di Walter Catalano
«Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!». Giacobbe s’irritò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?». Allora essa rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch’io una mia prole per mezzo di lei». Così essa gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei.» (Genesi 30,1-4).
E’ questo il passo biblico che ha fornito alla narratrice e poetessa canadese Margaret Atwood l’ispirazione per l’inquietante distopia The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella), scritta nel lontano 1984.
Alla fine del Ventesimo secolo, dopo una guerra nucleare e chimica che ha riempito il mondo di scorie tossiche rendendo sterili gran parte delle donne, un golpe di fondamentalisti neopuritani – i Figli di Giacobbe – instaura in Nord America la Repubblica di Galaad, un regime totalitario teocratico di ispirazione biblica, che asservisce e schiavizza le poche donne fertili a scopi riproduttivi e mantiene l’ordine con il terrore e la repressione. Ai vertici del potere, i Comandanti, gerarchi della repubblica, oltre alle legittime mogli, utilizzano per la riproduzione, le Ancelle, donne fertili accolte in casa come schiave sessuali, costrette una volta al mese a subire la Celebrazione, un rituale di accoppiamento durante il quale – seguendo l’esempio di Giacobbe – vengono possedute dal padrone sulle ginocchia della moglie che tiene ferma l’Ancella controllando che la poveretta non ricavi alcun piacere dall’amplesso. Così la protagonista descriverà la procedura: “La mia gonna rossa viene tirata su fino alla vita, non di più. Al di sotto c’è il Comandante che fotte. Si fotte la parte inferiore del mio corpo. Non dico fa l’amore, perché non è quello che sta facendo. Anche il termine copulare sarebbe improprio, perché implicherebbe la partecipazione di due persone e invece solo una è coinvolta. E nemmeno la parola stupro descrive bene l’atto: non sta accadendo niente che non avessi accettato di fare”.
Se la fecondazione va a buon fine l’Ancella otterrà qualche privilegio, almeno durante la gravidanza – miglior cibo, riposo, oltre alla riconoscenza della coppia che la priverà del bambino immediatamente dopo il parto – altrimenti dovrà ripetere l’esperienza per mesi o per gli interi due anni dell’assegnazione. Totalmente spersonalizzate, le Ancelle non hanno più nome ma diventano proprietà del loro padrone e prendono nome da lui: ad esempio la protagonista del romanzo si chiama Difred (Offred in originale), essendo proprietà del Comandante Fred, un’altra Ancella con cui Difred entrerà in confidenza si chiama Diglen (Ofglen), proprietà del Comandante Glen. Dopo i Comandanti, gli altri gradini della piramide sociale di Galaad sono: gli Angeli, ossia i soldati; le mogli dei Comandanti e degli Angeli; gli Occhi, membri dei servizi segreti, delatori e spie; i Guardiani, poliziotti, sbirri e guardie del corpo; le Zie, istitutrici e kapò, vestali del rigore morale delle Ancelle; i Custodi, domestici, inservienti e valletti, cui non è consentito avere rapporti con donne; le Marte, cameriere, cuoche e serve; le Economogli, donne sposate a uomini appartenenti a bassi ceti sociali; le Jezebel, prostitute, la cui esistenza non è ufficialmente ammessa dal regime; le Nondonne, donne sterili o anziane, lesbiche, dissidenti politiche, femministe, ex monache che hanno rifiutato la conversione, Jezebel invecchiate e non più sessualmente attraenti o Ancelle che non siano riuscite a concepire alcun bambino dopo tre bienni di assegnazioni, tutte considerate inabili all’integrazione sociale, che vengono direttamente inviate nelle Colonie, luoghi di lavoro coatto su terreni inquinati.
La storia è narrata da Difred che l’ha registrata su musicassette ritrovate e trascritte più di un secolo dopo, durante il “Dodicesimo Simposio di Studi Galaadiani” del 2195, nel corso del quale si argomenta sull’impossibilità di stabilire l’autenticità del racconto. Difred ha perso tutti i propri diritti di cittadinanza dopo l’instaurazione della dittatura, essendo convivente di un uomo divorziato, Luke, con il quale ha avuto una bambina, rapporto considerato illegale e immorale da Galaad. Catturata sul confine canadese mentre cerca di espatriare con i familiari, non ha più saputo niente di loro ed è stata costretta a diventare un’Ancella. Dovrà subire le angherie della moglie di Fred – consapevole della sterilità del marito ma impossibilitata ad ammetterlo pubblicamente, essendo a Galaad solo la donna imputabile di sterilità e non l’uomo – e le attenzioni del Comandante – con il quale non dovrebbe intrattenere alcun genere di rapporto eccetto quello della Celebrazione mensile.
Fred inizia invitandola innocentemente a giocare con lui a Scarabeo – i giochi sono divenuti illegali a Galaad – e le permette di leggere riviste femminili stampate prima del golpe – anche queste sono ora illegali – ma poco dopo la introduce di nascosto, travestita da prostituta, in una casa di tolleranza allestita dal governo per dilettare i propri funzionari, per avere con lei ben altre gratificazioni sessuali di quelle concesse dalla Celebrazione. Nel frattempo Difred ha instaurato un rapporto clandestino con Nick, Custode nella casa di Fred, basato sull’affetto e l’attrazione reciproca, ed è venuta a conoscenza, tramite Diglen, l’unica altra Ancella con cui sia entrata in confidenza, dell’esistenza di Mayday, un movimento fuorilegge di resistenza che Diglen fiancheggia. La moglie di Fred, Serena Joy, prima la indurrà ad avere un figlio da Nick, facendolo passare per figlio di Fred, visto che il marito è sterile, e promettendole in cambio di farle avere notizie della figlia scomparsa; poi, scoperti i rapporti illegittimi di Difred con Fred, promette gravi ripercussioni. Nel finale Difred deve lasciare la casa del Comandante, apparentemente prelevata da un furgone degli Occhi, ma che in realtà potrebbe essere stato infiltrato da Mayday, e viene condotta via, non sappiamo se verso la salvezza o verso il misero destino delle Nondonne.
Questa è, a grandi linee, la trama del romanzo, vincitore del Governor General’s Award, un riconoscimento offerto dal Primo Ministro del Canada nel 1985 e del primo Premio Arthur C. Clarke nel 1987, e candidato al Premio Nebula nel 1986, al Booker Prize, al premio Locus e al Premio Prometheus nel 1987. La Atwood dedicò il libro alla memoria della sua antenata Mary Webster, accusata di stregoneria nel New England puritano e sopravvissuta all’impiccagione. La figura dell’Ancella resterà profondamente legata all’immaginario della scrittrice canadese – metafora dell’asservimento e della schiavizzazione del debole al forte, in senso soprattutto politico oltre che sessuale – dopo le bibliche schiave di Giacobbe, ricomparirà ne Il canto di Penelope (The Penelopiad) del 2005 con l’immagine omerica delle dodici ancelle “infedeli”, colpevoli di essersi date ai Proci (sedotte o forse violentate), che nell’Odissea Ulisse farà impiccare dopo aver compiuto la strage dei pretendenti usurpatori. Ancora dall’Ade l’ombra di Penelope si duole di non averle potute o volute salvare e, a loro volta, le ombre delle impiccate commentano in un coro eschileo le vicende del nostos del re, da un’inedita prospettiva femminile e ancillare.
Margaret Atwood ha sempre rifiutato alcune semplificazioni della critica puntualizzando a proposito de Il racconto dell’Ancella, che il romanzo appartiene alla fantascienza solo in senso esteso, quanto 1984 di George Orwell, Brave New World di Aldous Huxley, The Iron Heel di Jack London, o Farenheit 451 di Ray Bradbury: non science fiction ma piuttosto speculative fiction. Infatti – spiega l’autrice – non ci sono invenzioni mirabolanti, viaggi spaziali o creature aliene, “Nel mio libro non ho messo niente che gli essere umani non abbiano già fatto. Forse non è un bel ritratto, ma è il nostro ritratto”. Anche rispetto all’etichetta di scrittrice “femminista” la Atwood ha sempre, scherzosamente, messo le mani avanti dicendo di essersi sempre sentita fuori posto, troppo giovane per la prima ondata femminista (le Suffragette) e troppo vecchia per la seconda (il Movimento di liberazione della donna degli anni ’70); la sua critica è di natura soprattutto politica, coinvolge ovviamente anche il genere, ma non parte da questo nella sua analisi: il romanzo è “uno studio sul potere, su come questo agisce e come deforma e modella le persone che vivono in un regime”; la società descritta è una dittatura in cui non necessariamente tutti gli uomini hanno maggiori diritti delle donne, “si tratta di una piramide, con i potenti di entrambi i sessi all’apice, in cui in genere gli uomini prevalgono sulle donne dello stesso livello, e poi livelli gerarchicamente decrescenti di potere e status, con uomini e donne in ognuno di essi, fino al fondo dove gli uomini non sposati devono servire nei ranghi prima che venga loro assegnata una Economoglie”.
“Se per femminismo – continua la scrittrice in un’intervista più recente – s’intende un trattato ideologico nel quale tutte le donne sono angeli e/o sono talmente vittimizzate da essere incapaci di scelta morale, no. Se s’intende invece un romanzo in cui le donne sono esseri umani, con tutte le varietà di carattere e comportamento che questo implica, e sono anche interessanti e importanti e quello che accade loro è cruciale per il tema, la struttura e la trama del libro, allora sì. In questo senso, molti libri sono ‘femministi’…Il controllo di donne e bambini è stato un aspetto primario di ogni regime repressivo del pianeta. Napoleone e la sua “carne da cannone”, lo schiavismo con il suo sempre nuovo mercato di esseri umani, ci rientrano pienamente… Analogamente il libro non è ‘antireligioso’. E’ contro l’uso della religione come fiancheggiatrice della tirannia, che è una cosa del tutto diversa”.
Oltre ad avere ispirato varie trasposizioni teatrali e radiofoniche, una graphic novel, un balletto e un’opera lirica, la distopia della Atwood ha trovato un quasi immediato interesse anche da parte del cinema: il regista tedesco Volker Schlöndorff infatti, ne trasse già nel 1990 una versione poco convinta e poco convincente, nonostante la sceneggiatura scritta da Harold Pinter e l’interpretazione di ottimi attori quali Robert Duvall, Faye Dunaway e Natasha Richardson, la bella, talentuosa e sfortunata figlia di Vanessa Redgrave e Tony Richardson, precocemente scomparsa in un incidente sciistico. Il testo restò poi per qualche anno lontano dagli schermi per riemergere solo nel 2017, riproposto dal produttore e sceneggiatore Bruce Miller, in forma dilatata e aggiornata per una serie tv, alla casa di produzione di video on demand Hulu.
La nuova vita televisiva di The Handmaid’s Tale deve il suo successo anche al carisma della protagonista femminile, l’attrice Elisabeth Moss, giustamente famosa per il ruolo di Peggy Olson nella pluripremiata serie Mad Men (2007/2015) e per la miniserie neozelandese Top of the Lake (2013) di Jane Campion. La Moss, produttrice esecutiva dei suoi ruoli come si usa nei paesi anglosassoni, ha voluto recitare senza il minimo trucco sul volto, non solo per motivi diegetici – ogni cosmetico è fuorilegge a Galaad e Difred è costretta a rubare dalla sua colazione pezzetti di burro per idratare la pelle – ma in modo che ogni impercettibile rossore, pallore o imperfezione cutanea venisse messa in risalto dalle luci di scena esaltando così la fragilità del personaggio e il fascino particolare dell’interprete, non certo corrispondente ad un canone di bellezza convenzionale.
Ovviamente, per quanto lo script intendesse restare fedele nello spirito al testo originale, troppi cambiamenti sociali e tecnologici sono intercorsi dal remoto 1984 quando la Atwood si mise alla macchina da scrivere, nella Berlino ancora divisa tra le due Germanie, dove allora viveva. Il cast e la sceneggiatura dovevano riflettere i mutamenti di una società completamente diversa da quella in cui il libro fu concepito, e non sempre migliore: “Sulla scia delle recenti elezioni americane – spiega ancora la Atwood – proliferano paure e ansietà. Le libertà civili di base sono minacciate, insieme a molti dei diritti che le donne hanno conquistato nelle decadi e nei secoli passati. In un clima diviso, in cui l’odio per molti gruppi sociali sembra crescere e il discredito per le istituzioni democratiche viene espresso da estremisti di ogni tendenza…”. Un tempo pericoloso, dunque, in cui le campane d’allarme della buona fantascienza devono squillare ancora più forte e in cui la polemica anti Trump viene univocamente raccolta e diffusa, in termini metaforici ma espliciti, da gran parte delle più consapevoli e problematiche serie TV che sembrano ereditare in questo modo la funzione critica capillare svolta nel passato da un certo tipo di cinema.
Punto per punto lo sceneggiatore Miller ha concordato con la Atwood aggiornamenti e modifiche. Il vero nome della protagonista, ad esempio, che nel romanzo è ignoto – la donna nel testo è sempre e solo Difred – viene invece rivelato alla fine del primo episodio dello show. Le ragioni sono prevalentemente pratiche: nei numerosi flashback sarebbe stato impossibile lasciare il personaggio innominato; il nome June invece, risolve il problema, oltre a conferire alla protagonista – assai più ribelle, determinata e combattiva della ormai rassegnata Difred del libro – un indelebile collegamento con il suo passato e con la sua autentica identità tutt’altro che domata. E questo è un altro dei cambiamenti più significativi: Difred nel libro è totalmente passiva; quando il nuovo governo dichiara fuorilegge ogni lavoro svolto dalle donne, non scende in strada a protestare, mentre una scena della serie vede la June dello show attivamente coinvolta in una manifestazione per le vie cittadine, sanguinosamente dispersa da una violenta sparatoria; così, quando Diglen le chiede di spiare il Comandante per conto di Mayday, Difred a differenza di June, rifiuta anteponendo la sopravvivenza personale alla lotta antisistema.
La profonda frattura interiore del personaggio è evidenziata ancora più efficacemente dai monologhi interni ed esterni della Difred televisiva, spesso antitetici: obbediente esteriormente, indignata e ribelle interiormente. Il personaggio interpretato da Elisabeth Moss ricorda, nel suo anticonformismo represso, la Peggy Olson di Mad Men e questo la rende molto più carismatica e interessante dell’ormai sottomesso suo corrispettivo letterario. Questi aspetti conflittuali nelle due figure dello stesso personaggio emergono soprattutto nella violenta scena in cui tutte le Ancelle sotto il comando della loro Zia, devono cerimonialmente compiere l’esecuzione di un uomo accusato di stupro: mentre la Difred del libro si ritira disgustata lasciando che sia Diglen a colpire con un calcio alla testa il condannato facendogli perdere i sensi, quella della serie è invece una delle prime ad attaccare l’uomo, quasi cercasse in questo gesto barbaro una sua catarsi.
Anche Galaad ha subito alcune modifiche: nel libro il regime ha attuato una pulizia etnica su modello nazista che ha eliminato dalla repubblica ogni etnia diversa dagli americani Wasp, mentre nello show compaiono numerosi personaggi di colore, come se le differenze razziali non fossero un problema fondamentale, e sono stati aumentati invece i riferimenti alla repressione e alla forzata rieducazione degli omosessuali, piuttosto vaghi nel romanzo (il personaggio di Diglen, lesbica e membro della resistenza, punita con l’infibulazione, ha assunto un’importanza molto maggiore guadagnandosi un ruolo fisso anche nelle future stagioni); lo sceneggiatore Miller così ha spiegato l’incongruenza che alcuni spettatori hanno criticato come punto debole della caratterizzazione di Galaad: ”Che differenza ci sarebbe stato fra fare uno show televisivo sui razzisti e farne uno razzista che non impiegasse attori di colore ?”. Sulla stessa posizione la Moss ha puntualizzato che la serie intendeva riflettere la società corrente mostrando ogni tipo di persona perché tutti gli spettatori vi si potessero rispecchiare più facilmente.
Anche la dialettica fra Difred e Serena Joy, la moglie del Comandante, ha subito sostanziali aggiornamenti. Nel libro Serena Joy ha passato la menopausa, nella serie invece le due donne sono giovani e più o meno coetanee, questo aggiunge tensione e potenzia la rivalità e la conflittualità del loro rapporto; anche il Comandante Fred è un uomo attraente e non un anziano gerarca. Serena Joy inoltre non è una figura anodina ma appare in un flashback del sesto episodio come una televangelista, autrice di vari libri, una delle eminenze grigie che, più per opportunismo che per reale convinzione, hanno portato all’avvento di Galaad e fomentato la sua affermazione, un’intellettuale che ha scelto di servire una teocrazia che ha vietato alle donne di leggere e scrivere.
L’uso estensivo del flashback è un cambiamento strutturale determinante che nello show permette di vedere le fasi attraverso le quali il regime di Galaad si è instaurato: il progressivo diffondersi di un sempre più virulento sessismo nel paese; la tragica crisi di fertilità che colpisce le donne (efficacissima la scena del tentativo di furto della figlia appena nata di June nel reparto maternità di un ospedale); il condizionamento che la sfera pubblica infligge a quella privata con i cambiamenti del ménage familiare e amoroso di June e del compagno; il tracimare aberrante degli eventi politici e la conseguente decisione di tentare, sfortunatamente senza successo, la fuga da un paese ormai infestato e corrotto da un nuovo totalitarismo, non hanno parallelo nel libro. Se il romanzo poi è interamente inquadrato dalla prospettiva di Difred, la serie offre invece diversi punti di vista e segue altri personaggi per dare allo spettatore una conoscenza più vasta e approfondita dello scenario, testimoniando tra l’altro di pratiche assai più cruente di quelle denunciate sulla pagina: la mutilazione dei genitali femminili, la punizione corporale per le trasgressioni sessuali o per i reati d’insubordinazione (al personaggio di Janine viene cavato platealmente un occhio mentre nel libro le veniva “solo” fracassato un piede come agli schiavi fuggiaschi nella Confederazione) e la pratica quasi quotidiana dell’impiccagione e dell’esposizione dei corpi dei dissidenti. L’esplorazione di questo mondo terrificante (ma in cui niente è diverso da quanto avvenuto realmente in qualche tempo e in qualche luogo della storia del nostro mondo) secondo gli autori sarà ancora più dettagliata nelle stagioni a venire.
Un personaggio del libro che invece è stato per ora del tutto eliminato è la madre di Difred, un’attivista del movimento dei diritti delle donne che accusa la figlia e la sua generazione di non apprezzare i sacrifici che le femministe hanno fatto per loro; Miller riteneva quel dibattito datato e ha preferito sopprimere il personaggio con il consenso della Atwood, spostando alcune delle caratteristiche protestatarie e ribelli della personalità della madre sulla figlia stessa. Voci di corridoio annunciano comunque che negli sviluppi futuri della serie, ormai certi e prossimi, ci sarà un ruolo ripristinato anche per la madre di June. Altre piccole modifiche riguardano gli aggiornamenti tecnologici, la presenza massiccia di smartphones o il riferimento alla Uber Technology, il fatto che le Ancelle siano identificate tramite chips auricolari invece di tatuaggi, e così via. Inalterata invece l’iconografia visiva già resa molto vivace dalle descrizioni della Atwood: ”I costumi modesti indossati dalle donne di Galaad derivano dall’iconografia religiosa occidentale: le Mogli indossano il blu della purezza, come la Vergine Maria; le Ancelle vestono di rosso, come il sangue del parto, ma anche come Maria Maddalena, e in più il rosso è un colore ben visibile se stai scappando; le Economogli vestono a righe. Devo confessare che le cuffie che nascondono il volto delle Ancelle non derivano solo dai costumi vittoriani e dall’abito delle monache, ma anche dalle confezioni di detersivo Old Dutch degli anni ’40, che mostrava una donna dal volto coperto che mi terrorizzava da bambina. Molti regimi totalitari hanno usato l’abbigliamento, vietando o obbligando il ricorso a certi capi di vestiario, per identificare e controllare la gente, si pensi alla stella gialla o alla porpora romana – e molti hanno giustificato il loro dominio dietro un fronte religioso: così era più facile creare un eretico”.
Nolite te bastardes carborundorum è, sia nel romanzo che nello show televisivo, il motto del riscatto e della non accettazione dello statu quo. June scopre la frase incisa con la punta di uno spillo sulla porta dell’armadio della sua camera da letto, unica testimonianza della precedente Difred, di cui ha ereditato il nome e il ruolo dopo il suicidio di quest’ultima: in un momento di intimità, sarà proprio Fred, che non ne comprende il vero significato, a tradurre per lei il latino maccheronico. Una frase che molte femministe americane, lettrici dei romanzi della Atwood, si fanno tatuare sul corpo ormai da anni: la scrittrice ha spiegato che la sentenza, in realtà senza senso, risale ad uno scherzo durante le lezioni di latino: ”un pezzo della mia infanzia ora è per sempre sul corpo di qualcuno” – ha scherzato. La presunta traduzione è “non permettere che i bastardi ti schiaccino”, in realtà solo nolite e te – non e ti – sono davvero parole latine, bastardes nonostante il suffisso latino è il bastard inglese – in latino corretto si sarebbe dovuto usare illegitimi – e carborundorum è una parola inglese in uso un secolo e mezzo fa, secondo l’Oxford English Dictionary era il nome di un prodotto industriale usato come abrasivo, suona come un gerundivo latino e ad un anglofono suggerisce il senso del corrodere, consumare, schiacciare. Il finto apoftegma latino si contrappone come un’irrisione e uno sberleffo, a porte chiuse, alle formule bibliche ripetute ossessivamente, in pubblico, da funzionari e cittadini di Galaad.
Anche sul piano tecnico la serie si pone fra le più raffinate in circolazione: una fotografia glaciale con una nitidezza da quadro di Vermeer, che mette in risalto il contrasto abbagliante fra le ombre e le luci, fra i colori contrastanti: il pallore livido dei volti sul candore deprimente delle cuffie che sfigurano la bellezza delle ragazze, il rosso scarlatto delle vesti delle Ancelle sul verde di un paesaggio campestre illusoriamente bucolico; una regia fluida, ad opera di Reed Morano, con inquadrature lunghe e senza pirotecnismi inutili ma attenta ad esaltare ogni minimo guizzo della recitazione di un cast di altissimo livello, in cui spiccano, oltre ovviamente alla straordinaria protagonista Elisabeth Moss, Yvonne Strahovski nel ruolo della gelida Serena Joy Waterford, Joseph Fiennes il sornione Comandante Fred Waterford, Ann Dowd l’odiosa Zia Lydia, torturatrice delle povere Ancelle, e Alexis Bledel la stoica Emily/Diglen, lesbica e membro della resistenza che ha visto impiccare la propria compagna, ha subito l’infibulazione punitiva, ma tuttavia riesce a uccidere un Guardiano e a fuggire (tornerà, si dice, nella seconda stagione più tosta che mai…). Un florilegio di premi ha salutato il successo internazionale dello show: otto Primetime Emmy Awards su tredici nominations, e due Golden Globe Awards per la miglior serie drammatica e per la migliore attrice protagonista. Un riconoscimento meritato per una serie senza fronzoli superflui: raffinata e perturbante, stilisticamente compatta e tematicamente engagé senza pedanterie o fanatismi.
Margaret Atwood, molto soddisfatta dei risultati che vanno ampiamente al di là (e forse addirittura al di sopra) del suo libro, si è prestata per un breve cameo nel pilot: fuori fuoco alle spalle della Moss, è una Zia castigatrice che rifila un sonoro ceffone alla povera ragazza durante il periodo di rieducazione e indottrinamento che la prepara al nuovo ruolo di Ancella. La scrittrice ha affermato che lavorerà a stretto contatto con gli sceneggiatori per le stagioni successive di The Handmaid’s Tale e che queste costituiranno il proseguimento della storia narrata nel suo romanzo (e già esaurita nella prima serie dello show): un seguito che aveva sempre pensato di scrivere e non aveva mai avuto occasione di fare. Siamo certi che i futuri sviluppi saranno all’altezza di quanto finora realizzato. Nel frattempo debutta per Netflix anche una nuova serie tratta da un altro romanzo “femminista” o, meglio, femminile della Atwood, questa volta romanzo storico e non fantascientifico ma con un taglio quasi da noir in costume: Alias Grace, da noi L’altra Grace, interpretata dall’affascinante Sarah Gadon. Non ce la faremo sfuggire.