di Sandro Moiso

Bob Dylan, The Nobel Lecture, Feltrinelli 2017, pp.45, € 6,00

La lettura registrata da Bob Dylan nel giugno di quest’anno e inviata all’Accademia di Svezia, pochi giorni prima dello scadere del termine ultimo dei sei mesi che possono intercorrere tra la cerimonia ufficiale di assegnazione del Premio Nobel e la lecture che il premiato deve tenere per poter ricevere il premio in denaro, occupa soltanto venti pagine di testo, ma sono pagine densissime e utilissime per comprendere non soltanto l’itinerario di uno degli artisti più significativi degli ultimi sessanta anni ma anche il processo creativo insito nella letteratura, i grandi miti che la sottendono e la sfuggevolezza di ciò che ci permette di contraddistinguere immediatamente un capolavoro da tutte quelle opere, apparentemente simili, che al suo confronto risultano essere da subito inferiori o insignificanti.

Il mito sembra costituire il centro dell’attenzione dell’ormai settantaseienne menestrello di Duluth e di tutto il suo processo di rielaborazione poetica e musicale non solo del patrimonio folklorico nordamericano, ma anche di quello letterario occidentale.
Sia che tratti inizialmente dello sguardo lanciato da Buddy Holly dal palco di Duluth ad un non ancora diciottenne Dylan il 31 gennaio 1959 oppure della scoperta, avvenuta pochi giorni dopo la morte del rocker texano nel febbraio dello stesso anno, della tradizione della musica nera americana attraverso un disco di Leadbelly, Dylan proietta immediatamente gli ascoltatori/lettori in una dimensione mitica.

Buddy scriveva canzoni che avevano belle melodie e versi pieni di immaginazione. E cantava in modo grandioso, cantava con più di una voce. Era l’archetipo, era tutto quello che io non ero e volevo essere […] Era potente, elettrizzante, e aveva una presenza che incuteva rispetto. Io ero a soli due metri da lui. C’era da restare ipnotizzati. Guardavo la sua faccia, le sue mani, il modo in cui batteva il ritmo con il piede, i suoi grossi occhiali dalla montatura nera, gli occhi dietro gli occhiali, il modo in cui teneva la chitarra, il modo in cui stava sul palco, il vestito curato. Sembrava avere più di ventidue anni. C’era qualcosa in lui che pareva eterno e mi riempiva di sicurezza.1

Il viaggio musicale e poetico di Dylan inizia con l’incontro con una sorta di semidio, destinato a morire ancora giovanissimo di lì a pochi giorni. Incontro che riproduce però anche l’eterno tema dell’incontro rivelatore con un giovane eroe apparentemente destinato a salvare e redimere il genere umano, da Gilgamesh a Gesù Cristo. L’eternità sembra accompagnarli illusoriamente mentre la morte e già in agguato, in attesa di donar loro l’ultimo e fatale abbraccio.

Subito dopo il giovane Dylan, attraverso la canzone Cotton Fields, incontra un’altra fonte della sua ispirazione artistica: il folk e le radici afro-americane della musica popolare statunitense.

Quel disco, in quel preciso momento, cambiò la mia vita. Mi trasportò in un mondo che non avevo mai conosciuto, fu come un’esplosione. Avevo camminato nell’oscurità e tutto a un tratto l’oscurità si era riempita di luce. Fu come se qualcuno avesse imposto le mani su di me.[…] Ero ancora legato alla musica con la quale ero cresciuto, ma in quel momento me ne dimenticai, non ci pensai più.2

In questo caso il tono diventa biblico, richiamando quella immensa tradizione religiosa compresa non soltanto in tanti spiritual e gospel della musica afro-americana, ma anche nella tradizione degli incendiari discorsi del populismo americano dall’Ottocento fino ad oggi. Un richiamo obbligato in ogni passaggio dell’autentico messianesimo dylaniano. Presente come annuncio e rivelazione fin dagli inizi della sua carriera, da Blowin’ in the Wind a Masters of War. Un territorio ancora raramente esplorato, motivo per cui gran parte della critica e del pubblico si scandalizzò, in realtà immotivatamente, all’epoca della presunta conversione religiosa di Dylan durante il periodo “gospel” tra il 1979-1981.3

Bob Dylan nel procedere della lettura ci trasmette consapevolmente e cripticamente, come sempre da Tarantula in avanti,4 il filo rosso per comprendere l’immenso pastiche che compone la sua intera opera, attraverso la rielaborazione costante dei miti letterari e popolari della cultura dell’estremo occidente.
In effetti le tre opere letterarie che il premio Nobel per la letteratura cita nella sua lezione sono Moby Dick di Herman Melville, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Enrico Maria Remarque e, infine, l’alba del mito letterario dell’Occidente: l’Odissea di Omero.

Nel richiamare queste tre opere Bob Dylan disvela come tutta la grande letteratura si basi su una rielaborazione costante di atti, simboli, figure e situazioni che si ripetono all’infinito, ma sempre in maniera differente, all’interno della narrazione, sia essa colta o popolare, religiosa o laica.
Motivo per cui morte, amore, guerra, dolore, astuzia, malvagità, coraggio, ostinazione, riso, illusione, natura, avventura, sangue, amicizia, ribellione e viaggi diventano elementi mitopoietici fondamentali, destinati a loro volta a dar vita, attraverso la rielaborazione del poeta scrittore e aedo, ad altri archetipi emblematici della cultura occidentale quali Ulisse, Achab o Stagger Lee.

Un lavoro di continua rielaborazione testuale che richiama il metodo di lavoro dell’attore su se stesso proposto da Stanislavskij che affermava che il numero delle trame possibili è assolutamente limitato e che ciò che cambia è soltanto il modo di narrarle o interpretarle.
Un lavoro in cui lo stile espressivo diventa importante quanto, e forse più, del contenuto stesso poiché costituisce il primo fattore destinato a rendere ogni volta nuova e interessante la narrazione e la sua rappresentazione.

Il paragone qui appena fatto non è assolutamente casuale poiché nella forma canzone e nella poesia, che ne costituisce uno degli aspetti, lo stile è determinante affinché un’opera “d’arte” sia tale, mentre le fonti di ispirazione per l’autore possono essere infinite così come le loro differenti reinterpretazioni.
Ecco allora che lo sguardo ipnotico di Buddy Holly si fonde con la memoria collettiva contenuta nella musica blues e gospel e, allo stesso tempo, l’inferno del fronte narrato da Remarque si confonde con i versi danteschi in cui calabroni e vermi tormentano coloro che sono destinati a non lasciare alcuna memoria di sé, suggendone il sangue mescolato al fango.

Così come in Moby Dick:

Tutto si mescola. Tutti i miti; la Bibbia giudeo-cristiana, miti indù, leggende britanniche, San Giorgio, Perseo, Ercole – sono tutti balenieri. La mitologia greca e il mestiere sanguinoso di fare a pezzi una balena. Ci sono molti fatti in questo libro, informazioni geografiche, olio di balena – buono per l’incoronazione di altezze reali -, famiglie nobili nell’industria baleniera. Con l’olio di balena si ungono ire. Storia della balena, frenologia, filosofia classica, teorie pseudoscientifiche, giustificazioni della discriminazione – tutto gettato alla rinfusa e nulla di davvero razionale. Stile alto, stile basso, a caccia di illusioni, a caccia di morte, la grande balena bianca, bianca come un orso polare, bianca come l’uomo bianco, l’imperatrice, la nemesi, l’incarnazione del male.5

Basta questo esempio per comprendere che la lecture di Dylan riproduce i temi, i tempi e i modi dei suoi talking blues. Non a caso nella registrazione si è fatto accompagnare al pianoforte da uno dei musicisti che lo accompagnavano già nel 1978: Alan Pasqua. Richiamando in questo modo le letture poetiche di Jack Kerouac che in Poetry for the Beat Generation (1959)6 si era fatto accompagnare al piano da Steve Allen.

Nelle preziose Note ai testi, curate da Alessandro Carrera (Che è anche il traduttore della Lecture oltre che dei tre volumi delle complete Lyrics dylaniane editi sempre da Feltrinelli tra il 2016 e il 2017) che chiudono il volumetto, si ricorda un episodio in cui alla domanda di John Lennon se potesse e volesse davvero usare tutto ciò che gli passava per la mente, Dylan avrebbe risposto affermando: “Posso usare qualunque cosa, John. Non ha importanza”.

L’Odissea è un libro straordinario e i suoi temi sono presenti nelle ballate di molti autori: Homeward Bound, Green Green Grass of Home, Home on the Range e anche nelle mie canzoni.7

L’affermazione è secca, il richiamo esplicito così come, ancora parlando del romanzo di Remarque, Dylan nel suo stile ellittico afferma, a proposito delle sofferenze dei soldati:

Sei davvero su una croce di ferro e un soldato romano ti avvicina alle labbra una spugna imbevuta di aceto.8

Non a caso la chiusura richiama ancora una volta Omero quando il poeta cieco recita: Canta in me, o Musa, e dalla mia bocca narra la storia.

Cosa significa tutto questo? Io e molti altri autori di canzoni siamo stati influenzati dagli stessi temi che possono voler dire molte cose diverse. Se una canzone ti commuove, questo è tutto ciò che importa. Io non so qual’è il significato di una canzone, ho scritto qualunque cosa nelle mie canzoni e di sicuro non mi preoccupo di quale sia il loro significato. Quando Melville ha fuso il Vecchio Testamento, riferimenti biblici, teorie scientifiche, dottrine protestanti e tutta la conoscenza del mare, delle navi a vela e delle balene in una storia credo che nemmeno lui si sia preoccupato di sapere che cosa volesse dire.9

L’arte per Dylan, ed è l’autore stesso a suggerircelo, si manifesta attraverso le pieghe dello stile e non vi può essere novità se non nella costante reinvenzione e rielaborazione di un motivo, di una trama o di un mito. Tanto in ambito colto quanto in quello popolare, sia nelle culture scritte che in quelle orali.
L’originalità assoluta non esiste e i grandi artisti lo riconoscono e amano rinnovare e rielaborare miti e opere del passato, come volle riaffermare significativamente Pablo Picasso, nel 1957 quando era anche lui ultrasettantenne, rielaborando e dipingendo per ben 58 volte il quadro di Velàzquez Las Meninas. Lasciando agli absolute beginners l’illusione di essere nuovi, autentici e genuini.

Con buona pace di coloro che non capirono nel 1966 la svolta elettrica e di chi oggi condanna nello stesso modo il fatto che Dylan abbia dedicato gli ultimi tre dischi alla riproposizione del grande songbook americano da Stormy Weather a Come Rain or Come Shine.


  1. Bob Dylan, The Nobel Lecture, pag. 16  

  2. op. cit. pag. 17  

  3. Oggi ben documentato dal film Trouble No More e dal cofanetto di 8 cd dallo stesso titolo edito dalla Columbia/Legacy nell’autunno di quest’anno. Si confronti anche La bibbia di Bob Dylan di Roberto Giovannoli, Áncora edizioni 2017, di prossima recensione su Carmillaonline.  

  4. Bob Dylan, Tarantula, Feltrinelli 2007 (prima edizione americana 1966)  

  5. Dylan, cit. pag.23  

  6. Oggi riascoltabile in uno dei tre cd contenuti nel cofanetto The Jack Kerouac Collection, edito dalla Rhino Records nel 1990  

  7. op. cit. pag.31  

  8. pag. 29  

  9. pag. 34