di Paolo Lago
Fabio Strinati, Periodo di transizione, prefazione di Michela Zanarella, Bibliotheca Universalis, Bucarest, 2017, pp. 80, € 10,00
La recente raccolta del poeta e musicista Fabio Strinati, Periodo di transizione, possiede una profonda ricchezza: una doppia dimensione che si esplica sia in superficie, a livello grafico e formale, che in profondità, a un livello più prettamente tematico e contenutistico. I componimenti, infatti, a fianco della forma grafica italiana, sono presenti nel testo anche in traduzione rumena, realizzata da Daniel Dragomirescu. La parola poetica, in questo modo, assume una veste indiscutibilmente polifonica: si arricchisce di un suono che, vellutato, giunge a lambire nuove rifrazioni lessicali e nuovi lettori e ascoltatori, pronti ad assorbirne l’intrinseca aerea musicalità. L’altra grande ‘bidimensionalità’ della poesia di Strinati si colloca a livello tematico: ogni componimento, infatti, possiede due anime. Una più esteriore, se così si può dire, fatta di paesaggio, di luce e ombra, di campagna e di terra, di aria e di vento. Un’altra, invece, più ‘metafisica’, interiore, relegata al paesaggio dell’anima, non meno brumoso e avvolgente di quello esteriore. Si potrebbe pensare ad alcune immagini regalateci dai simbolisti francesi, ai malinconici tramonti parigini di Baudelaire che rispecchiano l’anima del poeta o ai paesaggi brumosi di Verlaine.
La campagna è quindi l’immagine esteriore predominante in questa raccolta di Strinati: una campagna avvolta appunto, in un «periodo di transizione», un autunno della coscienza che attende una primavera che forse si intravede, in alcuni versi, per poi di nuovo lasciare lo spazio ad un inverno agghiacciato. Ad esempio, in Svuotarsi, l’immagine dei «fossi carichi di foglie sfuggite ai venti / lasciate marcire dagli alberi ricurvi», delle «bestie mature», delle «staccionate riempite di fori» si unisce in un abbraccio visuale alle «fotografie di attimi in scatole / gonfie di stagioni anormali», al «folto brulicare di urli» e alla «morte, che si spoglia della vita / curvata verso buche denutrite / in stati confusamente terminali». La campagna, fisica e ‘terrea’, perduta nei vapori di un autunno corporeamente presente, si trasforma in paesaggio interiore, metafisico e immobile. Le due dimensioni, però, non sono irrimediabilmente separate da una linea di confine: si ‘parlano’, interagiscono e si mescolano. Quel paesaggio interiore è carezzato dalle brume sui campi, dai tramonti spalmati su alberi e case, dalla presenza fisica degli stessi animali campestri. Ugualmente, la dimensione più esterna, incastonata nella sua «transizione», è toccata dall’interiorità perduta nella propria transizione di pensieri, di immagini poetiche che scaturiscono dalla fervida creatività dell’autore, perduta in una altrettanto creativa «depressione» (Depressione, non a caso, è il titolo di una poesia). Una sinergica unione delle due dimensioni, a mio avviso, è presente in Preludio: «La voce arranca, arretra tardiva al tramonto / crepa e sospira, / consuma un tempo nell’ambiguo vuoto circostante, / mentre scompare il vento che lì finisce e straripa». La voce dell’interiorità del poeta, perduta nell’immagine del tramonto, «consuma un tempo nell’ambiguo vuoto circostante», un «vuoto», attraversato dal «vento che lì finisce e straripa», che assomiglia quasi ad un’immagine metafisica montaliana. Anche in Sto per… l’interiorità, rappresa nel «suo malessere che sfianca», come scrive Michela Zanarella nella prefazione, si unisce al paesaggio esterno metamorfizzandosi in esso: «Spoglio come un albero, al vento, / mi estendo (vago, m’arrendo) / e mi brinerò al canto di quest’ora: / a poco a poco….». La dimensione ‘metafisica’ si trasforma in fisica nelle sembianze dell’albero, del vento, del freddo agghiacciato che fisicamente circonda lo spazio divenuto profondamente reale. Lo stesso, il «suono crudo», musica interiore e assoluta, diventa fanghiglia, diventa terra, corpo fisicamente presente (Suono crudo).
Per mezzo di arditi nessi lessicali, poi, la stessa dimensione reale del paesaggio della campagna diviene immaginifica e lontana, trasvola in sensazioni metafisiche e baluginanti. Ad esempio, in Abbandonato, «biada di morte», dove il quasi sermo humilis «biada» si lega alla parola «morte» che giunge come una mannaia; in Se fossi morto prima, «uomo di miscugli e di fiori»; in Io e io, «lenzuoli d’avi e di morte»; in La macchia, «lavagna di vita»; in Io, «voce di primavera», che può ricordare il pavesiano «viso di primavera»; in Testimone, «perla di lingua», ma gli esempi potrebbero continuare.
In Periodo di transizione assume una sicura importanza anche la fisicità legata alle stagioni: il paesaggio della campagna è inserito all’interno di un preciso ciclo stagionale, quello del tardo autunno e dell’inverno, ad eccezione della baluginante immagine di una primavera forse solo intravista. Così, in Io, il «riflesso del mio io» è «come un orsacchiotto screpolato lasciato / ad ammezzire in tardo autunno», mentre in Io e io, sono presenti «quelle giornate umide» «in quei giorni stringati di dicembre». L’incipit di Depressione mia, poi, così suona: «La salute mia è un ramo d’albero appeso al vento di dicembre». Anima, invece, si chiude con l’immagine della morte associata al novembre: «la morte, lei penetra porta scompiglio / e in novembre, solo un vago ricordo di quell’anima / vagante che ha vagato stanca per i campi spenti». Il baluginio della primavera si intravede nella già ricordata Io, dove particolare importanza assume il titolo ‘personale’: il poeta vuole rilanciare il proprio canto e il suo magico suono in un contesto assillato dalla pur dolce bruma invernale. Così, «la mia voce di primavera che segna e risveglia / il mio luogo, molteplice tragitto / mi riduce ad uno specchio / che brilla la sua matura ombra / che viene oppressa / per due soldi di letame». La voce poetica è «voce di primavera» e la sua magia – sembra volerci dire l’autore – non può essere oppressa dal «letame» che, metaforicamente, rappresenta l’oppressione abbrutente della malinconia e del vuoto. E la voce si leva, libra, si fa suono e avvolge anche noi lettori per ammaliarci col suo canto.