di Valerio Evangelisti e Sandro Moiso
Valerio Evangelisti: Io voto (Potere al Popolo)
Forse non sarei nemmeno andato a votare, se non fosse accaduto un fatto che, ai miei occhi, ha del prodigioso. Espulsi dal Teatro Brancaccio, in cui si sarebbe dovuta rifondare per l’ennesima volta la “sinistra” (con i D’Alema, i Bersani, i Civati, gli Speranza, gli Epifani e altri walking dead), i giovani e meno giovani del centro sociale Je so’ pazzo, ex OPG, tra i più attivi sul territorio napoletano, decidono di continuare da soli.
Riescono a riunire ottocento persone di tutte le età, ed è l’inizio di una valanga. Si tengono, in breve tempo, duecento affollatissime assemblee in ogni regione d’Italia, incluse quelle in cui l’antagonismo politico-sociale sembrava spento per sempre. Aderiscono al progetto nomi storici della sinistra “vera” e non liberale, di integrità non discutibile: Heidi Giuliani, madre di un martire divenuto simbolo di lotta, Nicoletta Dosio, l’instancabile ribelle e fuggiasca No Tav, Giorgio Cremaschi, una vita per i metalmeccanici e per il riscatto operaio. E tanti, tanti altri.
Soprattutto, si adunano sotto la nuova sigla – Potere al Popolo! – i frammenti di una classe subalterna modellata, nel presente, dai rantoli di un’economia e di un dominio antiumani, che solo in nuove guerre e oppressioni trovano slancio vitale. Precari, disoccupati, pseudo-apprendisti licenziati e riassunti (se va bene) ogni quattro mesi, gente che sbarca il lunario come può. Moltissimi giovani ma anche molti anziani, dal pensionamento spostato di continuo, quanto basta per sopprimere occasioni di lavoro per chi non le ha.
Sono il frutto di una tragedia sociale. Consumata in nome di cosa? Del liberismo trionfante, del liberalismo (ideologia portata agli estremi da Emma Bonino, da Eugenio Scalfari, da Napolitano: vecchiaie malvissute). E’ agitato, per celare il crimine, il fantasma del debito pubblico, nascondendo la truffa. Da Reagan-Thatcher in avanti si occulta, anche e soprattutto nelle università, che le dottrine dell’economia politica sono molteplici. Per parte di esse il debito è un’astrazione. Visto che tutti gli Stati sono indebitati (specialmente gli Stati Uniti, favoriti dall’emissione della principale moneta di scambio, oggi al tramonto), si fissavano una volta i tempi di restituzione su scale trenta o cinquantennali. A molti paesi africani è stato condonato il servizio sul debito, e talora il debito stesso. L’economia mondiale non ne ha avuto contraccolpi.
Ma l’Unione Europea si affida solo alla teoria economica, mai verificata scientificamente (si fonda su pure statistiche, come rilevò tra gli altri Federico Caffè), di Milton Friedman e seguaci, poi fatta propria da Reagan, Thatcher e sotto-canaglie, fino a scendere al Cazzaro (si scoprirà chi sia dagli articoli di Alessandra Daniele). Soprattutto l’UE ne fa propri i corollari. Per competere su scala globale, il capitalismo deve rendere debole e malleabile la forza-lavoro. Fiaccarne la forza collettiva, disperderne l’unità, distruggerne una soggettività comune pericolosa. La precarietà eterna è l’arma suprema. Guerra di tutti contro tutti, per un posto che assicuri una sopravvivenza da difendere giorno per giorno. Come? Con l’acquiescenza, la docilità, la rinuncia alla ribellione. Il costo del lavoro scenderà ai minimi. I profitti si allargheranno.
Quella del debito (e dell’austerità per ripararlo) è dunque un’ideologia di asservimento, non una scienza obiettiva. Al pari dell’introduzione del fiscal compact nelle Costituzioni, per sfigurarle una volta per tutte. Quando furono varati i trattati istitutivi dell’UE vi fu chi disse, con franchezza, che essi erano un’assicurazione permanente contro ogni rischio di socialismo. L’esito si è visto. Nato sulle ceneri di una guerra, che ha distrutto la ex Jugoslavia, il nuovo ordinamento europeo ha alimentato innumerevoli conflitti, spesso a carattere esplicitamente coloniale. Con la dominanza al suo interno del capitale finanziario, ha spossessato un’intera generazione dei suoi diritti, ha creato disoccupazione e insicurezza, ha spostato reddito verso le classi privilegiate, ha depauperato aree e nazioni, ha rubato democrazia al popolo. Al popolo: visto che al proletariato vanno ormai sommate frazioni di ceto medio spinte sull’orlo della rovina.
Avere qualche deputato in Parlamento cambierebbe le cose? Certamente no, solo un ingenuo potrebbe crederlo. Ma un’azione politica anche modesta, unendosi all’azione di piazza, potrebbe valorizzare quest’ultima, conquistare spazi di visibilità, imporsi a media che grondano infamia e menzogna, spernacchiare il nemico di classe. Andrea Costa, primo parlamentare socialista italiano, e Lenin, primo trionfatore comunista, dicevano, su questo tema, la stessa cosa. Non lasciare la tribuna all’avversario. E se poi il tentativo non riesce, quanto meno ci si sarà provato. Lo stesso sforzo propagandistico pagherà col tempo.
Potere al Popolo! è la prima, vera espressione politica in Italia, spontanea e non ideologica, del nuovo assetto delle classi subalterne, in primo luogo giovanili. Trascurarla sarebbe un delitto. Pagheremmo l’errore per un altro decennio, a essere ottimisti.
Sandro Moiso: Io non voto (per nessuno)
Non sono astensionista per convinzione ideologica e, anche se non ho più votato alle elezioni politiche ed amministrative dopo il 1976, ho continuato ad esercitare i miei diritti come elettore in occasione di svariati referendum. Ivi compreso l’ultimo del 4 dicembre 2016.
Questa volta, comunque e ancora una volta, non andrò a votare. Nessuno dei partiti che si presenteranno, o che si presume lo faranno, mi convince e la mera simpatia individuale ha smesso di essere per me un parametro di giudizio in tali o altre simili occasioni, poiché ritengo più importante l’effettiva empatia tra il progetto politico proposto e i contenuti espressi dalle lotte promosse dal basso.
Viviamo in un’epoca di controrivoluzione, è inutile nasconderlo. Ed è inutile pensare che tale fatto sia soltanto dovuto all’azione ventennale di Berlusconi, della Lega e del centro-destra oppure ai tradimenti o alla tracimazione verso destra del più grande partito ex-stalinista dell’Occidente (con o senza Renzi). Come ho detto in altre occasioni, la classe operaia o quel che ne resta è stata sconfitta dai mutui accesi nei periodi di benessere più che dalla reazione armata dei padroni e delle destre. Ed è stata disarmata da anni di assenza di lotte chiaramente indirizzate al salario, ai tempi di lavoro e al rifiuto dello stesso mentre la crisi ha fatto il resto. Così oggi ciò che rimane, anche qui in Italia, della stessa è costretta a mendicare un’occupazione qualunque essa sia o ad accettare condizioni di lavoro a dir poco vergognose. Basti un esempio per tutti: ieri la classe operaia di Porto Marghera si mobilitava per la chiusura del petrolchimico a causa dei tumori derivati dal Cvm/Pvc, mentre oggi da Taranto a Genova si mobilita in difesa di stabilimenti altrettanto pericolosi per la salute e il territorio. Come Abramo con Isacco è chiamata, ed è disposta, a sacrificare i propri figli in nome del Dio del profitto e del lavoro.
Che speranze dunque per liste di “sinistra” (definizione dalla quale escludo, naturalmente, sia il PD che Liberi e Belli) in un’epoca in cui il fascismo e il populismo si presentano come un’autentica psico-patologia di massa? Paura, insicurezza, concorrenza, depressione, incertezza che si scaricano sugli immigrati e sull’ambiente. In cui una malintesa interpretazione operaistica, in chiave bolscevica, del marxismo spinge molti a negare addirittura la crisi ambientale e a contrapporre, in alcuni casi, la voglia di lavorare della “vera classe operaia”, spesso scambiata per orgoglio di classe, a chi non lavora ufficialmente, a chi è disoccupato e balla pericolosamente in bilico tra attività legali (il lavoro quando c’è) ed illegali, tra proletariato e sottoproletariato. Italiano o straniero che sia.
Senza entrare nel merito delle attuali liste previste (Potere al Popolo ed altre) vorrei sottolineare che nel 1976, a chiusura di una straordinaria stagione di lotte non ancora sconfitte, la lista di estrema sinistra allora presentata alle elezioni, Democrazia Proletaria (comprendente Lotta Continua, PDUP e le altre forze a sinistra del PCI), raccolse all’epoca il favore dell’1,52% degli elettori (per un totale di 557.025 voti e 6 seggi in Parlamento). Fino a quell’anno la partecipazione al voto si aggirava intorno al 92% degli aventi diritto e con il proporzionale anche con una percentuale così bassa era possibile ottenere dei seggi. Dal 1979 iniziò a declinare la partecipazione al voto e con essa anche i già scarsi favori per l’estrema sinistra (in quelle altre elezioni politiche NSU, Nuova Sinistra Unita una sorta di Democrazia Proletaria senza il PDUP che era tornato a presentarsi da solo, raccolse lo 0,8% dei voti e nessun seggio).
Tutto ciò rivela che per l’elettorato, almeno fino al 1976, il riferimento istituzionale doveva essere solido (il PCI aveva nel 1976 quasi il 35% dei voti oltre a quelli che andavano al PSI) per poter garantire, anche se sotto il ricatto delle lotte e con limitazioni rispetto ai “desiderata” di massa, dei sicuri vantaggi economici e sociali. Posso assicurare personalmente che all’epoca molti operai, anche militanti di Lotta Continua, si chiesero perché votare una lista debole e con poche prospettive invece di una, pur sostanzialmente avversa alle lotte spontanee dal basso che avevano guidato quella stagione, in grado di fornire maggiori garanzie di successo immediato. Insomma, una forma di equilibrio”dal basso” che coglieva la differenza tra lotte e rappresentanza istituzionale. Oggi non ci sono più quelle lotte (le assemblee territoriali non sono tali e di solito raccolgono i soliti quattro gatti della deriva politica) e non c’è più, nemmeno lontanamente un riferimento istituzionale forte, a meno che non si parli della Lega di Salvini o dei 5 Stelle. Oggi non c’è nemmeno un sistema proporzionale che garantisca la presenza in parlamento con un certo numero, anche minimo (sopra l’1%), di voti, mentre gli stessi parlamenti “nazionali” contano poco o nulla nelle grandi decisioni di politica economica e sociale. Per questi motivi “contarsi” non servirà a nulla se non a scoraggiare ancora di più i più giovani e i lavoratori precari che non si renderanno conto che in effetti siamo in numero superiore a quello che uscirà dalle urne, anche se a quelle “liste” non possiamo più credere.
Perché anche chi si pensa di “sinistra estrema” finisce coll’accompagnarsi con alcune vecchie cariatidi di partiti usciti dalla Storia già da qualche anno (Rifondazione, Comunisti italiani, etc.), che non attendono altro di poter rivivere come le mummie dei film della Hammer (grazie a un misero ed irraggiungibile seggio frutto del rito parlamentare), oppure col rivalutare termini (popolo) e programmi (uscita dall’euro) che appartengono ad altri (nazionalisti e populisti). Dimenticando che per la classe operaia in lotta e per il proletariato in genere (oggi prevalentemente migrante e/o precario) non ha importanza la nazionalità del padrone contro cui si lotta e nemmeno la moneta con cui si è retribuiti. Questo conta invece per i padroni e l’economia nazionale, a meno che non si voglia riproporre l’ennesimo e farlocco Risorgimento interclassista di stampo togliattiano.
Meglio sarebbe dedicarsi allo sviluppo e alla moltiplicazione delle lotte sui territori, dalla NoTav al No Tap solo per fare due esempi, o contro la precarizzazione del lavoro, in cui ricreare un’autentica unità di classe tra proletari italiani e stranieri, invece di cercare di sfruttarle per i propri fini elettorali, e soltanto da lì ripartire per la ricostruzione dal basso di uno schieramento che travalichi i limiti di un’idea di Partito bolsa, dannosa e superata. Dixi et salvavi animam meam.