di Giacomo Marchetti
Colson Whitehead, La ferrovia sotterranea, Big Sur, settembre 2017, pp.380, € 20,00
«Da vecchia avrebbe letto della Grande Guerra in Europa […] Il conflitto europeo era senz’altro terribile e violento, disse al suo marinaio, ma lei aveva da ridire sul nome. La Grande Guerra era sempre stata quella tra i bianchi e i neri. E sempre lo sarebbe stata»
La “Ferrovia Sotterranea” è il racconto di una fuga, dove non si può essere al riparo in alcun luogo.
Un percorso in cui i vari approdi raggiunti non sono che tappe transitorie per un viaggio successivo.
Non si scappa da un luogo preciso, ma da una condizione, quella schiavile.
Non si tratta di sfuggire dalla schiavitù, ma di combatterla anche “armi alla mano”.
La cattura comporterebbe la morte dopo atroci sofferenze, mentre l’esito positivo della fuga rende praticabile tale orizzonte agli occhi degli altri schiavi.
Senza questa rivolta non c’è un “noi”.
Quando il sangue dei neri era denaro, il bravo uomo di affari “sapeva aprire la vena” chiosa l’io narrante all’inizio del romanzo, descrivendo come il “mercato degli schiavi” fosse propedeutico all’accumulazione primitiva nel Nord-America.
Spoliazione dei Nativi, sfruttamento della schiavitù e integrazione a tappe successive delle varie ondate migratorie che giungono dal Vecchio Continente – per fare sì che i negri bianchi diventino attori coscienti del Destino Manifesto – sono le basi del nascente astro americano.
Una netta ed inconciliabile contrapposizione caratterizza i punti di vista di chi può prosperare essendone l’artefice e di chi può sopravvivere solo minando le basi di questo edificio politico-sociale.
Questi punti di vista antitetici sono esposti mirabilmente nel romanzo dal cacciatore di schiavi Ridgeway e dall’ex schiavo Lander, l’uno sintetizza il suo credo alla protagonista dopo averla catturata, l’altro infiamma l’assemblea in una tenuta pionieristica nell’Indiana, rifugio per schiavi fuggiaschi e per coloro che si erano “comprati” la propria libertà e quella dei propri cari.
A mio padre piaceva fare i suoi discorsi da indiano sul Grande Spirito – proseguì Ridgeway – ma dopo tutti questi anni, io preferisco lo spirito americano, quello che ci ha fatto venire dal Vecchio Mondo al Nuovo, a conquistare, costruire e civilizzare. E distruggere ciò che va distrutto. A elevare le razze inferiori. Se non a elevarle, a sottometterle. Se non a sottometterle, a sterminarle. Il nostro destino prescritto da Dio: l’imperativo americano.
Cui replica “idealmente” l’ex schiavo Lander:
E anche l’America è un’illusione, la più grande di tutte. La razza bianca crede – ci crede con tutto il cuore – che sia suo diritto impadronirsi della terra. Uccidere gli indiani. Fare la guerra. Mettere in catene i propri fratelli. Questa nazione non dovrebbe esistere, se ci fosse giustizia a questo mondo, perché le sue fondamenta sono l’omicidio, il furto e la brutalità. Eppure siamo qui.
Questa lotta “mortale” tra servo e padrone è la cifra del romanzo, che non può essere interpretata in maniera semplicistica come lotta tra “bianchi” e “neri”, perché in entrambi gli schieramenti vi sono dei “traditori di razza” che minano la compattezza delle relative comunità: gli abolizionisti nel campo euro-americano e quelli che collaborano attivamente alla perpetuazione della schiavitù tra le file degli afro-americani.
L’inter-sezionalità è un altro elemento chiave, perché nell’edificio nord-americano le contraddizioni di classe, “razza” e genere sono strutturalmente interconnesse e come tali l’autore le tratta organicamente.
La protagonista del romanzo è Cora.
Cora, è figlia di una schiava fuggiasca e lavora nei campi di cotone della Georgia, vive nell’hob, la parte delle abitazioni dove vengono fatti risiedere i reietti della piantagione.
Difende con l’accetta, dalle mire di Blake – un nerboruto “uomo del padrone” – un piccolo pezzo di terra tra gli alloggi che la madre utilizzava per fare l’orto.
Già dalle prime pagine, lo specifico della condizione femminile nella schiavitù è al centro della narrazione: il corpo di Cora – come quello delle altre donne – è per definizione violabile “a piacimento” non solo dal padrone, ma dagli schiavi stessi: i bianchi ti mangiavano viva, ma a volte ti mangiavano viva pure i neri.
Anche in un contesto apparentemente diverso dalla condizione schiavile tout court, come nella Carolina del Sud, Il suo corpo di donna non le appartiene.
Viene sfruttato sia dalla moderna scienza medica per le sue sperimentazioni su vasta scala, sia dal “Museo delle Meraviglie Naturali” in cui trova posto una rappresentazione vivente e falsata – costruita dai “bianchi” per i “bianchi” – della storia degli afro-americani.
Una messa in scena che sarà un potente anticipazione di quella narrazione tossica che diverrà l’archetipo della versione mainstream della storia nord-americana giunta fino a noi.
Tornando a Cora mentre lavora nella piantagione, non si difende solo dalle angherie degli altri schiavi, ma si oppone alla sadica punizione che uno dei due figli ereditieri del latifondo – in cui il padre aveva saputo intagliarsi una vita in quell’umido inferno della Georgia – vuole somministrare arbitrariamente ad un suo più giovane coetaneo.
Così se in un primo momento è titubante alla proposta che gli viene fatta da Caesar: “io me ne torno al Nord […] fra poco scappo. Voglio che vieni con me”, decide poi diversamente di allontanarsi dalla piantagione di Terrance Randal, quando diventato unico erede dello storico padrone, trasforma il latifondo unificando i possedimenti e introducendo uno sfruttamento ancora più intensivo del suolo e della manodopera.
Da quel momento, la paura e la voglia di libertà sono le sue costanti compagne di viaggio.
Così Whitehead, attraverso la protagonista ci fa conoscere spaccati diversi della condizione afro-americana durante la schiavitù: in Georgia, nella Carolina del Sud e del Nord e nell’Indiana, passando per il Tennessee.
La schiavitù, nella narrazione non viene edulcorata, il trattamento riservato agli schiavi non è descritto per ellissi, e la cifra della realtà storica viene modificata solo da un particolare: la Ferrovia Sotterranea.
Il romanzo prende infatti il nome dalla rete degli abolizionisti che permetteva ai neri di sfuggire alla loro condizione ed allo stesso tempo combatteva per l’abolizione della schiavitù stessa.
Se nella realtà storica questa era una immagine metaforica, nella finzione narrativa la “ferrovia sotterranea” diviene un sistema di collegamento clandestino in cui nelle gallerie appositamente scavate scorrono i binari dove un treno guidato da un macchinista si muove da stazione a stazione con la complicità di quei membri della comunità bianca che offrono riparo agli schiavi fuggiaschi.
Gli schiavi vengono braccati da veri e propri cacciatori di schiavi, così come da pattuglie di locali, come nel caso della Carolina del Nord.
Uno dei motori narrativi è la lotta tra Cora e Ridgeway che era stato precedentemente incaricato della ricerca, risultata infruttuosa, della madre della protagonista.
Mentre Cora cerca la libertà, Ridgeway cerca Cora.
È l’esistenza dello schiavismo, e del suo corollario ideologico: il suprematismo bianco, al di là delle varie combinazioni sociali dei differenti contesti descritti nel romanzo, che mina alla base la possibilità di una qualsiasi rifugio sicuro, persino negli stati del Nord dove la schiavitù è stata formalmente abolita: uno schiavo può essere riportato al suo padrone da un cacciatore, un afro-americano libero può essere rapito per essere rivenduto come schiavo al Sud.
La condizione degli afro-americani è sempre la subordinazione anche quando sembra indossare le vesti di una relativa libertà come in Carolina del Sud, mentre nella Carolina del Nord la questione dei Neri – dopo la loro sostituzione come mano d’opera – è stata affrontata con la loro sistematica eliminazione fisica e l’impiccagione di chi da loro protezione.
In questo contesto viene costruita una comunità della paura, dove il maggiore nesso sociale è la delazione, in cui gli uomini delle pattuglie erano legge: bianchi, corrotti e spietati, e l’istituzione rituale di questo aggregato era l’impiccagione ogni fine settimana nel parco al centro del paese.
“Che fosse nei campi, nel sottosuolo, o in una soffitta, l’America continuava a tenerla prigioniera”, pensa tra sé la protagonista che viene tenuta nascosta in un sottotetto.
Così anche li dove gli afro-americani, possono costruire una comunità prospera, qualunque sia la loro origine, come è il caso della fattoria dei Valentine nell’Indiana, il pericolo è sempre dietro l’angolo e al precedente assalto ai Nativi Americani si sostituisce quello agli afro-americani e a coloro che gli danno rifugio.
Il dubbio infatti non smette di abbandonare la protagonista anche in questo contesto, come in una sorta di profezia negativa: se due donne (cioè due schiave fuggiasche) erano una falla, una comunità cos’era?
La conquista della libertà, è anche emancipazione intellettuale, vista come il fumo negli occhi dal regime schiavista, anzi è una vera e propria contrapposizione dei saperi.
Cora, a più riprese, si adopera per imparare a leggere e a scrivere.
Come dice Ridgeway: bastava toglierli dalla piantagione e i neri imparavano a leggere. Era una malattia.
Il clima politico-sociale in cui questo romanzo è stato scritto, il rinnovato interesse per la storia afro-americana da parte della saggistica statunitense e il fatto che l’epopea della sua resistenza sia tornata ad essere una potente fonte di produzione artistica meriterebbe un articolo a parte.
Qui mi limiterò a dire che la narrazione della società nord-americana come post-razziale è definitivamente defunta anche all’interno della rappresentazione mainstream: questo romanzo e la sua ricezione ne sono in parte una conseguenza.
Oltre che alle indubbie qualità letterarie dell’autore, il successo di quest’opera è senz’altro dovuto a questa rinnovata sensibilità sia dei giovani afro-americani e dei millenials in genere, cresciuti dentro una crisi ormai decennale, dove una accresciuta polarizzazione sociale si coniuga con una più marcata segregazione sociale.
Una schiava ribelle e fuggiasca ha d’insegnarci molto di più di quanto crediamo, anche solamente educandoci a vedere meglio le nostre catene, oltre che a posare uno sguardo meno superficiale sull’America di oggi.