di Sandro Moiso
Murray Bookchin, LA PROSSIMA RIVOLUZIONE. Dalle assemblee popolari alla democrazia diretta, con una Postfazione di Ursula K. Le Guin, BFS Edizioni 2018, pp. 192, € 18,00
Nei suoi ottantaquattro anni di vita Murray Bookchin (1922 – 2006) ha avuto modo di percorrere da critico radicale quasi l’intero ‘900, confrontandosi con le principali ideologie del movimento operaio e militando all’interno delle sue due correnti principali, marxismo e anarchismo, in periodi differenti della sua vita.
Pur ritenendosi anarchico nel corso della seconda e più lunga fase della sua vita, ha però sentito la necessità, dalla seconda metà degli anni ’90 del XX secolo fino alla fine dei suoi giorni, di ridefinire la critica del modo di produzione vigente a partire dal superamento delle due ideologie principali, insieme a quelle genericamente socialiste oppure legate al sindacalismo rivoluzionario, per giungere ad una sintesi del pensiero rivoluzionario più adeguata ad affrontare le condizioni sociali, politiche, economiche e ambientali che si possono già intravedere per il secolo in cui siamo entrati ormai da quasi un ventennio.
Il testo ora tradotto in italiano è stato pubblicato per la prima volta in lingua inglese nel 2015 e raccoglie otto saggi scritti tra il 1991 e il 2002, coprendo così la parte finale e forse più importante della riflessione di Bookchin. La cui prima caratteristica è sta quella di importare e sviluppare all’interno del pensiero antagonista la questione del rapporto tra uomo e ambiente, non soltanto come problema a latere del movimento rivoluzionario o come semplice visione ecologista della realtà, ma come punto centrale ed essenziale di ogni ipotesi di trasformazione futura dei rapporti sociali di produzione e convivenza con la natura. Di cui la società umana non solo non potrà più definirsi antagonista o dominatrice, ma soltanto accettare di fare parte della stessa, adeguando le proprie necessità a quelle del mondo e delle specie che la circondano.
Così come recita un bel manifesto della lotta NoTav: Noi non difendiamo la natura, noi siamo la natura che si difende.
L’immaginario politico e filosofico di Bookchin non risente però del primitivismo teorizzato da alcune frange anarchiche ispirate al pensiero di John Zerzan, ma si attiene ancora al razionalismo di stampo illuministico e marxista poiché il fine non è quello di lasciarsi alle spalle il pensiero scientifico tout court ma di adeguarlo alle reali necessità della comunità umana e del pianeta con cui convive. L’autore americano rivendica infatti la fiducia nel poter giungere a ciò che definisce come naturalismo dialettico, autentica base di un’ecologia sociale condivisa e non dettata dalle mode o dalle esigenze del capitale.
“Nel complesso, la condizione sociale prodotta dal capitalismo contemporaneo non si accorda con le previsioni, semplicemente classiste, espose da Marx e dai sindacalisti rivoluzionari francesi. Dopo la Seconda guerra mondiale il capitalismo ha subito un’enorme trasformazione e ha creato nuovi e gravi problemi sociali. Problemi che vanno oltre le tradizionali richieste del proletariato per il miglioramento dei salari, degli orari e delle condizioni di lavoro: in particolare riguardano l’ambiente, il gender, la gerarchia e le tematiche civili e democratiche.[…] Si stanno sviluppando nuove e complesse sfumature di status e interessi personali che oggi hanno un’importanza maggiore di quanto avessero in passato. Tutto ciò rende meno definito il conflitto tra lavoro salariato e capitale che prima era centrale, compreso e utilizzato in modo militante dai movimenti socialisti tradizionali. Le categorie di classe si sono ormai fuse con le categorie gerarchiche basate su razza, gender, preferenze sessuali e specifiche differenziazioni nazionali o regionali. Differenze di status e caratteristiche gerarchiche tendono a convergere con differenze di classe, e sta emergendo un mondo capitalistico diffuso in cui per l’opinione pubblica le differenze etniche, nazionali e di genere spesso sono più importanti delle differenze di classe.
Allo stesso tempo, il capitalismo ha prodotto una nuova contraddizione, forse la più importante: lo scontro tra un’economia basata sulla crescita infinita e la distruzione dell’ambiente naturale”.1
Anche se talvolta Bookchin sembra un po’ troppo affascinato dal capitalismo liberale del primo Novecento e poco propenso all’analisi delle dinamiche imperialiste e finanziarie passate e presenti, non vi è dubbio che nella sua opera ha saputo largamente anticipare le questioni poste sempre più in evidenza dalla società del terzo millennio cercando, allo stesso tempo, di superare i facili mantra e le eccessive semplificazioni ideologiche derivate dalle pratiche novecentesche, sia in campo marxista che bolscevico o anarchico.
“Nessuna delle ideologie anticapitaliste professate nel passato – marxismo, anarchismo, sindacalismo e varie forme di socialismo – ha ancora oggi la stesa importanza avuta nella fase precedente […] Nessuna di queste ideologie può comprendere integralmente la moltitudine di problemi, opportunità, incognite e interessi che il capitalismo ha creato più volte nel corso del tempo.
Evidenziando sia i presupposti storici e materiali che quelli soggettivi di una società di nuovo tipo, il marxismo ha rappresentato il tentativo più completo e coerente per organizzare un socialismo ben organizzato. Dobbiamo molto al tentativo di Marx di fornirci un’analisi coerente e stimolante dei rapporti di mercato e delle connessioni tra il mercato e il pensiero progressista, oltre a una teoria sistematica sociale, un concetto oggettivo o «scientifico» di sviluppo storico e una strategia politica flessibile.[…] Allo stesso modo l’anarchismo rappresenta, anche nella sua forma autentica, una prospettiva fortemente individualista che promuove uno stile di vita radicalmente libertario, spesso in sostituzione all’azione di massa.
In realtà. L’anarchismo rappresenta la più estrema formulazione dell’ideologia liberalista, fino alla celebrazione di atti eroici di sfida dello Stato. Il mito anarchico dell’autoregolamentazione – l’affermazione radicale dell’individuo al di sopra o anche contro la società e la personalistica assenza di responsabilità per il benessere collettivo – porta ad un’affermazione di una volontà personale onnipotente che sarà centrale nel percorso di Nietzche.[…] Il destino del sindacalismo rivoluzionario è stato condizionato in vari modi da una patologia chiamata «operaismo» e tutto ciò che possedeva a livello storico, filosofico o politico è stato preso in prestito, spesso in modo frammentario e indiretto, da Marx “.2
Ciò che poi accomuna, secondo Bookchin, le tre principali correnti del movimento anticapitalista è l’aver quasi sempre confuso la «politica» con il governo dello Stato, senza riuscire a comprendere come il secondo sia sostanzialmente destinato ad esercitare il dominio sulla società da parte di una classe o di un partito, o ancora di un modo di produzione dei suoi funzionari, più che a promuovere una razionale e condivisa organizzazione della stessa.
“Una caratteristica distintiva della sinistra è proprio la convinzione marxista, anarchica e sindacalista rivoluzionaria che non esista alcuna distinzione, in linea di principio, tra la sfera politica e la sfera statalista. Enfatizzando lo Stato-nazione – incluso lo «Stato operaio» – come centro del potere economico e politico, Marx (così come i libertari) non è riuscito a dimostrare come i lavoratori possano controllare in maniera piena e diretta un tale Stato senza la mediazione di una potente burocrazia e di istituzioni di tipo statalista ( o, nel caso dei libertari, governative). Di conseguenza, i marxisti hanno concepito inevitabilmente la sfera politica – che hanno definito Stato operaio – come entità repressiva, apparentemente fondata sugli interessi di una sola classe: il proletariato. […] Gli anarchici hanno a lungo considerato ogni governo come uno Stato e lo hanno condannato – un punto di vista che rappresenta la ricetta per eliminare ogni vita sociale organizzata, qualunque essa sia. Mentre lo Stato è lo strumento con cui una classe oppressiva e sfruttatrice regola e controlla in modo coercitivo il comportamento delle classi sfruttate, un governo – o meglio ancora, un sistema politico – è un insieme di istituzioni progettate per affrontare i problemi della vita consociativa in modo ordinato e, si spera, equo. Ogni associazione istituzionalizzata che costituisca un sistema di gestione degli affari pubblici – con o senza la presenza di uno Stato – è necessariamente un governo. Al contrario, tutti gli Stati, anche se sono di fatto una forma di governo, sono una forza di repressione e controllo di classe. Per quanto possa dar fastidio sia ai marxisti che agli anarchici, la classe degli oppressi ha richiesto per secoli, a gran voce e in maniera articolata costituzioni, governi responsabili e sensibili e perfino leggi o nomos, che la difendessero dal potere volubile dei monarchi, dei nobili e dei burocrati. L’opposizione libertaria alla legge, per non parlare del governo in quanto tale, è sciocca […] Ciò che rimane, alla fine, non è altro che un’immagine residuale sulla retina che non esiste nella realtà”.3
Qual è allora la proposta di Bookchin?
“Mentre entriamo nel ventunesimo secolo, i radicali sociali hanno bisogno di un socialismo – libertario e rivoluzionario – che non sia né un prolungamento dell’«associazionismo», di tipo contadino e artigianale, che troviamo al centro dell’anarchismo, né l’«operaiolatria» che troviamo al centro del sindacalismo rivoluzionario e del marxismo.[…] Tentare di rianimare il marxismo, l’anarchismo o il sindacalismo rivoluzionario, dotandoli di un’immortalità ideologica, sarebbe un ostacolo allo sviluppo di un importante movimento radicale.[…] E’ mia opinione che il comunalismo sia la categoria politica generale più adatta a comprendere pienamente una visione ben ponderata e sistematica dell’ecologia sociale […] Come ideologia, il comunalismo attinge alla migliore tradizione delle vecchie ideologie di sinistra –marxismo e anarchismo o, più propriamente, la tradizione socialista libertaria – offrendone una visione più vasta e rimarchevole per il nostro tempo. […] La scelta del termine comunalismo per affrontare le componenti filosofiche, storiche, politiche e organizzative di un socialismo per il ventunesimo secolo non è avventata . Il termine trae origine dalla Comune di Parigi del 1871, quando nella capitale francese il popolo armato salì sulle barricate non solo per difendere il consiglio comunale di Parigi e le sue sotto strutture amministrative, ma anche per creare una confederazione nazionale di città e paesi, in sostituzione dello Stato-nazione repubblicano. Il comunalismo, come ideologia, non è contaminato dall’individualismo e dall’antirazionalismo, spesso esplicito nell’anarchismo; né porta il peso dell’autoritarismo marxista esplicitato nel bolscevismo. Esso non si concentra sulla fabbrica come suo principale campo sociale o sul proletariato industriale come suo principale agente storico e non riduce le libere comunità del futuro in comunità irreali di stampo medievale”.4
Non è nemmeno un caso che le esperienze di lotta più significative attualmente, dalla Valle di Susa qui in Italia alla ZAD in Francia, si siano in qualche modo conformate a questa visione che, d’altra parte, non può nemmeno e non potrà mai darsi per definitiva una volta per tutte. Così come non può essere un caso che la visione di Murray Bookchin sia stata adottata o, almeno, sia così vicina alle forme di lotta e organizzazione sociale adottate nel Rojava curdo e fatte proprie anche dalle teorie esplicitate da Abdullah Öcalan nelle sue ultime opere dopo la revisione del marxismo-leninismo sulle cui basi si era formato il PKK.5
Così come forse non è nemmeno un caso che a curare la traduzione e l’introduzione italiana al testo pubblicato da BFS sia stato Martino Seniga, giornalista e inviato della RAI, che ha viaggiato a lungo nel Kurdistan, dove ha realizzato una serie di reportage televisivi e programmi per il web sul progetto confederalista democratico in Siria (Rojava) e Turchia.
Come afferma Ursula Le Guin, scrittrice americana di fantascienza utopica e femminista recentemente scomparsa, nella sua Postfazione:
“Certamente oggi il pensiero filosofico e sociale deve confrontarsi con l’irreversibile degrado ambientale prodotto da un capitalismo senza freni: un fatto evidente di cui la scienza ci parla da più di cinquanta anni, mentre i progressi della tecnica cercano solo di mascherarlo. Ogni vantaggio che ci hanno portato l’industrializzazione e il capitalismo, ogni miglioramento nella scienza, nella salute, nella comunicazione e nel benessere getta ormai la stessa ombra letale.[…] Il capitalismo si fonda per definizione sulla crescita; come dice Bookchin: «per il capitalismo desistere dalla sua crescita insensata significherebbe commettere un suicidio sociale». Evidentemente abbiamo semplicemente preso il cancro come modello del nostro sistema sociale.
L’imperativo capitalista di «crescere o morire» si scontra radicalmente con gli imperativi ecologici dell’interdipendenza e della sussistenza. Queste due visioni non possono più coesistere tra loro, né potrà sopravvivere una società fondata sul mito di questa coesistenza impossibile. O sapremo realizzare una società ecologica o non ci sarà più una società per nessuno, indipendentemente dal suo status.
Murray Bookchin ha speso la vita opponendosi allo spirito rapace del capitalismo del «crescere o morire». Gli otto saggi che compongono questo libro rappresentano la sintesi del suo lavoro: le fondamenta teoriche per una società ecologica, egualitaria e democratica, con un approccio pratico alla sua realizzazione. Analizza i fallimenti dei vecchi movimenti per il cambiamento sociale, rilancia la prospettiva della democrazia diretta e, nell’ultimo capitolo, disegna il suo progetto di trasformare la crisi ambientale globale in un’opportunità per superare le stantie gerarchie di genere, razza, classe e nazione, l’occasione di trovare una cura radicale per il «male» che governa il nostro sistema sociale. Ho letto questo libro con emozione e gratitudine”.6
Non saprei trovare parole migliori per concludere questa recensione.
M. Bookchin, Il progetto comunalista (novembre 2002), in LA PROSSIMA RIVOLUZIONE, pp. 32-33 ↩
Bookchin, op.cit. pp. 34-37 ↩
pp. 38-39 ↩
pp. 39-41 ↩
Sulle interrelazioni tra il pensiero di Abdullah Öcalan quello di Murray Bookchin, si veda Janeth Biehl, Dallo Stato-nazione al comunalismo. Murray Bookchin, Abdullah Öcalan e le dialettiche della democrazia, Edizioni Tabor 2015 ↩
Ursula K. Le Guin, Postfazione, pp.180-181 ↩