di Luca Cangianti
È il giugno del 1989, i muri di Derry si riempiono di manifestini che denunciano la scomparsa di molte persone, spesso bambini. Alcuni di questi (un balbuziente, un obeso, un ebreo, un afroamericano, una ragazza molestata dal padre, un ragazzo ossessionato dalle malattie e uno che porta dei pesanti occhiali da vista) sono gli unici a capire quanto d’orribile stia per accadere.
La nuova trasposizione cinematografica del romanzo di Stephen King, diretta da Andrés Muschietti, riesce ad affrontare con successo il compito titanico di condensare in poco più di un paio d’ore la complessità narrativa del libro, rispettandone l’atmosfera e il focus teorico anche grazie ad alcuni intelligenti “tradimenti” del testo letterario.1 La stessa scelta di articolare la storia in due parti non lascia alcuna sensazione d’incompiutezza quando compaiono i titoli di coda della prima puntata attualmente in sala.
I temi archetipici di It sono sostanzialmente due: il Male invisibile che si nutre della nostra carne e la comunità dei deprivati capace di sconfiggerlo. Per questo motivo è possibile rintracciare delle profonde analogie con un altro libro di oltre mille pagine: il Capitale di Karl Marx.2
Derry è funestata da creature che violano le leggi di natura: si tratta di allucinazioni, ma capaci di uccidere. Nel Capitale la realtà mostruosa dello sfruttamento economico è invisibile, nascosta sotto una superficie popolata da entità quali prezzi, merci, scambio tra equivalenti, uguaglianza e democrazia. Tale mondo che dovrebbe funzionare fluidamente, tuttavia, s’inceppa ciclicamente generando crisi, guerre e nuove povertà, le cui cause sono di volta in volta spiegate in maniera accidentale dalle teorie mainstream. L’anomalia della crisi è oscurata dallo spontaneo e feticistico presentarsi delle cose nel modo di produzione capitalistico, così come il padre di Beverly (la ragazza del gruppo) non vede i fiotti di sangue che hanno completamente imbrattato le mura del bagno fuoriuscendo inspiegabilmente dal lavandino. Il residuo inesplicato lascia in vita il problema, la crisi ritorna nel capitalismo con sempre maggior violenza a distruggere ricchezza e vite umane, mentre a Derry It ricompare ogni ventisette anni, senza che questa dinamica emerga con chiarezza sulla stampa locale o nella coscienza degli abitanti. L’ecatombe ogni volta è nascosta e dimenticata: “Qui succede qualcosa”, scrive King, “ma solo in privato”; “Vietato l’accesso ai non addetti ai lavori” recita un cartello posto sulla soglia della porta dalla quale Marx immagina si possa accedere al “segreto laboratorio della produzione”.
Per studiare la realtà economica del capitalismo Marx disattende questa ingiunzione e scende nei sotterranei di questo modo di produzione arrivando a concettualizzare realtà invisibili come valore e plusvalore con le quali spiegare quelle visibili dei prezzi e dei profitti. Il mondo della produzione descritto nel primo libro del Capitale serve quindi a dar conto della circolazione nel terzo libro. I sei ragazzi e la ragazza del Club dei Perdenti, come si autodefiniscono, fanno qualcosa di simile: in un garage cercano di sovrapporre la mappa della città (visibile e di superficie) e quella del sistema fognario (invisibile e sotterraneo), cioè terzo e primo libro nella logica del Capitale. A Derry c’è perfino un edificio abbandonato che potrebbe avere la funzione della trasformazione dei valori in prezzi: “Quella casa era un luogo speciale, una specie di stazione, uno dei forse numerosi posti disseminati in tutta Derry che It utilizzava per i suoi trasferimenti tra mondi.”
It è poi una meravigliosa storia d’amicizia, di come essa nasca alle soglie dell’adolescenza e si sviluppi attraverso esperienze che fanno sanguinare le nostre più profonde ferite esistenziali: sentirsi colpevoli per la morte di nostro fratello, dei nostri genitori, oppure temere che nostro padre ci userà violenza. Se il Club dei Perdenti rimane unito, Pennywise, il clown3 perturbante nel quale si materializza It, può esser sconfitto. I Perdenti sono deprivati come i proletari di Marx. Solo loro possono vedere il mostro e hanno motivo di combatterlo. Le ferite che li connotano sono il punto di forza che permette loro di assumere un punto di vista privilegiato dal quale scorgere il mostro oltre l’apparenza. Si tratta di un tema sociopsicologico, dunque non trova posto sul livello altamente astratto e filosofico del Capitale. Qui dell’agency si pone in essere solo la base di mera possibilità.
L’emergere dell’eroe, cioè della soggettività antagonista capace di scorgere il mostro, di sentire una comunanza di destino e d’intraprendere un viaggio verso l’antro del Male, è qualcosa d’empirico che può (quando può) prender corpo in condizioni di vita determinate.4 Le scene che nel film accompagnano la costituzione del gruppo, la fuoriuscita dalla solitudine dei singoli individui sofferenti, l’emergere di nuova speranza nella comunità di lotta, sono toccanti e costruite con grande maestria. Dopo averle viste, provate a pensare in grande e mettete al posto di quei sei bambini e di quella ragazza appena adolescente i volti del migrante, della combattente curda, del rider, del metalmeccanico, della lavoratrice domestica, dell’indigena mapuche e dell’operatore di call center. Non è un’immagine di una bellezza lancinante?
Non si può dire la stessa cosa della miniserie televisiva diretta da Tommy Lee Wallace andata in onda nel 1990. ↩
Sulla struttura epistemologica fantahorror del Capitale cfr. qui. ↩
Sul rapporto tra viaggio dell’eroe in teoria della narrazione e coscienza di classe cfr. qui; la figura dell’eroe è stata affrontata su Carmilla in un ciclo di interventi di Fabio Ciabatti (qui e qui), Mazzino Montinari, Maurizio Marrone e Gabriele Guerra. ↩