di Gabriele Guerra
Libero Federici, Il misterioso eliotropismo. Filosofia, politica e diritto in Walter Benjamin, Prefazione di Laura Bazzicalupo, Ombre corte, 2017, pp. 141, € 13.00
Cinquant’anni sono ormai passati da quando il movimento studentesco tedesco decise di intitolare un’aula della Freie Universität berlinese a Walter Benjamin, l’intellettuale ebreo-tedesco amico di Adorno e di Brecht, morto suicida nel 1940 sul confine franco-spagnolo, mentre tentava di scappare dalla persecuzione nazista. Cinquant’anni, e tanta acqua è passata sotto i ponti – acqua politica, filosofica, filologica. Cosicchè ormai è difficile, e per certi versi impossibile, restituire un quadro complessivo di questa complicata e affascinante figura di pensatore, sempre sospeso tra formazione letteraria e filosofica, scoperta dell’ebraismo, impegno politico, erudizione, raffinatezza concettuale e stilistica, esoterismo intellettuale. Estremamente complicato, ma non impossibile, appare ora giocare la sua figura, come fecero cinquant’anni fa gli studenti berlinesi, contro l’ortodossia filosofica di matrice francofortese. Mi riferisco ad Adorno che, insieme all’altro amico fraterno di Benjamin, il massimo esperto di mistica ebraica Gershom Scholem, aveva curato nel 1966 un’edizione in due volumi delle lettere che il filosofo berlinese aveva inviato a una ampia rete di amici, conoscenti, colleghi e autorità accademiche. Si trattava di un’edizione epistolare che i due amici del filosofo berlinese avevano depurato da accenti troppo critici verso il marxismo francofortese, verso la costellazione di conoscenti più diretti, e da una più generica disposizione anticonformista di Benjamin. Tale lettura antiortodossa è resa complicata anche dalla pervasiva diffusione del pensiero benjaminiano che sta conferendo al filosofo l’aura di un classico, con tutti i pregi e i difetti del caso. Ciò nonostante l’autore delle Tesi sul concetto di storia non può essere semplicemente e frettolosamente rubricato a capitolo “innocente” della filosofia tedesca del XX secolo, proprio per il potenziale eversivo e per il carattere costitutivamente eccentrico del suo pensiero.
Se ora però, dopo quasi due decenni di XXI secolo, si tenta di affrontare la figura di Walter Benjamin ricorrendo a nuovi approcci interdisciplinari, nuove prospettive interpretative, nuovi percorsi analitici, le strade che si aprono davanti all’interprete sono sostanzialmente due: rideclinare le categorie benjaminiane tentando delle attualizzazioni, delle politicizzazioni (a volte davvero spericolate); oppure dedicarsi (a volte in maniera francamente ossessiva) a una reinterpretazione accuratamente filologica dei suoi testi, dei contesti, delle sue figure concettuali. È chiaro che queste due vie interpretative non sono necessariamente antitetiche,– ché anzi, a parere di chi scrive, è proprio nella fruttuosa interpolazione della via “politica” e di quella “filologica” che si può trovare il punto archimedico che permetta di far dire qualcosa di nuovo ai testi benjaminiani, perfino di esplosivo per l’oggi, senza per questo partire per la tangente attualizzante del suo pensiero.
Proprio nel senso di una applicazione incrociata di queste due vie interpretative, è utile la lettura di un agile, ma approfondito e stimolante libro, che Libero Federici ha dedicato alla ricostruzione complessiva del pensiero e della figura di Walter Benjamin. Federici non si spaventa dinanzi al compito, e anzi, fin dalla prima nota dell’Introduzione, si premura di precisare: “non si condivide l’eccessivo accostamento di Benjamin ad altri autori: infatti ciò può relegare la pagina benjaminiana a veloce annotazione a fronte di più lunghe argomentazioni di teorie altre. Inoltre si denuncia l’improprio uso di citazioni di questo autore in contesti non pertinenti”. Si tratta di un’annotazione salutare, intesa a denunciare la “benjaminite” che sembra aver contagiato legioni di interpreti, pronti a evocare con la forza della sola citazione (ma non si dimentichi che lo stesso Benjamin era un raffinato fautore della forza autonoma della citazione), le idee del filosofo; e tuttavia una tale affermazione ha anche il difetto, come si usa dire, di gettare il bambino con l’acqua sporca: ovvero passare del tutto sotto silenzio il contesto storico, politico, filosofico e intellettuale entro cui Benjamin ha agito, e soprattutto con cui ha interagito. In tal modo l’autore produce una serie di capitoli in cui affronta i principali nodi teoretici benjaminiani (la teoria del linguaggio, quella del mito, la critica della violenza, l’archeologia del Moderno, la critica filosofica al positivismo socialdemocratico, l’opposizione al totalitarismo fascista e nazista) in cui riesce sempre a offrire ricostruzioni convincenti, anche per la loro stringatezza e profondità, che forniscono un ottimo viatico alla conoscenza globale del pensiero benjaminiano. Manca però una riconsiderazione, altrettanto globale, che permetta di tenere insieme in maniera convincente, cioè in qualche modo nuova, tutti questi capitoli dello studio di Federici. Lo stesso ricorso, fin dal titolo, all’affascinante metafora dell’eliotropismo desunta dalle Tesi (“come i fiori volgono il capo verso il sole, così, per un eliotropismo di natura misteriosa, ciò che è stato tende a rivolgersi verso quel sole che sta per sorgere nel cielo della storia”) ha piuttosto il compito di replicare l’esotericità intrinseca al pensiero benjaminiano, anziché tentare di trovare una chiave esplicativa partendo da essa. Anche Laura Bazzicalupo, nella sua appassionata e precisa Prefazione, fa giustamente riferimento a questa metafora che informa lo studio di Federici, sottolineando peraltro come Benjamin sia prima di tutto un filosofo. Bazzicalupo, coerentemente con questo assunto, afferma poi come il procedimento analitico dell’autore di questo studio si delinei attraverso “il rispetto assoluto ed esclusivo dei testi” di Benjamin. In tal modo conferma una sorta di circolarità ermeneutica che avvolge questo libro, che si potrebbe definire monofilosofica: siccome Benjamin è filosofo, allora soltanto dalla lettura rispettosa, assoluta ed esclusiva dei suoi testi è possibile delineare il suo profilo intellettuale. Peccato però – ammesso e non concesso che il procedimento interpretativo dei filosofi debba essere esclusivamente questo – che Benjamin non sia Kant; non sia cioè un filosofo “di professione”, e che anzi il suo carattere eccentrico – cioè non direttamente posizionabile sul diagramma del “campo” intellettuale del suo tempo, per dirla con Bourdieu – vada assunto come cifra distintiva della sua esistenza. Benjamin incarna insomma in maniera paradigmatica (in maniera a volte troppo paradigmatica, va aggiunto, perché da essa viene derivata troppo facilmente una mera agiografia dell’outsider) la figura dell’intellettuale sradicato e privo di connessioni con il mondo ufficiale di produzione e riproduzione della cultura – quello che insomma il sociologo Karl Mannheim, già allievo di Max Weber, nel 1929 aveva definito come intellettuale freischwebend, “liberamente oscillante” fra le diverse posizioni ideologiche.
Sia Bazzicalupo che Federici giustamente sottolineano con forza come Benjamin sia filosofo in quanto “cercatore della verità”, “perché la sua rivoluzione sta proprio nella redenzione della verità perduta, non espressa, contro la costruzione cognitiva epicizzante”, come avverte ancora Bazzicalupo. È altresì indubbiamente vero quel che ne dice Scholem (ricordato subito dall’autore in apertura del suo lavoro), secondo il quale Benjamin era appunto prima di tutto un filosofo per il quale – aggiunge Federici – contava appunto la Kritik. Quel che qui in realtà si obietta è il modo appunto monofilosofico di affrontare i testi di Benjamin: trascurandone i contesti, questi finiscono per risuonare come voci oracolari di un pensiero filosofico che, ancorché disperso in mille rivoli e privo di unitarietà teoretica, viene presentato come concettualmente omogeneo. Tuttavia bisogna dire che ciò offre anche un indubbio vantaggio in un altro senso, sia in termini strettamente euristici che genericamente storici: il ritratto che emerge da questo studio è quello insomma di un intellettuale stretto tra molteplici minacce e sconfitte (la minaccia nazista e la sconfitta operaia, anche nelle sue rideclinazioni socialdemocratiche, che caratterizzano il paesaggio intellettuale tedesco dopo il 1933), che proprio da queste intende ripartire, per trovare nuove costellazioni di pensiero capaci di schiudere un orizzonte altro, rivoluzionario e redentivo insieme.
In questo senso si potrebbe concludere che in questo libro il punto archimedico tra via politica e via filologica nel riesame delle posizioni benjaminiane è affrontato con decisione, ma solo parzialmente trovato (anche a causa di un uso a volte improprio della terminologia originale tedesca). Nondimeno, il libro è un’ottima introduzione che presenta quasi tutte le tessere al posto giusto, offrendo alla fine un convincente ritratto del “filosofo” Walter Benjamin.