di Roberto Carocci
Enzo Di Brango-Valentino Romano, Brigantaggio e rivolta di classe. Le radici sociali di una guerra contadina, Nova Delphi, 2017, pp. 272, € 14,00.
Nella sua critica spietata all’unità d’Italia, Proudhon aveva senza dubbio dalla sua più di una qualche ragione. Considerando gli aspetti storici, geografici, etnografici ed economico-sociali delle realtà territoriali che componevano il nuovo regno, il socialista libertario francese rintracciava un’artificialità imposta che non avrebbe fatto altro che condurre i ceti subalterni, i contadini in particolare, a una nuova forma di «servitù moderna». Di questa nuova sudditanza che andava profilandosi, un qualche sentore lo ebbero le popolazioni rurali del sud che, presto deluse le speranze che l’arrivo dei piemontesi aveva suscitato, diedero vita a una stagione di lotte animando rivolte, occupazioni di terre e vere e proprie insurrezioni, per lo più note sotto il fenomeno del brigantaggio. 1
Al fondo di questa diffusa e violenta insubordinazione vi erano condizioni di miseria lungamente sedimentate. Quella dell’occupazione delle terre era d’altronde uno strumento collaudato, già sperimentato durante il periodo francese, ma anche nel Regno delle Due Sicilie, e che sarebbe continuato sotto i piemontesi. L’incendiarsi delle campagne meridionali era d’altronde il sintomo di un cortocircuito interno alla nuova organizzazione nazionale nella quale i ceti rurali non trovarono una loro collocazione che non fosse contraddistinta dal proseguire del loro sfruttamento.
Su tutto questo indaga il libro di Enzo Di Brango e Valentino Romano, Brigantaggio e lotta di classe. Le radici sociali di una guerra contadina secondo l’esplicito criterio interpretativo del materialismo storico, cioè attraverso il conflitto apertosi tra i ceti dominanti, vecchi e nuovi, e quelli subalterni. Il contesto storico è quello dell’affermazione della modernità capitalista che, nella formazione dello stato-nazione, trovava una sua via di realizzazione. A partire da ciò, gli autori ci immergono nei diversi aspetti costitutivi e originari della formazione delle classi sociali, e dei loro conflitti, all’interno di quella che fu una profonda transizione politico-istituzionale.
Il regno borbonico non aveva mancato di sperimentare una limitata ma significativa industrializzazione favorendo centri di produttivi di estrema modernità, sia a Napoli che nelle province, soprattutto per ciò che riguardava le condizioni del lavoro. Era il tentativo di integrare nello stato l’emergente proletariato, cui furono fatte ampie concessioni tali da anticipare di circa mezzo secolo le determinazioni che sarebbero state proprie dal socialismo internazionale. Nell’Opificio Serico di San Leucio nella regione del beneventano o nelle Ferriere di Mongiana, gli operai godevano infatti di un particolare regime, contraddistinto da alti salari, un orario di otto ore giornaliere, ma anche condizioni abitative e sanitarie piuttosto vantaggiose. Beneficiavano inoltre di istituti di previdenza altrove impensabili, mentre le concessioni costituzionali del ’48 aprirono alla possibilità per le classi subalterne di dare vita a un primo associazionismo operaio di tipo rivendicativo. Se questo intento modernizzatore favorì la nascita di un iniziale proletariato industriale e di una borghesia produttiva, nelle campagne permaneva invece una condizione di estrema arretratezza con una borghesia fondiaria largamente parassitaria, senza capitali e senza inventiva, che trovava un unico suo fondamento nello «sfruttamento spinto al limite delle masse contadine».2
In tali condizioni, le rivolte delle popolazioni rurali s’indirizzarono alla risoluzione della propria condizione materiale anche al di là della dimensione strettamente politica. Assumendo questo punto di vista diventa possibile spiegare gli ondeggiamenti tra l’iniziale adesione alle istanze giacobine liberali derivanti dalla Rivoluzione francese e la momentanea alleanza con la reazione borbonica. Tra i contadini centro-meridionali emergevano infatti tensioni endemiche che tendevano a tradursi in uno stato di insorgenza permanente, peraltro assai mutabile e dalle diverse intensità, che si generalizzò con la crisi economica di metà Ottocento. Se in Puglia la ribellione rurale venne pressoché disinnescata e limitata da una più accorta gestione da parte degli amministratori locali, in Basilicata e ancor più nelle Calabrie assunse caratteristiche di concentrazioni di massa nel tentativo di aggregare le diverse rivolte locali. Il saccheggio dei beni e dei terreni dei galantuomini diventava un intento espropriati attraverso il quale il movimento contadino pose elementi di passaggio nelle forme di lotta delle classi subalterne, conservando i tratti della jacquerie, ma anticipando al tempo stesso intenti rivendicativi di tipo sindacale. In questo movimento generale si distinguevano i tratti tipici del Risorgimento, come il ruolo esercitato dalle donne le quali, più o meno ovunque, furono le prime a scendere in piazza ritagliandosi un proprio ambito di autonomia. Oltre le “donne del brigantaggio” troviamo dunque le “brigantesse”, le combattenti che animarono una guerra nella guerra in un mondo rurale rigidamente basato sulla divisione patriarcale dei generi.
In un turbinio di eventi, il protagonismo contadino accentuava i contrasti sociali con movimenti violenti e spontanei che cozzavano apertamente con gli interessi dei nuovi ceti borghesi, usurpatori delle ambite terre demaniali. E fu proprio su questi ceti che lo stato unitario volle fondare il suo radicamento, dando vita a uno scontro aperto con le popolazioni delle campagne. Di questo conflitto saranno emblematiche l’insurrezione del 1861, la rivolta di Palermo del ’66 e la feroce repressione cui il Regno d’Italia diede vita, come testimoniato dall’eccidio di Pietrarsa del ’63 o, in sede legislativa, dalla legge Pica, approvata nello stesso anno, che passava la competenza sul brigantaggio dai tribunali civili a quelli militari.
Seguendo la chiave di lettura offerta da Di Brango e Romano è dunque possibile addentrarsi negli aspetti sociali irrisolti del Risorgimento e della “questione contadina”, che altro non era se non l’espressione del confronto permanente tra gli interessi delle diverse classi sociali. Non è un caso che i rivoluzionari dell’epoca abbiano prestato un’attenzione speciale al movimento delle campagne. Pisacane era convinto che le masse del sud potessero conferire un «impulso gagliardo»3 alla realizzazione in chiave socialista della rivoluzione nazionale, mentre Bakunin ammoniva che sarebbe stato impossibile pensare la rivoluzione sociale in Italia contando solo sui ceti operai urbani, senza la sollevazione dei venti milioni di proletari delle campagne.4
Cfr. Pierre-Joseph Proudhon, Scritti sulla rivoluzione italiana, Carabba, 1914, p. 99. ↩
Franco Della Peruta, Democrazia e socialismo nel Risorgimento. Saggi e ricerche, Editori Riuniti, 1965, p. 110. ↩
Carlo Pisacane, La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, Alighieri, 1906, p. 334. ↩
Michail Bakunin, Circolare agli amici d’Italia, Robin, 2013, pp. 79 e 81. ↩