di Giacomo Marchetti
Angie Thomas, The Hate U Give. Il coraggio della verità, traduzione di Stefano Bortolussi, Giunti 2017, pp.416, euro 14,00
«Perché ascolti sempre questa musica preistorica?»
Domanda Starr, la protagonista sedicenne a Khalil, mentre la riporta a casa dopo averlo incontrato casualmente ad una festa terminata con una sparatoria tra gang rivali.
La musica preistorica è quella di Tupac Shakur, rapper afro-americano figlio della militante del Partito delle Pantere Nere Afeni Shakur e icona dell’Hip Hop degli anni Novanta.
Il romanzo prende il nome proprio da un acronimo usato dal musicista che acquista nei suoi versi un significato particolare.
Thug Life, traducibile in “vita da teppista” diviene: The Hate U Give Little Infants Fucks Everybody.
E così Khalil spiega l’acronimo: «nel senso che quello che la società ci vomita addosso da piccoli le si rivolta contro quando ci incazziamo».
Tupac, per Khalil, era la verità.
Lo diverrà anche per Starr, cessando di essere solo, musica “dei vecchi tempi”.
Khalil, cresciuto insieme alla protagonista è costretto a farla, la vita da teppista, con una situazione familiare alle spalle piuttosto problematica a causa della madre che non riesce ad uscire dalla tossicodipendenza, ed una nonna anziana e malata.
Starr vive nello stesso quartiere di Khalil, ma studia in una scuola lontano dal suo abitato, in cui è una delle poche teen-ager afro-americane; suo padre, ex membro di una gang – come a sua volta sua padre – è stato in carcere ed ora gestisce un piccolo spaccio alimentare nel quartiere regalato dal vecchio proprietario – unico a dargli un lavoro uscito di prigione – ; la madre lavora come infermiera professionale.
Starr ha un fratello più grande che il padre ha avuto da una relazione extra-coniugale con la “donna” di King, capo-banda della gang di quartiere, i King Lords, a cui il padre era “affiliato”, e un fratellino più piccolo Sekani…
Starr, ha visto uccidere da una “pallottola vagante” la sua migliore amica Natasha alcuni anni prima, senza che fosse fatta luce su quell’omicidio.
Nella finzione letteraria così come nella realtà, le vite degli afro-americani uccisi in conflitti a fuoco non conta, sia che a sparare sia un agente di polizia sia che l’omicidio avvenga in altre circostanze.
Quella notte, Khalil e Starr verranno fermati dalla polizia che ucciderà Khalil durante il fermo nonostante fosse disarmato e non avesse dato adito ad alcun comportamento “sospetto”.
Sarà la presunta aggressività verbale di Khalil e il possesso di una spazzola nella portiera dell’auto, confusa per una pistola, a far premere il grilletto all’agente secondo il suo “alibi”.
Il vero motivo è che Khalil è un giovane afro-americano…
La vita di Starr viene stravolta una seconda volta, e forse l’unica cosa che la salva dall’essere la seconda vittima della violenza poliziesca quella notte – l’autore dell’omicidio non smette di puntarle la pistola addosso anche dopo aver ucciso Khalil – è il preciso decalogo che i suoi genitori le hanno imposto dall’età di dodici anni sul comportamento da tenere in caso di fermo.
Le parole del padre, Starr, le ha stampate in testa, quando sente la sirena e lo specchietto retrovisore dell’auto su cui viaggiano si colorano d’azzurro.
Devi fare tutto quello ti dicono di fare […]Tieni le mani bene in vista. Non fare movimenti bruschi. Parla solo se interpellata.
Le ha insegnato il padre, e così si comporta, “salvandosi”.
Da allora, vive un perenne conflitto interiore, che risolve decidendo di non tacere di fronte alla morte dell’amico, di non rimuoverla per dimenticare in fretta.
Non vuole convivere silenziosamente con i propri rimorsi di coscienza che si alternano agli incubi che popolano le sue notti.
The Hate U Give è “un romanzo di formazione” e il lettore viene proiettato nel mondo di una sedicenne afro-americana nel suo mutevole rapporto con il mondo e con se stessa nella sua vita di tutti i giorni, ma che tiene testa a tutti, genitori compresi.
Ai poliziotti che la interrogano e che le chiedono:
«Puoi dirci cos’è successo la sera dell’incidente?»
Starr risponde a bruciapelo:
«Intende la sera che è stato ucciso».
Una vita quotidiana fatta anche di amore viscerale per le Jordan (i vari tipi di calzature indossati da Air Mike) e per il Basket, i “cibi spazzatura”, l’irrompere improvviso della sessualità, un rapporto organico e strutturante con i social – che divengono strumenti della sua battaglia e non solo semplici passatempi – e personaggi dello spettacolo della cultura mainstream con cui idealmente tal volta si confronta, come Willie il principe di Bel Air della fortunata serie televisiva.
La sua vita si svolge dentro più di un conflitto e “tra conflitti”, basti pensare che suo zio Carlos, il fratello della madre, importante sostituto del padre durante i suoi anni di detenzione, è un poliziotto nato e cresciuto in quartiere ma trasferitosi poi nel sobborgo bianco della scuola che frequenta.
Suo zio, non rinuncia a “proteggere” la nipote anche recidendo quella “solidarietà di corpo” che è il collante della polizia in casi come questi, e prendendosi in carico un altro giovane afro-americano a cui la gang a cui era affiliato vorrebbe “fare la pelle”.
Starr sceglie di contribuire al sabotaggio della macchina del fango montata contro Khalil che viene rappresentato dai media come un criminale tout court, ed indaga direttamente sulla strada intrapresa dal suo coetaneo accusato di essere uno spacciatore appartenente ad una banda, scoprendo i motivi reali della sua scelta “extra-legale”. Decide di diffondere attraverso i social, insieme agli altri, un’ immagine dell’amico più consona alla realtà rispetto a quella stereotipata dei media mainstream, facendo divenire virale la percezione della comunità degli affetti attorno a Khalil.
Una ricerca travagliata, perché la costringe a fare i conti per ciò che provava veramente per Khalil, a far riemergere i ricordi di un passato che aveva dovuto rimuovere a causa della morte di Natasha e del “trio” che formavano insieme a lui: momenti di felicità infantile che fanno l’effetto di un pugno alla bocca dello stomaco a causa della tragica scomparsa degli amici.
Starr fornisce elementi concreti per smontare la tesi che utilizza l’inversione tra vittima e carnefice tesa a deresponsabilizzare l’agente per la morte di Khalil, affinché non si proceda giuridicamente contro di lui.
La protagonista affronta la spensierata crudeltà del pregiudizio razziale che anche una delle sue migliori amiche, Hailey, esercita su di lei, ridefinendo un universo relazionale più maturo e cosciente con un’altra sua amica asiatico-americana.
Ingaggia un confronto serrato con il suo ragazzo Chriss, figlio di una famiglia agiata che vive nel sobborgo bianco della scuola che frequenta.
Ciò che ha vissuto Starr “politicizza” le sue relazioni, in un rapporto dialettico di incontro/scontro fondato su basi nuove. Così, alla fine, Starr è un vettore di crescita di Chriss, che decide di partecipare organicamente alle proteste degli afro-americani – unico bianco in un quartiere nero in rivolta – e in maniera non meno impegnativa sceglie di affrontare il padre e lo zio di Starr che non vedevano di buon occhio il fidanzamento della figlia con un bianco, ma che alla fine si rassegnano all’evidenza che il ragazzo abbia “le palle”.
Chriss, è un “traditore di razza” disposto a mettere in discussione i suoi pregiudizi razziali inconsapevoli, in un percorso che lo porta a annullare anche il suo “machismo”, l’opposto positivo di Hailey e dei suoi tanti coetanei pronti a sfruttare la morte dello “spacciatore” Khalil solo per perdere un giorno di scuola.
Williamson, il nome della scuola che frequenta, e Garden Heitghts, il quartiere-ghetto dove vive, «sono due mondi completamente diversi» che la protagonista aveva precedentemente deciso di tenere separati, ma l’esistenza e le relazioni in questi due “universi paralleli” si intrecceranno dissolvendo le divisioni artificiali e facendo comunicare tra loro i compartimenti stagni dell’esistenza precedente.
Ma se si dissolvono nella scelta di vita di Starr, i muri della segregazione secondo la linea di colore rimangono alti per le due comunità.
Anche il rapporto con il quartiere si modifica nel corso degli eventi, una relazione complessa dove gli elementi di una irrinunciabile familiarità con le relazioni di mutuo appoggio storicamente intessute dai suoi abitanti, si alternano ad uno spazio fisico disseminato da pericoli.
Rischi dovuti allo scontro tra le gang, dove anche andare a fare due tiri in un campo di basket in un parco all’aperto in un territorio conteso può riservare “spiacevoli sorprese”.
Un quartiere dominato da un circolo vizioso che costringe gli ultimi della scala sociale – per poter emergere o più comunemente per sopravvivere – all’affiliazione ad una banda che ha come propria ragione d’esistenza lo spaccio di droga che falcidia le vite delle persone a causa della loro tossicodipendenza, della guerra per lo spaccio e delle massiccia presenza della polizia “giustificata” dalla “guerra alla droga” stessa.
Questa è una dinamica magistralmente inquadrata dalla serie televisiva dell’HBO: The Wire, affresco di una città, “nera” e “povera” come Baltimora, che ritroviamo nel libro della Thomas…
Lo spettro dell’insurrezione urbana, il riot, attraversa tutto il romanzo, e prende concretamente forma in due momenti separati aventi come apice “i disordini” che provoca la decisione della giuria di non incriminare il poliziotto che ha ucciso Khalil, nonostante la coraggiosa testimonianza di Starr di fronte al Gran Giurì e alla sua altrettanto temeraria, e non scevra di conseguenze, scelta precedente di comparire in una seguitissima trasmissione televisiva.
Il quartiere diventa teatro di una violenza contraddittoria che investe obiettivi “legittimi” della rabbia popolare: un’auto della polizia e il negozio dei pegni, come attività commerciali la cui scomparsa desertificherebbe ancora maggiormente il tessuto urbano e la condizione stessa degli “insorti”, aspetti che riecheggiano i temi sviluppati da Spike Lee in “Fai la cosa giusta”.
Riprendiamo le parole di Tupac: quello che la società ci vomita addosso da piccoli le si rivolta contro quando ci incazziamo.
Questa è la cifra del romanzo, se alle nuove generazioni afro-americane viene fatto bere “il latte marcio” del suprematismo bianco nel mix letale di quartieri degradati, violenza poliziesca, “carcerizzazione” e guerra tra bande come orizzonte di vita, il precipitato politico di questo non può che essere la ribellione.
Che sia lo scatto di coscienza di una sedicenne, la solidarietà tra subalterni della stessa comunità o il riot che brucia l’illusione di una società post-razziale in un quartiere dove la polizia si comporta come forza d’occupazione, la matrice resta la stessa.
Tupac è il medium, anche a livello di storia familiare, tra ciò che è stato storicamente il movimento di liberazione degli afro-americani – di cui il romanzo è pieno zeppo di riferimenti grazie alla figura del padre ed è rappresentato all’oggi dalla figura dell’avvocato-attivista che aiuta Starr nella sua battaglia.
Così come le rivolte nei ghetti afro-americani segnarono il passo a fine anni ‘60, decretando la fine dell’illusione integrazionista del movimento per i diritti civili sotto la leadership di Martin Luther King e aprendo la strada ad una “nuova” radicalizzazione degli afro-americani, così le proteste scaturite dall’uccisione di afro-americani da parte della polizia ha fatto maturare una nuova coscienza nera “organizzata” – di cui #BlackLivesMatter è l’esempio maggiormente conosciuto – facendo cambiare pagine alla società colorblindness narrata dall’industria culturale di Obama.
Questo romanzo, da cui è stato tratto un film per la regia di G.Tillman Jr., ne è un esempio potente, incalzante nella scrittura, serrato nei dialoghi, come le rime di un brano hip hop, mondo da cui l’autrice – che vive da sempre a Jackson, nel Mississippi – proviene.