D. Grasso, Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria, Alegre Edizioni, 2017, pp. 347, € 16,00
Scimmiottare un famoso titolo di guerra come “Niente di nuovo sul fronte occidentale” per parlare della guerra rivoluzionaria in Kurdistan non è forse del tutto corretto, perché in quel romanzo lo scopo dichiarato era quello di suscitare l’orrore per la guerra, mentre in questo memoir di Davide Grasso lo scopo è ben diverso: qui si tenta di narrare (ma, come vedremo, questo termine è riduttivo) una guerra indispensabile, di documentare ciò che si è scelto sulla propria pelle, cioè la rivoluzione. Che, partita come lotta di liberazione di un popolo, si è trasformata nella lotta di pochi per tutti, nel simbolo della liberazione da tutti gli oppressori, ovunque e comunque, come promuove ogni liberazione di popolo aliena da interessi di Stato.
Davide Grasso un giorno, in una pausa delle attività tra i centri sociali, le attività No Tav e gli aperitivi musicali con gli amici, scopre su di sé il dolore profondo che le varie azioni dei nazisti dell’Isis inducono, il Bataclan su tutte, e decide, anzi viene deciso da una motivazione superiore alla personalità, che deve andare là dove i delinquenti assassini di Daesh nascono, per combatterli. Per ucciderli. È inutile cincischiare, è inutile fare i rivoluzionari da salotto: bisogna andare. E va.
Già il viaggio per la Siria è lungo e pieno di imprevisti, e incerto, e dall’esito per nulla scontato. L’infinito avvicinamento ricorda la lunga, tragica attesa, nutrita di speranze minuscole ed enormi fatiche, de “La tregua” di Primo Levi. Israele, poi la Palestina, poi i primi confini attraversati abusivamente… Tutto sembrerebbe urlare un ‘ma chi te lo fa fare, ma torna a casa’, la logica più ovvia di un percorso così accidentato. Ma Grasso conosce più che bene le sue motivazioni e se i dubbi sono sempre presenti, essendo umano, l’obiettivo è altrettanto solido e chiaro: «Sapevo che ero entrato nelle Ypg perché non avrei potuto vivere oltre, divorato dal crollo della mia autostima se avessi usato tutta la vita parole senza conseguenze». Parole senza conseguenze, che dichiarazione.
«Avevo messo in conto di morire»: quanti, senza essere Che Guevara, sarebbero disposti a sottoscrivere scelte estreme con questa lucidità? Quindi, il lungo viaggio, del quale Grasso non nasconde neppure le insofferenze e i compromessi, come il dover fare un tratto assieme alla croata Natascia, una squilibrata in cerca solo di forti emozioni non di rivoluzione, o il doversi fingere solidali con un paio di odiati Peshmerga pur di ottenere un visto di passaggio.
Nel lungo addio all’occidente Grasso non esita a riflettere sulle sue proprie contraddizioni. Ad esempio l’amore per gli USA di Animal House o di Sunset Boulevard, quando sai che appena arrivato al tuo destino ti trasformerai immediatamente in un nemico dichiarato degli “ameriki”. Oppure allo struggimento per la propria famiglia, che ogni rivoluzionario dovrebbe superare…
Ma infine, dopo mille peripezie, si arriva. Però sei un internazionale, quindi non vali un cazzo, sei un debole, non sai niente, sei molle, sei europeo! Entri così all’Accademia, il luogo dove devi, assolutamente devi, diventare un rivoluzionario, altrimenti di andare a combattere non se ne parla. Anche qui l’attesa è lunga ed estenuante. Preparazione fisica durissima, studio approfondito delle armi – del kalashnikov soprattutto, l’arma che esprime la logica del socialismo – ma principalmente indottrinamento ideologico. E devi, assolutamente devi, imparare il curdo.
Ciò che Grasso capisce e condivide, quel che per un europeo è retorica (“In Kurdistan combattiamo per tutti, per la rivoluzione mondiale”) lì è morale applicata; la pietà è un lusso e ti blocca, la rivoluzione deve andare avanti; non bisogna avere amici personali con legami troppo forti, l’amicizia (hevalen) è con tutti i rivoluzionari, indistintamente; una volta battuti il califfo, la Turchia e il regime siriano, l’odio reciproco tra etnie o religioni o altro si potrà battere solo con l’astensione dall’aggressione militare e dal furto.
È a questo punto che Grasso comincia a ravvisare le affinità tra la resistenza partigiana in Italia e la resistenza curda in Iraq e Siria: ricordando anche come i cosiddetti intellettuali inorridiscano a questi paragoni. Ciò che invece Grasso fatica a capire e non sempre condivide: cerca di far comprendere agli heval che esistono sfumature. Per esempio discute con un compagno il fatto che lui, in Italia, ha manifestato in favore del Rojava… e il compagno inorridisce, nauseato: la rivoluzione si difende con le armi, non con le manifestazioni e tanto meno con le chiacchiere.
Grasso al contrario inorridisce di fronte alla passione per la morte di tutti quei combattenti, che quando sono stanchi e stremati non fanno altro che desiderare il martirio, perché la cosa più importante è avere l’onore di chi rimane… Grasso mantiene dal primo istante all’ultimo della sua esperienza una lucidità estrema, per esempio ammettendo, contro ogni apologia acritica della rivoluzione, che tanti combattenti non sono altro che mitomani o pazzi, ben lontani dall’ideologia, verità che osserva soprattutto negli internazionali. Gustoso e tragico il racconto dell’incontro con un paio di combattenti anarchici e hippies del nord Europa, stanchi di aspettare il loro turno, che protestano in questi, agghiaccianti, termini: «Ma sono tutti diciottenni, perché loro non devono sopravvivere e noi sì?».
Poi viene finalmente accettato dai suoi compagni, indossa la divisa del Ypg e parte per combattere. E qui la narrazione, che è già un vissuto intensissimo, se possibile decolla ancora di più: sparare, lanciare bombe per uccidere, vedere i propri compagni morire di fianco a te. E la paura. E il dubbio. L’insicurezza del proprio corpo, e la malattia. Le persone che si ammirano, le persone che si detestano. E una compagna imbattibile: la paura. E la coscienza, fortissima, che a differenza di loro tu non vuoi morire, non vuoi morire, non vuoi morire!
L’intensità del racconto, in questo settore del libro, è spasmodica. L’ovvia trascrizione delle storie in prima persona, trattandosi di memoir, rende tutto così vero, così vivo, così doloroso, che l’indifferenza o la stanchezza, i due principali rischi del leggere, sono ben lontani. Anzi, in questo racconto assoluto ci sono talmente tante immagini indimenticabili e una trazione e una forza colossale per sopravvivere, e per non abbandonarsi mai alla visione negativa, così antirivoluzionaria, che indimenticabile diventa tutto il libro.
Poi, dopo avere resistito al cupio dissolvi dei giovani guerriglieri, alle bombe e alle mitraglie dell’Isis, alla diarrea, alla diffidenza degli autoctoni, dopo un anno di vita combattente, si torna a casa. Quasi con pudore. Si torna a casa facendo un lungo giro, interminabile, per tutta l’Europa, come se la paura di staccarsi da quello che hai vissuto a favore di un comodo occidente possa rivelarsi una colpa.
Qui il racconto si fa più disteso, e alcuni avvenimenti assurgono al valore di vera gag (combattendo, in mezzo al deserto, in costante pericolo di morte violenta, lontano da tutto e da tutti, immerso nella vera solitudine malinconica del soldato, a un certo punto da una radio parte una canzone di Albano e Romina, e tu piangi, vorresti piangere, ma non puoi, non puoi dimostrare debolezza con gli altri heval…).
E infine, il dubbio della comunicazione: come farò a raccontare tutto questo? Cosa dovrò enfatizzare e cosa tralasciare? Come non sentirsi inutile, in Europa? «Chi avrebbe compreso? Chi avrebbe davvero voluto ascoltare?…la selezione e la distanza della scrittura, della parola, avrebbero creato uno scarto che non avrebbe potuto restituire la presenza di quella guerra. Tacere? No. Sarebbe stato un crimine».
Per fortuna Grasso non ha fatto la scelta di tacere, e ha confezionato uno dei libri più intensi, dolorosi e preziosi di questo periodo. Concludo di nuovo con le sue stesse parole, la maniera migliore per comprendere a chi/cosa ci affidiamo, quando prendiamo in mano questo libro fenomenale e fondamentale: «Era bella, la rivoluzione? Desiderabile? Il Medio Oriente mi faceva paura. Il ricordo dell’indecente romanticismo dei radicali europei mi faceva vomitare. La rivoluzione non era bella. Non avevo visto nulla di meno bello nella mia vita. La rivoluzione era necessaria. Questo continuavo a credere, con tutto me stesso».