di Valerio Evangelisti
[Questo testo è un ampliamento di quello che trovate negli editoriali a fianco, in cui si confrontavano due posizioni divergenti interne a Carmilla. Inutile ricordare che nella redazione della nostra testata convivono, su questi e su altri temi, tesi differenti, e che ognuno è libero di esporre la propria.]
Il raggiungimento del numero di firme necessario per presentare alle elezioni Potere al Popolo!, conseguito in tempi rapidissimi, la successiva veloce espansione sul territorio nazionale, hanno del prodigioso. Ma è conseguenza del prodigio che sta all’origine dell’avventura.
Espulsi dal Teatro Brancaccio, in cui si sarebbe dovuta rifondare per l’ennesima volta la “sinistra” (con i D’Alema, i Bersani, i Civati, gli Speranza e altri walking dead), i giovani e meno giovani del centro sociale Je so’ pazzo, ex OPG, tra i più attivi sul territorio napoletano, decidono di continuare da soli.
Riescono a riunire ottocento persone di tutte le età, ed è l’inizio di una valanga. Si tengono, in breve tempo, affollatissime assemblee in ogni regione d’Italia, incluse quelle in cui l’antagonismo politico-sociale sembrava spento per sempre. Aderiscono al progetto nomi storici della sinistra “vera” e non liberale, di integrità non discutibile: Heidi Giuliani, madre di un martire divenuto simbolo di lotta, Nicoletta Dosio, l’instancabile ribelle e fuggiasca, Giorgio Cremaschi, una vita per i metalmeccanici e per il riscatto operaio. E tanti, tanti altri.
Soprattutto, si adunano sotto la nuova sigla – Potere al Popolo! – i frammenti di una classe subalterna modellata, nel presente, dai rantoli di un’economia antiumana, che solo in nuove guerre e oppressioni trova slancio vitale. Precari, disoccupati, pseudo-apprendisti licenziati e riassunti (se va bene) ogni quattro mesi, gente che sbarca il lunario come può. Moltissimi giovani ma anche molti anziani, dal pensionamento spostato di continuo, quanto basta per sopprimere occasioni di lavoro per chi non le ha.
Sono il frutto di una tragedia sociale. Consumata in nome di cosa? Del neoliberismo trionfante, del liberalismo (ideologia portata agli estremi da Emma Bonino, da Eugenio Scalfari, da Giorgio Napolitano: vecchiaie malvissute). Una dottrina e una posizione politica malsane, che di continuo contraddicono i principi che sbandierano. Basti guardare le scelte internazionali di chi vi si richiama. Per l’Occidente liberale, per i suoi leader, per i partiti che li esprimono e per quelli che fingono di opporsi. il Venezuela è una dittatura e l’Honduras dalle elezioni truccate no; Israele, che non rispetta i trattati internazionali e tiene in ostaggio milioni di palestinesi, è un modello di democrazia; l’Arabia Saudita fa “grandi progressi” nel campo dei diritti umani, visto che ormai permette alle donne persino di guidare l’automobile. Altrettanto vale per l’Etiopia, per la Colombia in cui ogni giorno vengono uccisi oppositori, per il Brasile del golpista Temer, per il Messico delle stragi di studenti coperte dal governo. E così via, a non finire.
Bisognerebbe ricordare che il fascismo si affermò in Italia non per le sole violenze degli squadristi, ma anche e soprattutto per la connivenza con le camicie nere della classe dirigente che si diceva “liberale”. La quale si traveste da socialdemocratica quando le conviene, salvo affidarsi alla peggiore repressione reazionaria non appena vede scosso il suo dominio. D’altra parte, si diceva socialdemocratico D’Alema, quando consegnò il curdo Ocalan ai suoi persecutori turchi. Era “di sinistra” (sic!) Emma Bonino quando vestì l’uniforme croata per appoggiare la dissoluzione della ex Jugoslavia. Era “di sinistra” Giorgio Napolitano allorché fece pressione perché la Libia fosse bombardata (in linea con i tempi in cui plaudiva alla fucilazione di Imre Nagy e al soffocamento nel sangue della rivolta operaia ungherese).
Tutte le guerre recenti sono state scatenate da liberali, col concorso di socialisti per ridere, finti democratici e sedicenti progressisti. Il motivo sta nel fondo, nel capitalismo eretto a valore indiscutibile ed eterno, nel profitto esaltato quale motore della storia, nella competitività famelica considerata come equivalente della modernità. Assunti questi postulati, dopo è questione di sfumature. Ci sono i liberali brutali e quelli “umanitari” e compassionevoli. I primi si limitano al puro uso della forza e dell’inganno, per piegare persone, nazioni, continenti. I secondi addolciscono la condivisa implacabilità dei conservatori con elemosine, piagnucolii, promesse, parole consolanti, mance ridicole (è la sostanza vacua e la ragion d’essere del PD). L’importante è che non siano messi in discussione gli assetti del capitale internazionale o i meccanismi di estrazione del profitto.
A questo fine servono un ceto politico unito sui capisaldi fondamentali, un’informazione asservita e bugiarda prona agli interessi di finanza e grande industria (che la possiedono in toto), una massa subordinata da abbindolare agitando i “valori eterni” e inevitabili della flessibilità (leggi malleabilità), del merito (cioè della concorrenza al ribasso, nelle singole nazioni o su scala mondiale), e soprattutto dell’obbedienza e della disciplina sociale. Più un tocco quasi religioso di rassegnazione.
Poco importa se, a questo scopo, si scompagina e si getta nell’incertezza del futuro una generazione intera (anzi, più d’una), Di spiegazioni fuorvianti i mentitori al potere hanno una riserva inesauribile. Sono gli anziani che rubano il lavoro ai giovani. Sono gli immigrati che drogano il mercato delle braccia. Non si fanno abbastanza figli per indolenza, e l’industria ne risente. Chi ha un lavoro sicuro se la spassa da furbetto e non fa il suo dovere. Scommetto che tutti hanno sentito proclamare queste stronzate. Sono ripetute ogni giorno per addormentare il conflitto di classe. Sono alibi, che oscillano tra il falso e l’ignobile.
E’ agitato, per celare il crimine, il fantasma del debito pubblico, nascondendo la truffa. Da Reagan-Thatcher in avanti si occulta, anche e soprattutto nelle università, che le dottrine dell’economia politica sono molteplici. Per parte di esse il debito è un’astrazione. Visto che tutti gli Stati sono indebitati (specialmente gli Stati Uniti, favoriti dall’emissione della principale moneta di scambio, oggi al tramonto), si fissavano una volta i tempi di restituzione su scale trenta o cinquantennali. A molti paesi africani è stato condonato il servizio sul debito, e talora il debito stesso. L’economia mondiale non ne ha avuto contraccolpi.
Ma l’Unione Europea si affida solo alla teoria economica monetarista, mai verificata scientificamente (si fonda su pure statistiche, come rilevò tra gli altri Federico Caffè), di Milton Friedman e seguaci, poi fatta propria da Reagan, Thatcher e sotto-canaglie, fino a scendere a Renzi, Gentiloni e ai guitti nostrani. Soprattutto l’UE ne fa propri i corollari. Per competere su scala globale, il capitalismo deve rendere debole e vulnerabile la forza-lavoro. Fiaccarne la forza collettiva, disperderne l’unità, distruggerne una soggettività comune pericolosa. La precarietà eterna è l’arma suprema. Guerra di tutti contro tutti, per un posto che assicuri una sopravvivenza da difendere giorno per giorno. Come? Con l’acquiescenza, la docilità, la rinuncia alla ribellione. Il costo del lavoro scenderà ai minimi. I profitti si allargheranno.
Quella del debito (e dell’austerità per ripararlo) è dunque un’ideologia di asservimento, non una scienza obiettiva. Al pari dell’introduzione del pareggio di bilancio nelle Costituzioni, per sfigurarle una volta per tutte. Quando furono varati i trattati istitutivi dell’UE vi fu chi disse, con franchezza, che essi erano un’assicurazione permanente contro ogni rischio di socialismo. L’esito si è visto. Nato sulle ceneri di una guerra, che ha distrutto la ex Jugoslavia (e c’è chi osa dire che in Europa non si fanno guerre da settant’anni!), il nuovo ordinamento europeo ha alimentato innumerevoli conflitti, spesso a carattere esplicitamente coloniale. Con la dominanza al suo interno del capitale finanziario, ha spossessato un’intera leva giovanile dei suoi diritti, ha creato disoccupazione e smarrimento, ha spostato quantità spropositate di reddito verso le classi privilegiate, ha depauperato aree e Paesi, ha rubato democrazia al popolo. Al popolo: visto che al proletariato vanno ormai sommate frazioni di ceto medio spinte sull’orlo della rovina.
Avere qualche deputato in Parlamento cambierebbe le cose? Certamente no, solo un ingenuo potrebbe crederlo. Ma un’azione politica anche modesta (sul modello di quella svolta in valorosa solitudine da Eleonora Forenza nell’europarlamento), unendosi all’azione di piazza, potrebbe valorizzare quest’ultima, conquistare spazi di visibilità, imporsi a media che grondano ignominia e menzogna, spernacchiare il nemico di classe. Andrea Costa, primo parlamentare socialista italiano, e Lenin, primo trionfatore comunista, dicevano, su questo tema, la stessa cosa. Non lasciare la tribuna all’avversario. E se poi il tentativo non riesce, quanto meno ci si sarà provato. Lo stesso sforzo propagandistico pagherà col tempo.
Servono, in questo quadro, proclami libreschi, esortazioni a una rivoluzione fuori portata, dispiegamento di stendardi polverosi e di vecchie insegne? No, è puro folklore (anche simpatico, a volte). La composizione di classe è cambiata e bisogna prenderne atto. Il che non vuol dire rinunciare a essere ribelli, rivoluzionari, internazionalisti o altro. Semplicemente, il nuovo antagonismo deve prendere forma all’interno delle articolazioni reali del proletariato, quale oggi si presenta. Nessuna supposta avanguardia esterna, mummificata in antiche ritualità, riuscirebbe a scuoterlo e mobilitarlo. A tal fine, anche la spinta elettorale, in sé insufficiente, risulta preziosa.
Potere al Popolo! è la prima, vera espressione politica in Italia, spontanea e non ideologica, del nuovo assetto delle classi subalterne, in primo luogo giovanili. Trascurarla sarebbe un delitto. Pagheremmo l’errore per un altro decennio, a essere ottimisti. Interessante sarà il dopo, al di là del numero di deputati ottenuti in questa sortita esplorativa, finora coronata da successi a dir poco incoraggianti.