di Alessandro Barile
Sta facendo discutere, quantomeno in Spagna, questa fiction televisiva sui generis, almeno riguardo ai contenuti sociali che veicola. Un prodotto televisivo che difficilmente vedremo mai concepito nel nostro paese, rassicurato dai suoi bravi poliziotti e da affascinanti malavitosi senza scrupoli. Bisogna anche riconoscere che è proprio nei punti alti raggiunti dall’industria dell’intrattenimento di massa che si iscrivono alcuni dei suoi insuperabili limiti tecnici. La casa de papel parla di una rapina alla Fabrica nacional de moneda y timbre, equivalente della nostra Zecca di Stato. Otto rapinatori reclutati dal “Profesor”, mente del piano che coordinerà dall’esterno le evoluzioni dell’attacco. Una rapina pensata e pianificata in ogni suo dettaglio, che si trasforma immediatamente in una partita a scacchi tra rapinatori e polizia. La scientifica e maniacale preparazione del piano procede scompaginata dalle relazioni umane che si instaurano tra i diversi protagonisti: rapinatori e ostaggi, il professore e la negoziatrice Raquel Murillo, polizia e opinione pubblica. Ogni contatto umano esonda dalla logica entro cui il Professore ha costretto l’impresa. E’ il tema ricorrente della fiction: per quanto prevedibili, le relazioni umane tendono a tracimare e sconvolgere ogni evento, nel bene come nel male. Un tema evidentemente abusato, ma che in questo caso trova originale soluzione: le relazioni umane non complicano i piani, a volte li rafforzano inaspettatamente. La falsa (e sfruttatissima) contraddizione tra razionalità e umanità si risolve qui in una sintesi che tiene fede alle premesse narrative.
In questa serie i rapinatori sono i buoni e la polizia il cattivo. Anche questo è un frame inflazionato. Ad essere diverso è il modo di raccontare i rapinatori. Gente d’estrazione proletaria, vittime della società o della guerra, giovani madri dalla vita troppo veloce: si sceglie il crimine per necessità, non per volontà di potenza, e rappresenta una sconfitta, ma anche una forma di resistenza. Dentro tale cornice verranno ricostruite le ragioni “politiche” dell’azione. Per anni la Bce ha saldato i debiti (privati) della banche attraverso l’emissione artificiale di astronomiche quantità di denaro pubblico, denaro che, gonfiando i debiti dei diversi Stati, è stato usato per ridurre le condizioni materiali di vita e lavoro di milioni di europei. Una rapina legalizzata, ma non per questo legittima. Ribaltando il ragionamento, i rapinatori inseguiranno una legittimità sociale che vada al di là di ogni possibile legalità. Perché la stessa dinamica trova risposte opposte dallo Stato? Cosa ne pensa la gente? L’opinione pubblica è il terzo protagonista: i rapinatori si presentano come vendicatori.
I limiti concettuali riguardano lo strumento seriale. La serie dura troppo: quindici puntate (da un’ora) per raccontare cinque giorni di rapina e dentro un unico ambiente, vanno molto al di là del necessario. E’ un limite strutturale della fiction televisiva, quello di dilatare il racconto riempiendolo di accessori inutili ai fini della storia, che potrebbe risolversi in tre o quattro ore e che invece raggiunge le diciassette ore per esclusivi interessi commerciali. Il problema non è la durata in sé, ma l’obbligo di durata, che incide sull’operazione nel suo complesso riducendone la portata realistica. Non è solo questo però il limite intrinseco alla serialità. Un altro caveat necessario è obbligare lo spettatore a continuare a vedere le puntate. Questo il motivo per cui, del tutto artificiosamente, ogni puntata ha uno schema precostituito che prescinde dalla storia: terminare con un colpo di scena. Il problema è che al quindicesimo o ventesimo colpo di scena viene meno ogni credibilità. Ce ne può essere uno, ma quando ogni puntata ne racchiude qualcuno siamo in presenza del videogioco, non della realtà. E questa serie è farcita oltremodo di fantasmagorie contraddittorie. E’ anch’essa una necessità commerciale, che però annulla la libertà d’espressione del regista. Che infatti, come in ogni serie, non c’è. O, per meglio dire, non è rilevante che ci sia. Tutte le serie infatti vedono alternarsi alla regia vari esecutori di scelte narrative prese altrove e per motivi dipendenti dalla commercializzazione seriale. Un fatto questo che limita drasticamente la necessaria autonomia artistica, il precario equilibrio tra ragioni dell’opera d’arte e quelle di chi mette i soldi.
La serie è a dir poco adrenalinica. Gioca sfacciatamente con l’ansia dello spettatore, lo tiene sulle spine dal primo all’ultimo minuto, quasi senza respiro, in un sali e scendi emotivo che sfianca ed esalta al tempo stesso. Una droga che produce assuefazione, ma che nasconde a volte la povertà di riferimenti. Senza tensione non c’è narrazione, trasformando così la tensione non in uno strumento da maneggiare con cautela, ma nel fine stesso dell’operazione. Fuori dalla tensione non c’è la riflessione ma il down, l’hangover post-sbornia da pulsazioni accelerate. Con tutto questo ci si diverte, ma il dubbio è su quanto lascia sedimentato dentro di sé, quale immagine svelata della realtà contribuisce a promuovere.
E allora? Se il riferimento è a qualche Gomorra o Romanzo criminale, siamo qui anni luce avanti, siamo anzi in un altro territorio, quello del riscatto dei proletari che non passa dalla resa allo Stato. Se invece la relazione è col cinema, s’intravedono dei limiti che altrove (pensiamo al Sorrentino di The young pope, ma anche Black Mirror) sono stati messi in discussione, ma che abbisognano, forse, di molto altro tempo per essere scardinati. Se ci accontentiamo dell’intrattenimento, ci si diverte, ci si emoziona, si fa il tifo finalmente per chi se lo merita, e si rimane soddisfatti. Se si vuole utilizzare il racconto cinematografico per capire la realtà, siamo ancora distanti.