di Mauro Baldrati
Quando notai l’annuncio delle nuove regole del Movimento 5 Stelle per l’autocandidatura alle elezioni del 2018 un’idea prese immediatamente forma in me. A quei tempi ritenevo infatti di avere un progetto di riforma strutturale che avrebbe costituito l’unica possibilità di salvezza per il mio paese che sprofondava sempre più nella palude dell’indifferenza, dell’opportunismo e della paura. E quel movimento, pensai, forse era l’unico che avrebbe potuto farla sua. Quanto meno ospitarla. Ebbe successo con una proposta semplice ma chiara, che stimolò quel malcontento popolare che covava sotto una coltre di rabbia fredda, di rassegnazione e di solitudine pubblica. Ebbe cioè il merito di lanciare una campagna contro i privilegi della classe politica, argomento che fu sempre sottovalutato dalle forze di sinistra. Sono ben altri i problemi, sembravano affermare: il liberismo, l’eterna lotta di classe, la distruzione del welfare, la riduzione del lavoro a merce. La proposta del taglio degli stipendi ai parlamentari, l’eliminazione dei vitalizi e del finanziamento pubblico dei partiti era giusta, ma in quel particolare periodo non sarebbe stata che l’eterna contemplazione del dito che indica la luna.
Invece sbagliavano. Una classe politica screditata impediva alla popolazione di sviluppare il concetto di sovranità, che storicamente ci mancava. E il concetto di sovranità/comunità, coi suoi diritti e anche i suoi doveri era, e lo è tutt’ora, indispensabile per l’elaborazione di una procedura rivoluzionaria. Ma il M5S non si era limitato a lanciare proposte verbali in un paese di parolai. No, l’aveva applicata a se stesso. I suoi parlamentari si erano ridotti lo stipendio, e il Movimento aveva rinunciato al finanziamento pubblico. Queste scelte sapevano di onestà, di trasparenza. Sapevano di verità. E gli elettori l’avevano premiato.
Per cui pensai: perché non provare?
La mia idea poteva essere definita una ulteriore elaborazione della proposta iniziale del M5S. Partiva da una riflessione di Antonio Gramsci: una “tesi” (cioè un sistema) sbagliata, liberale e reazionaria non può essere cambiata dall’interno. Va abbattuta e sostituita con una nuova, che non salverà né importerà nulla di quella vecchia. Ora, Gramsci era un rivoluzionario, e forse intendeva distruggere il vecchio sistema liberale come i bolscevichi scatenarono la rivoluzione d’ottobre. Poi i tempi erano cambiati, e anche in quel minaccioso 2018 si doveva parlare di rivoluzione, ma pacifica. Illudersi di riformare il sistema dall’interno avrebbe portato a una sicura sconfitta: ovvero i riformatori sarebbe stati schiacciati, fagocitati da un coordinamento di forze disposte a tutto pur di mantenere i propri privilegi.
Abbatterlo, dunque, e insediarne uno nuovo. Già, ma come?
La proposta era semplice. Approvare una legge costituzionale, quindi non modificabile dall’ultimo arrivato, che stabilisse che nessuno, nel paese, avrebbe potuto guadagnare più del quintuplo dello stipendio di un operaio specializzato. Nessuno, dal Presidente della Fiat al Premier. Questa norma indistruttibile avrebbe provocato una serie di reazioni a catena di enorme portata, perché si basava sull’eliminazione stessa del privilegio. Sarebbero finalmente sparite la corruzione, l’evasione fiscale, il furto legalizzato, lo sfruttamento del lavoro. Non era lo spauracchio comunista dei “poveri e uguali” che da sempre minacciava l’immenso acquitrino dei “moderati”, ma una redistribuzione delle risorse, una nuova etica, una concezione diversa della vita. Basta grande ricchezza. Combattere la povertà non significava elargire elemosine ma eliminare la ricchezza predatrice che prosperava proprio grazie alla nuova povertà.
Ma come proporre una simile idea? Se avessi attivato alcuni dei miei contatti della sinistra probabilmente sarei stato qualificato come un mezzo pazzoide, un illuso. Invece ne parlai col vice capogruppo dei 5S in Consiglio Comunale del Comune di Bologna, dove tra l’altro ero delegato sindacale USB. Una persona degna, che si era schierato al nostro fianco in un duro scontro con l’amministrazione. Si disse totalmente d’accordo con me e mi invitò a candidarmi alle “parlamentarie”, una procedura diretta che sarebbe stata votata on line dagli iscritti al M5S. Però allora le regole erano rigide, bisognava essere già iscritti da tempo. Quindi non ero idoneo. Invece con le nuove norme potevano candidarsi anche i non iscritti, purché si iscrivessero lì per lì all’Associazione del Movimento Cinque Stelle. Dunque, benché il movimento non fosse più lo stesso delle origini, ma stesse assumendo sempre più le sembianze di un partito tradizionale, con tutta l’impalcatura demagogica del caso (un effetto collaterale della scelta di entrare nel sistema per “cambiarlo”?), decisi di procedere. Perché no? Anche Cicerone si autocandidò come console, nel 45 a.C. E’ salutare muoversi, pensavo, agire, sperimentare. E’ ricreativo. E se sbagliamo, ebbene sbagliamo. Ci riprenderemo. Inoltre avrei anche potuto occuparmi di tematiche della disabilità, essendo un appartenente a quella vasta, sfortunata categoria.
L’iscrizione si faceva on line. Pur non essendo un drago con l’informatica iniziai la procedura, che consisteva nell’inserire i propri dati anagrafici, nel prendere visione dello statuto, delle norme di comportamento, del regolamento, tutte cose condivisibili (tra l’altro gli eletti dovevano versare 300 € al mese per il sostentamento delle piattaforme digitali del Movimento). Poi si doveva inserire il numero di cellulare, una mail e una password di accesso. E un codice di verifica che arrivò con un sms, dopo molti tentativi perchè un tasto risultava disattivo. A quel punto dovevo solo inviare una scansione della carta di identità, per la quale avevo già inserito numero e scadenza. Cosa che feci con una foto del cellulare. Subito comparve il messaggio che il sistema aveva ricevuto la scansione e che il mio documento era “in fase di verifica.” Restò tale a tempo indeterminato. I termini per candidarsi erano scaduti mercoledì sera 3 gennaio. Controllai il giorno dopo, poi venerdì 12, giovedì 18, ma il documento era perennemente in fase di verifica. Quindi l’iscrizione era fallita. E con essa l’autocandidatura.
Ricordo di avere pensato: ma queste candidature on line saranno state una cosa seria? Poi i giornali scrissero che il software era andato il tilt, quindi tutto sarebbe stato da ascriversi a un malfunzionamento dovuto a un traffico troppo elevato.
Ero sbalordito. Possibile? Si poteva accettare un simile dato da un movimento che voleva cambiare l’Italia? Che faceva delle candidature un modello di perfetta democrazia? Poteva usare uno strumento inadeguato, tra l’altro con un tempo a disposizione così ridotto per candidarsi (meno di una settimana)? Se ormai era storicamente dimostrato che il medium è il messaggio quale poteva essere il messaggio di quella vicenda?
Purtroppo in quei tempi malvagi nel nostro paese ci voleva tenacia, una fiducia mistica, e la fede; ci voleva un fisico bestiale per riuscire a pensare bene.