di Gioacchino Toni
George Romero non ha mai fatto sconti a The Walking Dead, tanto da rifiutarsi di dirigere qualche episodio della serie giungendo a definirla come «una soap opera con qualche zombie qua e là». In effetti, avendo Romero sempre utilizzato lo zombie come strumento di satira o di critica politica, risulta difficile pensarlo alle prese con buona parte delle produzioni più recenti. Resta comunque innegabile che in TWD vi siano riferimenti all’universo romeriano tanto che alla scomparsa del regista che ha saputo regalare sia al “decennio turbolento” che a quello successivo del “ritorno all’ordine” le più appropriate figure di zombie, lo stesso Robert Kirkman, il creatore dell’universo di comic alla base della fortunata serie televisiva, non si esime dal concedergli un tributo diretto inserendo su un numero del fumetto un esplicito riferimento all’incipit di Day of the Dead (Il giorno degli zombi, 1985).
Richiami, citazioni e tributi, più o meno di maniera, a parte, nel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo avuto modo di vedere come l’immaginario offerto da The Walking Dead differisca da quello romeriano; Antonio Lucci nel suo “Non pensare allo zombi! Strutture narrative e metamorfosi della non-morte” (in: AA.VV., Critica Dei Morti Viventi, 2016), senza mezzi termini, giunge ad accusare la serie di aver ribaltato il valore culturale critico del genere in una normalizzazione conservatrice.
Sull’immaginario politico-ideologico riscontrabile in TWD si soffermano anche Dom Holdaway e Massimo Scaglioni nel libro The Walking Dead. Contagio culturale e politica post-apocalittica (Mimesis, 2017). Il primo capitolo del volume analizza TWD, secondo le modalità dei Film and television studies, come prodotto televisivo, indagando l’ideazione e la produzione della serie, il suo dialogare con il genere horror e la mitologia degli zombie. Nel secondo capitolo TWD viene invece analizzato con gli occhi dei Cultural studies al fine di cogliere tanto «le strategie di rappresentazione adottate dal prodotto in relazione alle dinamiche politico-sociali contemporanee», quanto «l’ideologia stessa che la serie incarna e veicola, fondata su una visione neoliberista, tesa a valorizzare l’utopia dell’eguaglianza di fronte alla minaccia dei non-morti e a “oscurare” differenze che riemergono, comunque, in maniera inconscia e imprevista» (p. 11). Nel terzo capitolo, attraverso i Media studies e le ricerche sui fandom, viene studiata la dimensione transmediale della serie e viene messa in luce la sua capacità di dialogare con i desideri del pubblico. Nel quarto capitolo, infine, attraverso i Production studies, ad essere presi in esame sono gli aspetti distributivi e di consumo di questa serie. Da parte nostra ci soffermeremo sull’analisi proposta da Holdaway e Scaglioni nel secondo capitolo del volume intitolato “Nuovo ordine post-apocalittico. Allegorie politiche ed etica della sopravvivenza”.
Indipendentemente dal fatto che The Walking Dead sia «politicamente innocuo “come una soap opera”, per dirla con Romero, o piuttosto in grado di mettere sul piatto, spesso senza risolvere, alcune delle questioni più urgentemente avvertite nelle società occidentali (l’ossessione nei confronti delle fortificazioni, delle mura, del diritto di rinchiudersi in “comunità sicure” e di difenderne i confini anche con l’uso della violenza preventiva; oppure il tema delle malattie epidemiche…)» (p. 7), resta il fatto che il successo ottenuto dalla serie ha sicuramente contribuito al rilancio della figura dello zombie.
Il libro di Holdaway e Scaglioni concede parecchio spazio all’analisi delle «allegorie politico-ideologiche contenute, intenzionalmente o meno, nel prodotto televisivo e nelle sue varie estensioni» (p. 8). I due studiosi colgono anche alcune curiose analogie tra le narrazioni di Game of Thrones (Il trono di spade, HBO, dal 2011) e The Walking Dead. «A conferma che sotto la coltre dei generi e degli immaginari della cultura popolare ritroviamo motivi più profondi e persistenti, che consentono di inquadrare e comprendere meglio l’identità di una Nazione e la complessità dei racconti che, da qui, riescono a viaggiare nel mondo, e a raggiungere le sue diverse periferie, diventando altrettanto e diversamente significativi» (p. 9).
I due studiosi pongono particolare attenzione anche sulla capacità del fumetto e della serie televisiva di estendersi su media e piattaforme differenti al fine di coinvolgere i fan nello strutturare una forma di complessità che sembra presentare peculiarità tali da differenziarla da quella di altre serie contemporanee.
Sul piano contenutistico, innanzitutto, TWD catalizza una varietà di fenomeni legati alla mitologia “zombesca” sviluppata, negli anni, dal cinema e più recentemente dalla televisione americana. Dal punto di vista televisivo, poi, il telefilm prende il testimone da Lost e da altre serie “complesse” degli anni 2000 nello sviluppare una forma di narrazione improntata alla “popolarizzazione del culto” e all’apertura potenzialmente infinita del racconto. Sul versante della rappresentazione e dell’ideologia, inoltre, il focus della serie si sposta progressivamente dalla centralità degli zombie (o del virus che “li produce”) come origine dell’apocalisse, all’idea di una rifondazione della civiltà umana che dà per scontati il pericolo continuo e la necessità di convivenza con i non-morti: in questo modo TWD presenta un’ampia e ricca casistica di dilemmi etico-esistenziali, problematiche politiche, interrogativi legati all’organizzazione sociale, alle questioni razziali e di gender. Infine [TWD] intercetta e mette in forma in modo originale alcune dinamiche tipiche dell’industria televisiva contemporanea, quali il dialogo intertestuale fra fumetto, cinema e TV, le esigenze “transmediali” di un sistema comunicativo sempre più “convergente”, la necessità di intercettare il gusto di un fandom sempre più globale, le opportunità di sfruttare pienamente il prodotto e le sue “estensioni” nei differenti mercati di distribuzione (pp. 10-11).
In TWD è ravvisabile un’esplicita allegoria della Rivoluzione Americana, tanto che nelle comunità dei fan sono numerose le analisi che insistono sui riferimenti allegorici al mito fondativo degli Stati Uniti. «Il riferimento alla storia americana funziona, in termini più generali e “macro”, come leitmotiv per l’intera serie, che ritorna di continuo sul tema della gestione politica tanto delle comunità quanto del conflitto, e segnala altresì la permanenza e la rilevanza del mito nella società americana contemporanea. A livello più “micro”, nelle pieghe del testo, il nesso con la storia si attiva attraverso piccoli dettagli, immagini e parole […] che adornano specifiche puntate e sfuggono facilmente allo spettatore meno attento» (p. 48).
Holdaway e Scaglioni individuano in TWD una serie di elementi che riguardano «la rappresentazione del sistema politico-sociale contemporaneo, le tensioni in atto nella politica americana e, in particolare, il conflitto fra “libertarianismo” (libertarianism), da un lato, e ideologia neo-liberista, dall’altro lato» (p. 49). La serie, le sue rappresentazioni e la sua retorica, devono per forza essere lette alla luce delle dinamiche socio-culturali che l’hanno prodotta e le allegorie che si possono rintracciare in TWD non sono che rappresentazioni delle paure comuni che toccano la società; il successo della serie deriva anche dalla sua capacità di individuare e insistere sulle ansie collettive del momento.
Numerosi studi nel corso dei decenni hanno proiettato sugli zombie paure comuni che vanno dalla perdita di controllo del corpo alla morte, declinandole in base al variare dei contesti. Kyle William Bishop (American Zombie Gothic: The Rise and Fall – and Rise – of the Walking Dead in Popular Culture, 2010) osserva, ad esempio, che il ricorso al genere zombie aumenta in concomitanza con i periodi di cambiamento e di disordine civile. Le produzioni incentrate sugli zombie sono infatti aumentate durante la guerra del Vietnam e quella in Iraq e non è difficile collegare, come propone Peppino Ortoleva (in: Diversamente vivi: zombi, vampiri, mummie, fantasmi, 2010), la storica pellicola White Zombie (L’isola degli zombies, 1932), in cui vengono messi inscena schiavi senza stipendio e identità, alla Grande Depressione e alla questione del razzismo.
La configurazione più riconoscibile dello zombie risale al primo film di George Romero, Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968), in cui non solo lo zombie assume le sembianze del morto camminante e cannibalesco ma inaugura anche due temi ancora attuali: «l’uso simbolico dell’identità dei sopravvissuti, in particolare delle donne e delle persone di colore, che vengono rappresentati in modo positivo» e, a differenza dei film pre-romeriani, «una certa voluta vaghezza a proposito dell’origine dell’apocalisse zombie» (p. 54). Romero inaugura una tipologia di film sugli zombie che insiste sulla critica nei confronti delle autorità e in generale riesce ad incarnare problematiche e paure diffuse all’interno della società americana dell’epoca. Col tempo la figura dello zombie «diventa manifestazione o effetto di una malattia epidemica (per esempio in 28 giorni dopo o La città verrà distrutta all’alba), del fascismo (Le lac des morts vivants, 1981; Dead snow/Død snø, 2009), di subculture devianti o bande (I Was a Teenage Zombie, 1987; Survival of the Dead – L’isola dei sopravvissuti, 2009), del ritorno di un colonialismo rimosso (Zombi 2, 1979) o addirittura del terrorismo dopo l’11 settembre, come accade nelle scene post-apocalittiche del remake di Zombi, intitolata (come l’originale in inglese) L’alba dei morti viventi (2004)» (p. 56).
Lo studioso Peppino Ortoleva sottolinea come gli zombie abbiano portato nella mitologia dei non morti un aspetto prima non trattato: «la morte proletaria, la morte di massa […]. Lo zombie è un morto massificato e anonimo in morte come, si suppone, lo era stato anche in vita. Un morto operaio, anzi una catena di defunti seriali» (Ortoleva in: Diversamente vivi: zombi, vampiri, mummie, fantasmi, 2010, p. 70). Dunque, sottolineano Holdaway e Scaglioni, lo svuotamento che subisce l’individuo divenuto zombie e la paura evocata dal contagio originano il timore nello spettatore che tutto questo possa accadere a chiunque.
Secondo i due studiosi, nonostante TWD sia, rispetto all’opera romeriana, oggettivamente meno critico nei confronti della società, non di meno la sua funzione allegorica risulta evidente e non può che dirsi politica.
Nella serie troviamo innanzitutto scene ambientate in alcuni luoghi ricorrenti, come negozi […], case e uffici di periferie e piccoli paesi […], chiese […], caserme con soldati e polizia antisommossa zombificati […], cui si aggiunge la prigione della terza e quarta stagione. La presenza di zombie in questi luoghi si presta evidentemente a una critica implicita di alcuni degli istituti fondamentali della società americana, suggerendo che i loro abitanti, seguaci, impiegati, clienti… non sono che un gregge di corpi automatizzati e acritici. La paura condivisa di malattie epidemiche è simboleggiata invece, in particolar modo, attraverso la rappresentazione del CDC (Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie) alla fine della prima stagione […] Non si possono poi non ricordare le mura delle comunità di Alexandria e Woodbury, destinate nelle intenzioni a tener fuori gli zombie. Le loro immagini assumono una curiosa rilevanza storico-metaforica, poiché finiscono per dar corpo a quelle ansie xenofobe che hanno fornito carburante all’elezione di Donald Trump nel 2016. Negli stessi mesi della messa in onda di TWD, il candidato repubblicano faceva campagna elettorale puntando sulla promessa di costruire un muro lungo la frontiera che divide gli Stati Uniti e il Messico (pp. 57-58).
Rispetto al genere romeriano, TWD sposta lo zombie sullo sfondo al fine di concentrare l’attenzione sui sopravvissuti e ciò risulta funzionale alle lunghe narrazioni delle serie televisive, come ha spiegato Antonio Lucci (in: AA.VV., Critica Dei Morti Viventi, 2016), [su Carmilla]. Nel caso di TWD, sostengono Holdaway e Scaglioni, focalizzare il racconto «sui sopravvissuti permette, allo stesso tempo, di elaborare un’immagine molto più sfumata e complessa non solo di come si può reagire all’apocalisse zombie, ma anche di come ricostruire una società umana diversa da quella precedente. L’allegoria sviluppata dalla serie fa inoltre ampio ricorso all’idea della massa proletaria che Ortoleva riconduce al genere» (p. 59).
Serializzando e dilatando enormemente la narrazione, si è sviluppata una storia collettiva che mette in scena numerosi personaggi, comunità e luoghi, permettendo al fumetto, alla serie e alle varie estensioni da queste derivate, di divenire una sorta di laboratorio di reazioni all’apocalisse estremamente articolato e complesso. «Di conseguenza, è certamente possibile ricostruire le allegorie politiche presenti nella serie, sia che facciano parte dell’esplicita intenzione di Kirkman e degli altri autori, sia che esse siano, invece, implicite, attivate dal testo nel suo incontro con gli spettatori e nella sua circolazione culturale: è necessario però partire non soltanto dalle figure degli zombie, ma anche, e soprattutto, dalle vicende dei sopravvissuti» (p. 60).
In estrema sintesi, la prima stagione della serie segue l’itinerario di Rick Grimes che, risvegliatosi da un coma, parte alla ricerca della moglie e del figlio fino a giungere, al termine di un viaggio decisamente turbolento, ad Atlanta, ove il gruppo famigliare si riunisce in un campo di rifugiati presto distrutto da un attacco di zombie. A questo punto i superstiti tentano, invano, di rifugiarsi presso il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie. La seconda stagione è invece in buona parte ambientata nella fattoria di Hershel Greene ove trova riparo un gruppo di sopravvissuti alla ricerca di una bambina scomparsa. Un nuovo attacco di zombie costringe i protagonisti a fuggire e ad errare tra le abitazioni abbandonate della campagna circostante. La terza stagione e una parte della successiva sono ambientate in un riformatorio-prigione della West Georgia. Qua assistiamo allo scontro tra il gruppo di Rick e la comunità del Governatore della cittadina murata Woodbury. Nuovamente i protagonisti si trovano costretti a vagabondare per le campagne e sul finire della quinta stagione il gruppo di Rick troverà riparo nella fortificata Alexandria Safe Zone, nei pressi di Washington, che diviene una delle colonie che si aggregano per fronteggiare i Salvatori. Nel frattempo la serie (con alcune differenze tra comics e tv) presenta altre località-rifugio: Terminus, la chiesa di Padre Gabriel, l’ospedale Grady Memorial di Atlanta.
Sebbene TWD dimostri chiaramente che il crollo delle regole della nostra società può avvenire molto rapidamente, la rappresentazione della “radicalizzazione” degli esseri umani è mostrata come un processo più graduale e non sempre progressivo. Lo spostamento continuo del gruppo dei sopravvissuti tra i luoghi-rifugio or ora elencati ha una chiara funzione simbolica: marca l’inesorabile fallimento di un certo tipo di gestione sociale in seguito al progressivo, altrettanto inesorabile peggioramento etico dell’essere umano (p. 61).
Dalle prime stagioni, sottolineano gli studiosi, emerge chiaramente la difficoltà dei sopravvissuti di comprendere l’apocalisse.
L’enfasi è posta sui luoghi che simboleggiano e ricordano la vita quotidiana che precede il disastro […], oppure che, in qualche modo, sono legati alle istituzioni, alle autorità o alle forze dell’ordine […] E se il primo accampamento alla periferia di Atlanta è autogestito, è comunque il risultato di un gruppo di sopravvissuti uniti dalla ricerca condivisa di un campo profughi “ufficiale”, gestito dal Governo o dall’esercito. Il fatto che tutti quanti i rifugi si dimostrino alla fine fragili e poco sicuri segnala dunque con chiarezza, ai protagonisti come a noi spettatori, l’inefficacia delle istituzioni tradizionali dopo il crollo della società (p. 61).
Le tradizionali regole gerarchiche e comportamentali si rivelano presto inefficaci, come risulta evidente anche nella rappresentazione della prigione che, da luogo di rieducazione per chi aveva rifiutato le regole della società, diviene luogo di rifugio. Trasformatasi in una sorta di laboratorio sociale, la prigione diviene per il gruppo di Rick un luogo in cui sperimentare modalità di vita comunitaria. Dopo una fase di breve durata in cui viene tentata una sorta di democrazia sociale gestita da un consiglio di cinque individui, «la prigione crolla sotto il peso di un particolare tipo di corruzione e di un modello alternativo e minaccioso di governo, rappresentato dal Governatore e dal suo regime politico» (p. 63).
La comunità di Woodbury si presenta invece governata da una dittatura tirannica con un unico individuo al comando supportato da mercenari.
Oltre alla conferma della celebre osservazione di Walter Benjamin che “l’estetizzazione della politica converge sempre sulla guerra”, la comunità fascista del Governatore serve, sul piano simbolico, a dimostrare il cambiamento profondo dell’etica sociale. Infatti, la distruzione della democrazia quasi-utopica della prigione non a causa di forze contingenti – come la malattia – ma per via di una nemesi umana, rappresenta un evento capitale. I fatti insegnano ai protagonisti che nel nuovo ordine del mondo post-apocalittico la violenza deve necessariamente essere quotidiana (p. 63).
La comunità di Alexandria raffigura, per certi versi, nuovamente la situazione della prigione: «la sua leader, Deanna, era un membro del Congresso statunitense prima dell’apocalisse, e dunque rappresenta un capo democraticamente eletto. Pur di ripetere l’importanza della nuova etica sociale, la serie mette in contrasto il gruppo di Rick e quello di Alexandria, dimostrando che il secondo – protetto fortunosamente dalla realtà fuori le mura grazie a una grande cava che temporaneamente blocca migliaia di zombie – non ha ancora imparato la lezione: “uccidere o farsi uccidere”» (p. 64). Dunque, sostengono Holdaway e Scaglioni, la quinta e la sesta stagione hanno la funzione di far comprendere la nuova morale necessaria.
Ne caso della “trappola” Terminus, la serie insiste «sul fatto che un tempo il sogno di Terminus era autentico» ma poi coloro che reggevano la comunità sono stati corrotti e contaminati dalla violenza di stranieri giunti da fuori. Altre forme di governo riguardano la chiesa di Santa Sara e l’ospedale. In quest’ultimo caso viene prospettata una forma di autocrazia. «Qui si finge un ordine che rispecchia protocolli di comportamento pre-apocalittici, e a governare c’è una milizia armata: eppure, anche in questo caso, il risultato è la restrizione della libertà […] oppure la morte» (p. 65).
Se la critica della serie alle forme di autocrazia e dispotismo è chiara, non da meno mette in evidenza come siano fallimentari anche le forme utopiche di governo, destinate a corrompersi velocemente. «Se il modello della democrazia può ancora valere, deve necessariamente conservare un lato latente di sfiducia verso l’altro e l’estraneo, nonché di violenza pronta a essere esercitata: sembra questo il solo modo per garantire la sopravvivenza della comunità» (p. 65).
La base dell’etica post-apocalittica si sovrappone chiaramente all’ideologia del liberal-conservatorismo della destra americana, anche se nella serie essa viene portata alle estreme conseguenze. Se [è possibile identificare] nello storytelling progressista degli zombie movies di Romero una battaglia ideologica tra la fede nel governo e nelle istituzioni, da un lato, e il libertarianismo individualista, dall’altro lato, in TWD l’esito del conflitto sembra già deciso: il governo e le istituzioni politiche e sociali sono del tutto assenti. A trionfare è un certo tipo di libertarianismo: la protezione a ogni costo dei propri interessi (il rifugio, la famiglia), lo scetticismo e la diffidenza nei confronti dello straniero, dell’altro, dello sconosciuto (p. 65).
Dunque, secondo Holdaway e Scaglioni, la società dei sopravvissuti messa in scena da TWD può essere letta come un’allegoria della visione del liberal-conservatorismo americano e gli zombie come metafore delle paure nei confronti dell’immigrazione e del terrorismo propagandate da quell’immaginario di destra. «È senz’altro rilevante in questo senso l’ossessione della serie per le armi (oltre che per i muri), che rappresenta il fondamento di quell’esigenza, tutta americana, di doversi e potersi proteggere con una pistola» (p. 66).
Nello scenario post-apocalittico della serie la differenza tra i protagonisti e gli antagonisti pare essere di natura morale anche se decisamente fluida. «Da un lato, tra i personaggi che più precisamente aderiscono all’ideologia libertaria, infatti, ci sono degli esempi umani che la spingono verso le sue conseguenze estreme». In tali casi l’omicidio viene giustificato dalla necessità. «Dall’altro lato, troviamo tutti quei personaggi che fanno decisamente fatica a conformarsi al nuovo ordine, […] costretti a subire le conseguenze negative del proprio rifiuto di adattarsi» (p. 66).
Nella serie viene esplicitamente segnalato come chi incarna posizioni di pacifismo e umanesimo finisca per divenire vittima della violenza gratuita, «mentre il libertarianismo protettivo e la violenza ragionata non costituiscono degli argini nei confronti dell’aggressione arbitraria» (pp. 67-68). I limiti del pacifismo vengono esplicitamente manifestati nella figura di Carol che diviene nel corso del tempo sempre più contraddittoria.
Il punto più drammatico di esplicitazione del conflitto fra opzioni esistenziali diverse arriva nel confronto con un personaggio, Morgan, un altro pacifista, sebbene molto più combattuto. Alla fine della sesta stagione ritroviamo Morgan abbandonare Alexandria per paura di perdere la propria umanità a causa delle violenze necessarie alla sopravvivenza della comunità. Come Morgan – il cui irenismo per certi versi insostenibile esplode, infine, nella violenza gratuita e incontrollata ai danni di Richard, guardia del Regno – Carol non riesce allo stesso modo a sedare il suo lato intimamente violento, specie quando alla fine della settima stagione è chiamata a tornare, ancora una volta, a difendere Alexandria contro i Salvatori (pp. 71-72).
Insomma, secondo i due studiosi, dalla serie emerge chiaramente come il pacifismo risulti importante per la psicologia degli individui che si trovano a vivere situazioni estreme ma che la necessità di ricorrere alla violenza per difendere se stessi, la propria comunità e i propri beni, appartenga «a un “libertarianismo” che rimane ineluttabile» (p. 72).
Seguendo per certi versi modalità tipiche dei disaster movie, in cui ci si chiede continuamente chi sopravviverà alla fine, anche TWD presenta numerose morti di personaggi rilevanti. Nel caso della serie presa in esame occorre anche tener presente che i meccanismi di suspense e imprevedibilità si relazionano con meccanismi di coinvolgimento e con le aspettative dei fan.
Si può cogliere il portato simbolico della morte nell’esempio […] di Tyreese, il cui decesso […] indebolisce inevitabilmente la convinzione che “le persone come me possono sopravvivere”. Il fatto che questa affermazione si riveli, alla prova dei fatti, falsa finisce per legare indissolubilmente l’atto di sopravvivenza con l’ideologia politica del libertarianismo. La morte, dunque, riflette in un certo senso l’incapacità di un personaggio di sopravvivere in una società dove le regole sono ormai cambiate radicalmente; la sopravvivenza, viceversa, segnala l’adattamento e l’“incorporazione” del “nuovo ordine del mondo” e le sue conseguenze etico-politiche (p. 73).
Certo, non sempre tutto è così meccanico e la morte di un personaggio può dipendere anche dall’intreccio che si viene a creare con altri comprimari o da esigenze più generali legate allo sviluppo della serie. Secondo i due studiosi è possibile identificare tanto un gruppo di uscite di scena eroiche (Beth, T-Dog, Lori, Oscar, Sasha…) quanto una serie di morti anti-eroiche (Dawn, il Governatore, i cacciatori-cannibali, i claimers di Joe…).
«In ognuno di questi casi, la morte del personaggio avviene perché esso rappresenta una minaccia per Rick e il suo gruppo, un ostacolo che va rimosso per far avanzare la storia nel suo complesso» (p. 74). Vi sono poi personaggi collocabili a metà fra gli eroi e gli antagonisti e personaggi perfidi che si redimono morendo o figure di eroi che nel corso del tempo si lasciano corrompere.
Sul fronte, invece, delle morti simbolico-politiche si possono individuare due tendenze generali, che servono al racconto per illustrare il nuovo ordine della società. In TWD troviamo moltissimi esempi di personaggi (soprattutto minori) scomparsi sostanzialmente per illustrare la gravità della situazione in cui i sopravvissuti si ritrovano. È, questo, un aspetto caratterizzante della serie [che indica] l’altissimo pericolo che si corre nella nuova società […] È chiaro come i bambini rappresentino l’innocenza e la naiveté: la distruzione di questo simbolo serve a sottolineare ripetutamente la totale mancanza di speranza in un mondo dominato da walking dead e assassini totalitari (p. 75).
Una seconda tendenza simbolica nella morte dei personaggi ha a che fare con gli omicidi che mettono in risalto il livello di corruzione morale di qualche individuo.
Insomma, le tante morti di TWD servono chiaramente a delineare il nuovo ordine del mondo e a definire le conseguenze etiche del suo avvento; sono senza dubbio, sul piano narrativo, l’esito delle azioni dei personaggi, ma rappresentano anche i tasselli che fissano lo schema morale del libertarianismo che la serie vuole rappresentare e, in un certo senso, problematizzare. La disponibilità a uccidere caratterizza la dinamica del potere, e funziona quasi come una forma di valuta di nuovo conio; al contrario, chi muore rappresenta sia i difetti di chi non è in grado di reggere i colpi della nuova società, sia un efficace strumento narrativo per illustrare tanto la difficoltà di sopravvivenza quanto la necessità di rivedere le proprie convinzioni, di adattarsi meglio alla dura realtà […] Gli omicidi e, in generale, la morte servono per evidenziare la corruzione morale di coloro che li perpetrano o ne sono la causa [inoltre] servono anche ad accentuare la sofferenza di personaggi buoni […] e un loro specifico percorso di cambiamento (pp. 76-77).
Secondo Holdaway e Scaglioni, se risulta abbastanza semplice individuare allegorie politico-sociali, per quanto mutevoli, nelle figure degli zombie, occorre dare la giusta importanza anche ai sopravvissuti intesi come «autentiche metafore viventi». Se i sopravvissuti di Romero possono essere letti come allegorie progressiste capaci di far riferimento a tematiche e timori propri dei momenti storici in cui i film sono stati girati, di certo non mancano critiche nei confronti della società americana contemporanea nemmeno in TWD. Se sulla questione razziale sia il fumetto che la serie televisiva sono stati accusati «di razzismo inconscio per la rappresentazione da “buon selvaggio” del personaggio di Michonne, e soprattutto per il tasso incredibile di decessi di uomini di colore, specie nelle prime stagioni» (p. 81), non mancano riflessioni sulle dinamiche di potere coinvolgenti uomini, donne, individui di colore e omosessuali. Secondo i due studiosi «in questo senso TWD riprende e aggiorna l’eredità dei film di Romero, rappresentando esplicitamente una supposta ideologia “post-razziale” e “post-gender”» (p. 81).
La questione viene affrontata sin dalle prime puntate della stagione iniziale, in particolare quando Merle, maschio e bianco, reagisce nei confronti di chi tenta di fermarlo dal suo sparare ai vaganti con frasi misogine e razziste contro ispanici, asiatici e neri. «È questo un momento fondamentale della serie, che introduce una serie di tematiche che saranno ricorrenti: Merle si proclama leader del gruppo, annunciando ironicamente l’inizio dell’“ora della democrazia”. Costringe tutti gli altri a votarlo come leader, minacciandoli con la pistola» (p. 81). La violenza di questo viene arginata dalla violenza di Rick in abito da sceriffo
anche se, a ben vedere, rappresentano più il “nuovo ordine” di quello vecchio. Quando infatti l’eroe minaccia di sparare, Merle lo prende in giro: “non lo faresti, sei uno sbirro”. Ma Rick è pronto a rispondere: “ormai non sono altro che un uomo che cerca sua moglie e suo figlio. Chiunque si metta in mezzo non potrà che perdere”. Come si nota da questo scambio, la famiglia rappresenta la base fondamentale della sua spinta alla sopravvivenza. Il discorso di Rick è particolarmente curioso, soprattutto per come declina l’idea di differenza: “allora Merle, le cose sono diverse ora. Non ci sono più negri, e non ci sono più nemmeno gli stupidi pezzi di merda bianchi dediti all’incesto. Rimane solo carne scura e carne chiara. Ci siamo noi e i morti. Sopravviviamo solo stando uniti, non separati!”. Nel discorso di Rick si definisce il codice morale che caratterizza l’intera serie. Le premesse le abbiamo già viste: l’idea del nuovo ordine, la necessità della violenza finalizzata alla protezione di sé e della propria famiglia, in linea con l’ideologia del libertarianism. Si aggiunge, qui, però, un surplus di politica identitaria: l’idea che non contino più le categorie o le vecchie etichette; la sola differenza che conta e che è fondamentale è quella tra morti e vivi. Poco dopo, il punto è reso ancora più esplicito: Rick e Glenn si coprono letteralmente delle viscere di uno zombie, nascondendo le differenze fisiche, per fuggire dalla massa di morti. L’ideologia alla base delle affermazioni e delle azioni di Rick in questa scena, e in particolare la nozione di uguaglianza, diventa qui concretamente utopica e ci riporta, oltre l’allegoria, alla società contemporanea: è la realizzazione della nozione neoliberista del soggetto, secondo cui le differenze sociali hanno perso di rilevanza (o dovrebbero farlo) (p. 82).
Nell’ambito del neoliberismo ad essere portato avanti è un vero e proprio processo di mercatizzazione della società che trasforma l’attività di governo da gestione politica a conduzione amministrativa con tanto di privatizzazione di tutti gli enti pubblici. In sostanza le regole del mercato finiscono con l’eclissare ogni altra possibile struttura sociale comportando l’assimilazione delle diverse identità alla categoria del capitale umano. Le diverse identità vengono così sostituite dalla “cittadinanza”, che, come scrive Wendy Brown (Undoing the Demos. Neoliberalism’s Stealth Revolution, 2015), viene ad essere considerata «solo in termini di appartenenza a una comunità in quanto “cittadini”, e nulla di più» (p. 83). È chiaro allora che «i soggetti che esistono “oltre la cittadinanza” (come i migranti) non rientrano nella definizione [e] tutti coloro che rientrano nel concetto di cittadinanza vengono assimilati» (p. 83).
La trasformazione che porta verso l’universalità dell’homo oeconomicus viene riprodotta in TWD attraverso la messa in scena dell’apocalisse.
Il confronto fra “mercatizzazione della società” e apocalisse non è, però, letterale, poiché le modalità di gestione della società neoliberista e di quella post-apocalittica sono molto diverse, e poi perché il capitalismo come forza propulsiva è un tema poco esplicitato nella serie. Il capitale in TWD è costituito dalla capacità di sopravvivere. Per questo vediamo emergere alcune ruoli-chiave nella nuova società: il cacciatore, il poliziotto, il costruttore/architetto, il leader, il medico. […] L’importanza dell’ultimo ruolo – quello del dottore – nell’economia della sopravvivenza è evidenziata almeno due volte nella serie. In primo luogo negli atti compiuti all’ospedale Grady Memorial da Steven Edwards, che uccide un altro medico per preservare la propria posizione. C’è poi Carson, ucciso brutalmente e ingiustamente da Negan, ma solamente perché sostituibile con il medico di Hilltop. È infatti chiaro che TWD insiste sia sulla presenza di rapporti intersoggettivi molto significativi e del tutto colour-blind, sia nel contrapporre continuamente agli eroi antagonisti razzisti, misogini o omofobi. Fra questi ultimi possiamo di nuovo citare il razzista Merle Dixon, nonché il marito di Carol, altro maschio apertamente misogino, che picchia sua moglie e minaccia le altre donne del gruppo. Si potrebbe citare anche il Governatore, specie per le tensioni di natura misogina e razzista che caratterizzano il suo rapporto con Michonne, e senz’altro Negan, per via della struttura gerarchica che impone alla comunità dei Salvatori, dove le donne sono re-inquadrate in ruoli e contesti tradizionali. È utile leggere queste diverse rappresentazioni attraverso la chiave interpretativa dell’ideologia neoliberista: la rappresentazione di un codice morale “sbagliato” si sovrappone all’emergere di differenze sociali (e della violenza che ne è l’esito) entro un quadro generale che avrebbe, al contrario, dovuto rendere insignificanti quelle stesse differenze, come asserito da Rick nel discorso sulla “carne bianca e la carne nera (p. 84).
I due studiosi evidenziano come in TWD i personaggi positivi capaci però anche di sopravvivere siano soprattutto donne, uomini di colore (o comunque non wasp) e omosessuali.
Tutti sono rappresentati come abili a sopravvivere, mentre le loro “differenze” vengono esplicitate solamente per indicare la liberalità delle varie comunità (come nel caso di Alexandria), oppure per marcarne l’utilità al gruppo […] Le diverse stratificazioni della metafora neoliberista si evidenziano in modo particolarmente interessante nel personaggio di Victor Strand, […] un tipo particolarmente furbo, capace di controllare gli altri, allo scopo di perseguire i propri obiettivi. Quando nel campo profughi conosce Nick, subito riconosce nel giovane tossicodipendente – altro soggetto scomodo nella società neoliberale, le cui capacità individuali lo rendono però “efficiente” dopo l’apocalisse – uno strumento utile per fuggire. In seguito, attraverso alcuni flashback narrativi, veniamo a sapere che l’amico e socio di Strand è anche il suo compagno. La sessualità di Strand, come la sua appartenenza etnica, non vengono mai esplicitamente dichiarate, ma soltanto inserite in una storia che “giustifica” il suo sfruttamento di altri esseri umani con l’obiettivo della propria sopravvivenza […] La sovrapposizione, tramite flashback, degli atti “amorali” di Strand nella società neoliberista (è, in fondo, un soggetto economico di successo!) e in quella post-apocalittica (qui è in grado di sfuggire agli zombie) è resa esplicita e giustificata dalla narrazione stessa. Nella scena in cui scappa di prigione, Nick si interroga sull’opportunità di liberare altre persone bloccate nella quarantena, ma Strand risponde: “non li aiuteremo, perché aiutarli potrebbe ferirci. Non c’è alcun valore aggiunto”. È inoltre molto interessante, allo stesso tempo, che gli uomini di colore di TWD sono quasi tutti molto diversi da Strand, e si collocano nella categoria dei personaggi più filantropici e pacifisti, ovvero quelli che sono meno disposti alla violenza […] In ossequio al dogma della serie, che detta l’incapacità dei personaggi più pacifisti e filantropi di sopravvivere, tutti quanti, tranne Morgan e Gabriel (che, comunque, devono dolorosamente “imparare la lezione”) fanno una brutta fine. La presenza e le morti dei personaggi di colore in TWD perciò rivela, alla fine, le tensioni che permangono sotto l’etichetta neoliberista del “post-razziale”. Da un lato, la serie presenta tutti quanti i personaggi come uguali di fronte agli zombie. Dall’altro, però, questa nozione convive con una caratteristica comune alle persone di colore, che è stata giustamente interpretata come una forma di razzismo implicito. Inoltre, in questa etica e politica della sopravvivenza è difficile non scorgere un’allegoria della società americana attuale, dove il movimento Black Lives Matter è nato proprio a partire dai numerosi casi di omicidi di persone di colore inermi. (p. 86).
Infine, la famiglia costituisce uno dei fondamenti principali dell’allegoria politica della serie e questo lo si evince, ad esempio, dall’insistenza con cui Rick evidenzia l’importanza della famiglia come elemento motivante il “libertarianismo” di una condotta che raggiunge vette di estrema violenza. Analogamente la perdita dei figli spinge Morgan e Carol ad alternare condotte decisamente violente a momenti di ripudio delle stesse, fino a ricorrervi nuovamente nella battaglia contro i Salvatori.
Tuttavia, come nel caso del razzismo inconscio della serie, anche l’enfasi sulla famiglia all’interno della politica di TWD può essere variamente sfumata. In fondo la definizione di famiglia che la serie propone è piuttosto flessibile: bambini di genitori morti diventano figli adottati da altre persone […] e spesso una comunità di persone necessariamente diverse si unisce per il sostegno e la difesa di tutti. Se l’ombra di un libertarianismo violento e quella di un’ideologia neoliberista che pretende di cancellare le differenze in nome di un’utopia livellatrice sono onnipresenti nella serie, l’idea di una comunità aperta non viene del tutto meno (p. 87).
La complessità politica del mondo di TWD suggerisce in controluce la complessità della società che fruisce della serie. «Nella finzione, così come nella realtà, ideologie contrapposte e tensioni insanabili ci interrogano su tematiche cruciali e sulle possibili soluzioni dei problemi che ci circondano e ci affliggono» (p. 87).
Serie completa di “Nemico (e) immaginario“