di Gioacchino Toni
il rischio […] è il prezzo che ogni uomo paga ad ogni istante per riscattare la propria libertà […] Cercare di non correre rischi […] sgnifica condannarsi a non cambiare le cose, anche se non sono ideali (David Le Breton)
Uscito in Francia nel 2012, è da poco stato tradotto in italiano il volume Sociologia del rischio (Mimesis, 2017) di David Le Breton, opera in cui il docente di Sociologia e Antropologia presso la Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Strasburgo, oltre ad analizzare le principali tipologie di insicurezza sociale che caratterizzano l’attualità, si sofferma sul ruolo giocato dal rischio e dalla paura nella vita degli individui, soprattutto giovani, nella contemporaneità.
«Il rischio è una rappresentazione sociale, prende dunque forme mutevoli da una società e da un periodo storico all’altro, secondo le categorie sociali, e anche oltre, poiché le apprensioni delle donne differiscono da quelle degli uomini, quelle dei più giovani da quelle degli anziani, ecc.» (p. 37). Nella società contemporanea sembrano convivere una preoccupazione politica di riduzione dei rischi (incidenti, malattie e catastrofi di ogni tipo) e una ricerca individuale di sensazioni forti. Solitamente il rischio è vissuto come una minaccia all’equilibrio, un’alterità che sfugge al controllo ma, a volte, è proprio per infrangere quell’equilibrio percepito come routine, che gli individui si assumono deliberatamente dei rischi al fine di ridefinire l’esistenza.
L’ossessione per la sicurezza che permea la società contemporanea finisce spesso con il soffocare la possibilità per l’individuo di realizzazione e di esplorazione dell’ignoto. «La richiesta di sicurezza si traduce con la volontà di un controllo sempre maggiore delle tecnologie, dell’alimentazione, della salute, dell’ambiente, del trasporto, addirittura della civiltà, ecc. Il rischio ormai non è più una fatalità, ma un fatto di responsabilità e diviene una posta in gioco politica, etica, sociale, oggetto di numerose polemiche intorno alla sua identificazione e quindi ai mezzi per prevenirlo» (p. 16).
Oltre a un uso del rischio come strumento di controllo e di preservazione dell’esistente, nella società contemporanea è individuabile anche una ricerca del rischio da parte di individui che, secondo Le Breton, al contrario, intendono infrangere quello che percepiscono come mortifero stato delle cose. Il sociologo legge nei comportamenti a rischio delle giovani generazioni «un gioco simbolico o reale con la morte, una messa in gioco di se stessi, non per morire, tutt’altro, ma con la possibilità non indifferente di perdere la vita o di conoscere l’alterazione delle capacità simboliche dell’individuo […] Essi sono indice […] di una voglia di vivere insufficiente. Sono un ultimo sussulto per estirparsi da una sofferenza, mettersi al mondo, partorire se stessi nella sofferenza per accedere infine a un significato di sé e riprendere la propria vita in mano» (pp. 17-18).
A partire dalla fine degli anni Settanta si sono diffuse in Occidente pratiche sportive estreme votate a «una ricerca d’intensità d’essere» minacciata da una vita eccessivamente regolata da quel rappel à l’ordre seguito ad un decennio di diffusa pratica del desiderio. «Il gioco simbolico con la morte è quindi piuttosto motivato da un eccesso di integrazione, è una maniera radicale di fuggire la routine». Tanto tra i più giovani, quanto tra coloro che praticano sport estremi, «si tratta d’interrogare simbolicamente la morte per sapere se vivere vale la pena. Lo scontro con il mondo ha lo scopo di costruire del senso per avere finalmente al gusto di vivere o per mantenerlo» (p. 18). Siamo pertanto di fronte, sostiene Le Breton, alla volontà di abbandonare i punti di riferimento abituali per intraprendere un’esperienza sconosciuta rischiosa e, nei casi in cui il rischio venga deliberatamente cercato o accettato, questo si rivela una risorsa identitaria.
«La risposta alla relativa precarietà dell’esistenza consiste proprio in quest’attaccamento a un mondo il cui godimento è limitato. Ha valore solo quello che può andare perduto e la vita non è mai acquisita una volta per tutte come un’entità chiusa e garantita di per sé» (p. 30). Il vero pericolo nella vita, suggerisce lo studioso, deriverebbe piuttosto dal non mettersi in gioco, dall’accettare la routine senza mai tentare d’inventare né nel rapporto col mondo, né nella relazione con gli altri esseri umani. «L’individualismo contemporaneo riflette il fatto che il soggetto si definisce attraverso i propri riferimenti. Questi non è più sorretto da regole collettive esterne ma costretto a trovare in se stesso le risorse di senso per restare attore della propria esistenza […] L’individualizzazione del senso aumenta il margine di manovra dell’individuo all’interno del tessuto sociale, gli lascia la scelta delle proprie decisioni e dei propri valori […] slega in parte l’individuo dalle antiche forme di solidarietà, dai percorsi un tempo ben definiti che rafforzavano le appartenenze di classe, d’età, di genere» (pp. 32-33).
Nei contesti popolari caratterizzati da disoccupazione e precarietà economica, l’esistenza tende a tradursi in un senso di insicurezza che impedisce ai soggetti di proiettarsi positivamente nel futuro. La deregolamentazione dell’attività lavorativa «porta i dipendenti a una relazione individualizzata con il proprio lavoro, a una rivalità tra di loro, a un’incertezza sulla durata del contratto nell’impresa, a una flessibilità difficile da vivere… La scomparsa del lavoro e della società salariale quale centro di gravità dell’esistenza individuale e famigliare spezza ogni legame con uno spazio privilegiato e alimenta l’occupazione precaria. […] Il liberalismo economico frantuma le antiche forme di solidarietà e prevedibilità, instaurando una concorrenza generalizzata, porta a un contesto di divisione sociale, di dispersione del simbolico che tiene raramente in conto l’altro» (pp. 32-34).
Se liberamente scelto, il rischio può anche essere un modo per riprendere il controllo di un’esistenza in balia dell’incertezza o della monotonia; nella condotta rischiosa può essere intensificato o ritrovato il gusto di vivere. Spesso gli studi sulla società del rischio analizzano quest’ultimo solo collegandolo negativamente ai pericoli, come se si trattasse esclusivamente di una minaccia a cui si deve fuggire. Raramente viene preso in considerazione il fatto che il rischio può essere anche «un piacere che si trasforma in modo di vivere» (p. 96). Non a caso Le Breton dedica qualche passaggio al celebre romanzo di James G. Ballard, Crash (1973), tradotto cinematograficamente dall’omonimo film del 1996 di David Cronemberg, ricordando come «l’incidente, che sia spettacolare o diluito nella banalità dei giorni, come la morte sulle strade, [sia] una delle vie maestre dell’immaginario sociale contemporaneo» (p. 52).
Nel corso degli anni Ottanta si diffondono tra i rappresentanti delle classi medie e privilegiate occidentali attività fisiche e sportive votate al rischio; la sicurezza economica di cui dispongono costoro «induce, come contrappeso, alla ricerca di un’intensità dell’essere che manca loro nella vita quotidiana. Sono, inoltre, soprattutto gli uomini che si dedicano a queste pratiche volte a sviluppare la capacità di resistenza, di accettazione del dolore o della ferita, la volontà di essere all’altezza, il gusto del rischio, il controllo della paura, ecc., valori tradizionalmente associati alla “virilità” […] Giocare con il rischio è la strada maestra per rompere le routine e “ritrovare le proprie sensazioni”» (p. 97).
L’avventura rischiosa a cui ci si sottopone, sostiene Le Breton,
è una sospensione radicale dei vincoli dell’identità e delle routine della vita quotidiana e professionale […] dove l’individuo non deve più nulla agli altri nel suo avanzare […] La moltiplicazione delle attività fisiche e sportive ad alto rischio va di pari passo con una società dove, per un numero crescente dei nostri contemporanei, vivere non è più sufficiente. Bisogna provare il fatto di esistere e mettersi alla prova da soli per decidere che valore dare alla propria vita […] La nuova avventura è una forma contemporanea di spettacolo sportivo che valorizza l’individuo in un impegno fisico di lunga durata dove il rischio di morire non è trascurabile, se non addirittura al centro del progetto. Negli anni Ottanta, questa nuova avventura si è imposta come un giacimento fertile e significativo della mitologia occidentale […] Il gioco con il rischio moltiplica le sue sensazioni e il sentimento di scappare dalla sua vecchia condizione, di rimettersi pienamente al mondo. Questo mettersi in pericolo può arrivare fino all’ordalia, alla ricerca di sensazioni forti […] Il dolore che si prova è una sorta di sostegno dell’esistenza, una garanzia per vivere dopo aver sormontato un’avversità creata ex-novo (pp. 98-100).
Ed è proprio nello «scontro fisico col mondo» che l’individuo cercherebbe i propri riferimenti tentando di mantenere il controllo su un’esistenza che sembra altrimenti sfuggirgli. «I limiti prendono allora il posto dei limiti di senso che non riescono più a instaurarsi. Attraverso la frontalità della sua relazione col mondo, l’individuo moderno cerca deliberatamente degli ostacoli; mettendosi alla prova, si dà l’opportunità di trovare i riferimenti di cui ha bisogno per produrre la propria identità personale» (p. 101).
Numerose attività fisiche e sportive delle giovani generazioni sono altrettanti modi di sentirsi vivi attraverso l’impegno fisico, la stanchezza, il dolore, la sensazione del pericolo. La pelle, il sudore, le sensazioni fisiche, il dolore muscolare sono degli agganci al mondo reale che permettono di provare la propria consistenza. Anche se i punti di partenza sono di un altro ordine, le attività fisiche e sportive di certi adolescenti non sono molto distanti dai comportamenti a rischio per il gusto che li caratterizza di andare sempre più lontano, una passione dell’eccesso. Ma esse sono socialmente valorizzate, non soltanto dalle giovani generazioni che vi trovano un terreno di emulazione e di comunicazione, ma anche dall’insieme della società che vi vede un’affermazione ludica della gioventù. I valori come il coraggio, la resistenza, la vitalità, ecc., vengono celebrati e abbondantemente utilizzati nelle campagne pubblicitarie o di marketing. In una società della competizione, della performance, le giovani generazioni sono inclini a dedicarsi con foga alle attività fisiche e sportive dette “ad alto rischio” dove il gioco con il limite è un elemento fondamentale. Queste generazioni vi trovano una forma incontestabile di narcisismo, alimentando la convinzione di essere al di sopra della massa, virtuose, e di far parte degli eletti […] Il rischio è per le giovani generazioni anche una risorsa per costituirsi come soggetti. La negazione della morte, del pericolo, la preoccupazione costante per la sicurezza fanno della messa in pericolo di sé l’ultima possibilità di appropriarsi di una relazione personale con la propria esistenza in un mondo nel quale il giovane non si sente riconosciuto (pp. 101-102).
Insomma, l’espressione “comportamenti a rischio” finisce con il riunire una serie di pratiche che mettono, simbolicamente o realmente, in pericolo la vita e risultano accomunate dall’esposizione deliberata dell’individuo al rischio di procurarsi dolore o morte, al fine di alterare il proprio futuro. «I comportamenti a rischio mettono in pericolo le potenzialità del giovane, minacciano le sue possibilità d’integrazione sociale, e spesso riescono, come nel vagabondaggio, nello “sballo” o nell’adesione a una setta, a spezzare i vincoli dell’identità in una volontà di scomparsa da se stessi […] L’agire è un tentativo psichicamente economico di sfuggire all’impotenza, alla difficoltà di pensarsi, anche se può essere carico di conseguenze» (p. 103).
Mentre nelle ragazze, solitamente, i comportamenti a rischio assumono forme discrete e silenziose (come i disturbi alimentari, le pratiche di autolesionismo e i tentativi di suicidio), nei ragazzi si traducono più facilmente in esposizioni di sé, e a volte di altri, magari sotto lo sguardo dei propri simili, in episodi di violenza, di delinquenza e di abuso di droghe. «I comportamenti a rischio riguardano giovani di tutte le fasce sociali, anche se ogni condizione sociale vi lascia il proprio segno. Un giovane di ceto popolare che non si sente bene con se stesso sarà più incline alla piccola delinquenza o alle dimostrazioni di virilità sulla strada o con le ragazze, mentre un giovane di un ceto più abbiente avrà, per esempio, più facile accesso alle droghe» (p. 104).
Secondo Le Breton è la voglia di vivere a dominare quei comportamenti a rischio giovanili che si manifestano come un’interrogazione dolorosa del senso della vita. «I comportamenti a rischio sono riti intimi di contrabbando che mirano a fabbricare un senso per poter continuare a vivere […] Il sentimento di essere di fronte a un muro invalicabile, un presente che non finisce mai. La sofferenza traduce il sentimento di essere privi di qualunque avvenire, di non poter costruirsi come soggetto. Se non è nutrita di progetti, la temporalità dell’adolescente si schianta contro un presente eterno che rende insuperabile la situazione dolorosa. Si declina giorno per giorno. Non ha la fluidità che permette di passare ad altro» (p. 105). I comportamenti a rischio sarebbero, dunque, una ricerca, per quanto brancolante e dolorosa, di una via di fuga da un mondo ostile su cui non si riesce a intervenire.
Linee di fuga: serie completa