di Mauro Baldrati
BLADE RUNNER 2049, di Denis Villeneuve. Per vedere BR2049 bisogna lavorare. E’ un impegno che lo spettatore deve prendere sul serio, con costanza e concentrazione. In primo luogo per la durata. Quasi tre ore è un tempo riservato ai classici, Il Gattopardo, La caduta degli dei, Via col vento, La dolce vita. Tre ore significa anche tenuta mentale, soglia dell’attenzione alta, e con gli attuali ritmi frastagliati da cellulari, social, sms, necessitano di impegno e allenamento. Dunque BR2049 è un classico? Ovvero un’opera epica? Su questo terreno accidentato preferiamo non avventurarci. Non sappiamo se sia ancora possibile l’opera classica. Non sappiamo se un nuovo Mozart oggi avrebbe un tempo e uno spazio. Non sappiamo quanto la predazione del mercato abbia desertificato il territorio, se ancora possano esistere pascoli vergini.
Poi la lentezza. E’ estrema, persino violenta. Ovviamente l’aggettivo “lento” non caratterizza un film, come alcuni sostengono: “Com’è questo film?” “Mah, è lento.” Ma che c’entra? In alcuni punti La caduta degli dei è lento, e così la Recherche, e anche Guerra e Pace, ma la lentezza non rappresenta né una qualità né un difetto. E’ uno stile, se usata con criterio. Ma la lentezza di BR2049 non è solo ritmo dilatato. Va oltre. Oltre l’oltre. Non ha limite. E’ totalitaria. Per dire, un personaggio rivolge una domanda al protagonista, l’Ufficiale K; questi rimane in silenzio per diversi minuti, mentre la macchina da presa indugia sul suo primissimo piano, come in cerca di espressioni, di conferme; pare una dilatazione della scena della mosca di C’era una volta il west (un altro classico da tre ore); ma lui non risponde, se ne va e ci lascia con un palmo di naso. Oppure il gesto di prendere un oggetto: impresa molto complessa. La mano dell’attore si muove una tale lentezza da sembrare immobile: è la conferma del paradosso di Achille e la tartaruga: il movimento non esiste. E’ pura illusione.
Infine la trama. E’ consigliabile leggerla prima, compreso lo spoiler, perché accanto alla staticità che ci schiaccia sulla sedia ci sono dei passaggi che sfuggono, perché appena accennati o troppo contorti. Inoltre ci sono un sacco di variabili, i Nexus ribelli ricercati da tutti, chi vuole ucciderli e chi usarli; chi è o è stato un Nexus e chi no; la vera identità di Ufficiale K, e molto, troppo altro.
Per cui, dopo questo superlavoro, lo spettatore si sente esaurito, e si chiede se non avrebbe fatto meglio a raccogliere le castagne in collina. Almeno avrebbe portato a casa un prodotto. Invece con BR2049 cosa ha portato a casa?
UNA QUESTIONE PRIVATA, dei fratelli Taviani. Il racconto omonimo, dal quale è stato tratto il film, è uno dei più belli di Beppe Fenoglio. E’ perfetto: col suo stile semplice e preciso Fenoglio costruisce una storia d’amore tormentato e generoso, una gelosia che sembra scaricarsi sull’ossessione di salvare la vita all’amico rivale. Il tutto non solo ambientato, ma come parte organica della Resistenza, della fuga, della morte, del coraggio. La definizione di Italo Calvino centra in pieno il cuore dell’opera: “La geometrica tensione di un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era di dentro e di fuori, vera come era stata scritta, serbata per tanti anni nella memoria fedele, e con tutti valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione e la furia.”
I fratelli Taviani si sono impegnati per tentare di restituire almeno le qualità centrali del testo – impresa certamente difficile, considerando che uno stile di scrittura, che veicola i contenuti, non è trasferibile in immagini; e così le sottili, taglienti sfumature di un amore privato ma anche collettivo, dove le contraddizioni dell’animo sembrano fondersi nell’atto di combattere l’invasore; e la volontà di possesso dell’amata non fa arretrare Milton di un millimetro nel desiderio di salvezza dell’amata e dell’amico, che forse l’ha posseduta.
Forse. Milton, lo immagina, lo teme. Per cui quando si diffonde la notizia che l’amico Giorgio è stato catturato dai fascisti, che lo fucileranno, inizia la sua corsa furiosa per catturare un fascista da scambiare con l’amico. Ma i registi tagliano con l’accetta, forse nel tentativo di semplificare la vicenda, di renderla regolare, comprensibile. Isolano il sentimento della gelosia di Milton, la forza motrice della sua battaglia personale, che costituisce il nucleo del racconto. Ma la semplificazione finisce per essere banalizzazione, anche se spinta da buone intenzioni. Il risultato è un film onesto ma debole, con una ambiguità, che se nel racconto è sviluppata a fondo, riempiendo quegli spazi vuoti invisibili che solo la letteratura sa individuare, qui un po’ disorienta: ma insomma, ci chiediamo, possibile che Milton, che abbiamo seguito nella sua dolorosa scoperta del rapporto tra Fulvia e Giorgio, rischi la vita, anzi, sia disposto a morire proprio per liberarlo? L’ambiguità di un amore spinto dalla gelosia ma al contempo generoso (un po’ alla Cyrano), nel film resta irrisolta.
DETROIT, di Kathryn Bigelow. Sono rimasti pochi i registi sopravvissuti a quell’enunciato di Robert Altman che riassume alla perfezione la mutazione del cinema americano: “Hollywood non vede l’ora di togliersi i registi dai piedi.” Basta complicazioni, i registi devono adeguarsi alla produzione, devono smetterla di discutere. Che facciano il loro lavoro! Il risultato è davanti a tutti: un’invasione di baracconi zeppi di effetti speciali a scadenza ravvicinata, da buttare subito dopo l’incasso.
La Bighelow, 66 anni, ex moglie (e quindi allieva?) di un maestro di un certo stile avventuroso, d’azione, come James Cameron, è una di loro. Una delle ultime. Ha già diretto almeno due cult: Il buio si avvicina (1987), Point Break (1991), e anche il magnifico Zero Dark Thirty (2012), benché una certa critica contestualizzazionemente ossessiva potrebbe imputarle, per questo film, un occhio di riguardo verso la CIA e i Seal, le forze speciali che hanno ucciso – dicono – Bin Laden.
Detroit è una di queste opere, realizzata col completo controllo della regista. Teso, avvincente, violento, ricostruisce una storia vera, una storia di morte e di razzismo che riesce a fondersi con un movimento di protesta e di ribellione che mise a ferro e fuoco la città. Nel 1967, in piena battaglia per i diritti civili, una retata della polizia in un locale all black senza licenza per gli alcolici fu la goccia che fece traboccare il vaso. Scoppiò una rivolta che durò quattro giorni, con scontri violentissimi, incendi e devastazioni, che causò più di 40 morti e centinaia di feriti.
Il film parte con modalità di documentario, con immagini e filmati d’epoca e una ricostruzione accurata del tempo e degli ambienti. Ma a un certo punto la visione oggettiva passa, con scioltezza, nell’evento particolare. Un gruppo di ragazzi “normali”, non particolarmente politicizzati, soprattutto interessati alla musica (hanno fondato un gruppo R & B, i Dramatic), è in cerca di un produttore che li faccia incidere (erano gli anni di esordio della Motown, alcune scene sono esaltanti). Si trovano nel pieno degli scontri, fuggono e si riparano in un albergo. Qui fanno la conoscenza con due ragazze e altri ragazzi come loro, giocano, scherzano. Ma a un certo punto uno dei nuovi amici con una pistola giocattolo finge di sparare sui poliziotti in strada, i quali lo scambiano per un cecchino. Polizia e Guardia nazionale fanno irruzione, sequestrano i ragazzi e qui inizia una vicenda di violenza bruta, razzismo assassino da parte di due poliziotti “marci” (in realtà in linea con certe tendenze dominanti della polizia) che procede in un crescendo verticale di follia e di sopraffazione.
La regista non rinuncia al suo coraggio narrativo, e anche se non riserva molto spazio ai retroscena polici-sociali dell’insurrezione (non è JFK), non si impone nessuna autocensura, nessun provincialismo, nessun “riguardo” verso alcuni personaggi reali che gestirono la vicenda, compreso il “giudice” che presiedeva il tribunale. E qui viene spontaneo il confronto con un prodotto nostrano, Diaz, il cui limite è superato dalla Bighelow. Diaz si concentra quasi unicamente sull’aspetto violenza pura, mentre i dirigenti di allora, il capo della polizia, il ministro Fini, sono fuori, come se non avessero avuto alcun ruolo.
Dunque è importante, per la nostra salute di cinefili, che Kathryn Bighelow stia salda e continui la sua opera di resistenza hollywoodiana.
A una condizione, ovviamente: che i suoi film incassino i milioni di dollari stabiliti.