che essi vogliono acquistare. Fra recenti esempi di fiction distopica si può invece ricordare Sirene (2007) di Laura Pugno, in cui la razza umana è costretta a rifugiarsi sott’acqua per sfuggire alle radiazioni solari che provocano terribili cancri alla pelle, o Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante, in cui in un futuro imprecisato, dopo la «sciagura» provocata forse da una grave crisi economica, quello che resta dell’umanità deve rifugiarsi in sperdute e incontaminate valli alpine o, ancora, Qualcosa là fuori (2016) di Bruno Arpaia, che racconta una Italia del futuro devastata apocalitticamente dal surriscaldamento globale.
Le relazioni narrative fra ecologia e letteratura continuano perciò anche nella contemporaneità, anzi, sembra che si stiano intensificando sempre di più. E questo non può essere che un bene perché la letteratura, sfoderando la propria vocazione fantastica, onirica e visionaria forse riesce gradualmente a ricucire la frattura di matrice illuministica e tecnica creatasi fra coscienza umana e natura e a migliorare la vita in comune degli individui ricreando nuove e inedite relazioni d’amore fra di esse. Perché, come scrive Giorgio Caproni in Versicoli quasi ecologici, se «l’amore / finisce dove finisce l’erba / e l’acqua muore», dove ricomincia l’erba e l’acqua rinasce, l’amore ricomincia.