di Alessandro Mantovani
Ricardo Antunes, Addio al lavoro? Le trasformazioni e la centralità del lavoro nella globalizzazione, Venezia, Edizioni Cá Foscari, 2015.
“Un cataclisma, e il suo lucido narratore” si intitola la bella introduzione di Pietro Basso alla nuova edizione del volume del brasiliano Ricardo Antunes. La prima uscì nel 1992 per le edizioni BFS (Biblioteca Franco Serantini) di Pisa. Rispetto a quella, la recente edizione è notevolmente arricchita e gode di una traduzione completamente rivista, e di una nuova, densa Prefazione dell’autore. Ordinario di Sociologia presso l’Università di Campinas, non molto conosciuto e tradotto in Italia, Antunes è ben noto, a livello internazionale, a quanti abbiano seguito il dibattito, ormai pluridecennale, intorno al lavoro e alla marxiana legge del valore nel contesto della globalizzazione.
Il cataclisma in questione è, appunto, quello che – con l’affermarsi del “neoliberismo” o del “post-fordismo” che dir si voglia – ha violentemente investito la condizione dei proletari; d’un lato mutandone radicalmente lo “statuto” nei paesi fino al secolo scorso patria quasi esclusiva del capitalismo, dall’altro estendendone e allargandone la presenza a livello internazionale, nell’area asiatica soprattutto.
I due sviluppi, nel libro di Antunes, già tradotto in molte lingue, sono posti sotto il comune orizzonte teorico della globalizzazione, giacché, giustamente, essi sono complementari e si spiegano e sostengono a vicenda. Colti nella loro totalità, infatti, essi permettono di rispondere alla domanda Addio al lavoro? con un deciso no! Non solo non è in corso nessuna “fine del lavoro” ( come altresì sostengono Jürgen Habermas, Jeremy Rifkin ed altri), anzi, il numero dei salariati è enormemente cresciuto alla scala globale.
Anche nei paesi di capitalismo (stra)maturo, del resto, non assistiamo affatto ad una “sparizione” – come pretende ad es. André Gorz nel suo Adieux au prolétariat (1982) – della classe lavoratrice. Se da un lato la diminuzione (non certo scomparsa) degli operai di fabbrica è innegabile, dall’altro ha luogo una “salarizzazione”, ossia tendenziale proletarizzazione, “delle classi medie” (p. 67), ma soprattutto dilagano precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, ed il sorgere di nuove forme di appropriazione del pluslavoro attraverso lavori atipici, falso imprenditorialismo, false cooperative, lavoro gratuito (vedi stage) e così via,
Tutto ciò costituisce per Antunes una “nuova morfologia del lavoro”, che vede dunque nascere e crescere quello che qualcuno (ad es. Robert Kurz) ha chiamato “proletariato post-industriale”, e che molto più semplicemente, ma più correttamente, Antunes definisce “proletariato precario moderno” (malgrado la spinta finanziarizzazione dell’economia capitalistica contemporanea, e l’importanza assunta dalle produzioni “immateriali”, siamo infatti lungi, anche nei paesi avanzati, da una società senza produzione industriale). Di questo proletariato fa parte anche la crescente quota di lavoratori del settore dell’informazione e dell’informatica, il cosiddetto cybertariato (definizione di Ursula Huws) o infoproletariato, una parte del quale, e non la più numerosa, si trova al vertice della gerarchia di questa nuova morfologia del lavoro, mentre una percentuale crescente di lavoratori (inclusi i cyber-infolavoratori) subisce una situazione di crescente instabilità e privazione di diritti.
Differentemente da Kurz e (aggiungiamo noi) da Toni Negri, che però curiosamente qui non viene mai citato da Antunes, quest’ultimo ritiene che l’apparizione di tali forme di proletarizzazione, incluse quelle legate all’informatizzazione, non implichino il venir meno della legge marxiana del valore, e tanto meno una forma di emancipazione del cosiddetto “lavoro cognitivo”:1
“L’ampio processo di ristrutturazione del capitale, scatenato su scala globale agli inizi degli anni Settanta, ha un carattere multiforme: da un lato presenta tendenze all’intellettualizzazione della forza lavoro […], dall’altro accentua, su scala globale, i livelli di precarizzazione e informalità […]. La nostra ipotesi centrale è che nel mondo capitalistico contemporaneo, lungi dall’esserci una contrazione o un allentamento della legge del valore, sta avvenendo un significativo ampliamento dei suoi meccanismi di funzionamento, nel quale è emblematico il ruolo svolto dal lavoro – è ciò che definisco la nuova morfologia del lavoro.
Un’analisi del capitalismo nell’era della sua mondializzazione e finanziarizzazione ci obbliga a comprendere che le forme vigenti di valorizzazione del valore portano in sé nuovi meccanismi generatori di pluslavoro, nello stesso tempi in cui espellono dalla produzione un’infinità di lavoratori che diventano eccedenti, scartabili e disoccupati […] il che riduce ancora di più la remunerazione della forza lavoro su scala globale […].
In parallelo con l’ampliamento di grandi contingenti di lavoratori che diventano intensamente precari o perdono il loro impiego, stiamo assistendo anche all’espansione di nuovi modi di estrazione del pluslavoro e del plusvalore […]
Questa nuova morfologia del lavoro, mentre abbraccia i più distinti modi di essere dell’informalità, amplia l’universo del lavoro reso invisibile, mentre potenzia nuovi meccanismi generatori di valore, seppure sotto l’apparenza del non-valore, utilizza nuovi e vecchi meccanismi di intensificazione (ed anche di auto-sfruttamento) del lavoro. […]
In questo modo, l’informalizzazione della forza lavoro diventa il meccanismo centrale utilizzato dall’ingegneria del capitale per aumentare l’intensificazione dei ritmi e dei movimenti del lavoro e ampliare il suo processo di valorizzazione. E così facendo scatena un importante elemento propulsore della precarizzazione strutturale del lavoro” (pagg. 24-26).
“Pertanto, la mia ipotesi è che la tendenza crescente (ma non dominante) del lavoro immateriale esprima, nella complessità della produzione contemporanea, differenti modalità di lavoro vivo e, in quanto tale, partecipi […] al processo di valorizzazione del capitale. […]
Per richiamare un pensiero di Jean Marie Vincent (1993), l’immaterialità diventa espressione del lavoro intellettuale astratto, e non porta all’estinzione del tempo sociale medio del lavoro per la configurazione del valore ma, al contrario, inserisce crescenti coaguli di lavoro immateriale nella logica dell’accumulazione, inserendoli nel tempo sociale medio di un lavoro sempre più complesso, assimilandoli alla nuova fase di produzione del plusvalore” (pagg. 35-36).
Certo, il terremoto all’origine di questa nuova morfologia del lavoro, ossia la rivoluzione tecnologica che ha messo in crisi il modo di produzione fordista a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo, ha implicazioni di grande portata: la crisi della centralità politica e sociale della fabbrica nella lotta di classe contemporanea si accompagna su vasta scala alla crisi dell’organizzazione e (almeno pro tempore) della capacità di organizzazione che il proletariato aveva allora espresso, mentre le nuove forme del lavoro salariato, disgregate e multiformi, e i sempre più numerosi disoccupati, non hanno ancora trovato la strada per esprimere in forma organizzata, continua e coerente, il proprio malessere sociale.
In sostanza, il processo di crescente “eterogeneità, complessità e frammentazione della classe lavoratrice” (p. 63) che Fine del lavoro? descrive, appare come la causa profonda della sua attuale incapacità di reagire all’attacco che da ormai quarant’anni il capitale le ha scatenato contro. Il che si esprime, in vari paesi di capitalismo maturo, nel crollo del numero dei lavoratori sindacalizzati e degli scioperi (peraltro ostacolati da una legislazione sempre più autoritaria) e nel momentaneo prevalere di una mentalità individualista tra proletari in feroce concorrenza nell’ambito di un mercato del lavoro sempre più ristretto e spietato, solo qua e là interrotta da episodi di resistenza (quali, non solo in Italia, quelli della logistica, un settore in grande espansione a livello globale).
Orbene: questi pur interessanti episodi prefigurano veramente – come sarebbe da augurarsi – la via che consentirà in futuro alla classe salariata di tornare alla lotta e all’antagonismo rivoluzionario? Nella visione marxiana, il proletariato non è classe rivoluzionaria per il suo angusto livello di reddito (che esso condivide con la piccola borghesia e il contadiname impoveriti, e che lo vede comunque in vantaggio rispetto al sottoproletariato), né soltanto in quanto classe produttrice del valore e della ricchezza sociale, e nemmeno, di per sé, in quanto il salario è antagonista del profitto nella distribuzione del reddito; tutto ciò – per Marx – non basterebbe se la classe proletaria non potesse trarre dalla concentrazione industriale ed urbana la forza sociale necessaria ad affrontare la borghesia ed il suo Stato, mentre la “disciplina della produzione” la educa e la predispone all’organizzazione; laddove il sottoproletariato, al contrario, per la sua socialità disgregata e precaria, sempre secondo Marx, non è in grado di esprimere un autentico antagonismo rispetto alla società borghese.
Se così è – visto che il processo descritto da Antunes potrebbe essere definito, volendo lanciare una formula provocatoria, come processo di “lumpen-proletarizzazione” (lui stesso parla di “de-proletarizzazione”) di vaste quote di lavoratori – , sorge allora la domanda: sarà davvero ancora in grado questo “proletariato precario moderno”, disgregato e frammentato, di rappresentare un fattore antagonista e rivoluzionario rispetto alla società presente? Non è domanda alla quale rispondere con leggerezza o formule ereditate dal passato.
“[..] nei contrasti scatenati dai lavoratori e dagli strati sociali esclusi, dotati di una certa dimensione anticapitalista – afferma Antunes – è possibile rilevare una maggiore potenzialità e centralità degli strati più qualificati della classe lavoratrice […]. O, al contrario, il polo più fertile dell’azione anticapitalista è costituito proprio dai segmenti sociali più esclusi, dagli strati più precarizzati? Non ritengo sia possibile rispondere pienamente, oggi, a questa domanda. Le metamorfosi sono state (e sono) di tale intensità che qualsiasi risposta sarebbe prematura. L’approccio più corretto è enfatizzare, sin d’ora, una necessità perentoria: che questi segmenti dell’eterogenea classe lavoratrice accettino la sfida di cercare i meccanismi necessari a rendere possibile la confluenza e l’unione di classe” (pagg. 97-98).
Tra questi meccanismi, Antunes indica, a nostro avviso acutamente, la capacità di “strutturare un sindacalismo orizzontale, meglio preparato per includere l’intera classe-che-vive-di-lavoro, superando così il sindacalismo verticale che ha predominato nell’era del fordismo” (p. 83).
Pur simpatizzando per “altre modalità di lotta sociale (come quella ecologica, femminista, dei neri, degli omosessuali, dei giovani, ecc.)” (p. 95), egli non ritiene che esse rappresentino le nuove forme centrali della lotta anticapitalista: si tratta, piuttosto, a suo avviso, di coniugare in modo corretto la lotta immediata dei salariati con la tendenza al superamento della società capitalistica. In particolare egli collega la rivendicazione immediata della riduzione radicale e generalizzata della giornata di lavoro, che considera fondamentale, con quella di una società che abbatta la barriera tra tempo di lavoro e tempo libero. Respinge infatti le concezioni che fanno del “rifiuto del lavoro” e della conquista del “tempo libero” gli obiettivi dell’emancipazione umana.
Purtroppo la sua formulazione positiva delle modalità di realizzazione delle rivendicazioni di cui sopra è ambigua: sposando infatti la parola d’ordine della riduzione della giornata di lavoro con “la lotta per l’impiego” per tutti (p. 120) e il pronunciamento del “diritto al lavoro” (che già Marx aveva criticato), senza specificare che queste rivendicazioni potrebbero realizzarsi appieno solo in un contesto rivoluzionario, Antunes – forse al di là delle sue intenzioni – lascia aperta la porta ad una strategia riformistica del movimento proletario.2
Malgrado ciò la sua critica ai teorici del rifiuto del lavoro è pertinente e (benché mediata da Luckács) tutto sommato fedele al dettato marxiano: i corifei del “no al lavoro”, innanzitutto, non ne colgono il valore ontologico, ossia costitutivo dell’essere umano (il quale, fin dalla preistoria, è anche un prodotto evolutivo del proprio lavoro, volto al soddisfacimento dei bisogni umani, ovvero naturali e sociali al tempo stesso); inoltre non ne colgono l’ ineliminabilità in quanto mediazione e scambio tra la natura e l’uomo.
Qui Antunes scrive le sue pagine migliori, avanzando quello che a nostro avviso è un contributo teorico alla definizione della futura società socialista: seguendo una suggestione di Ágnes Heller, sulla base della distinzione marxiana tra work e labour, il primo inteso come lavoro concreto, il secondo come lavoro quotidiano (il lavoro alienato dei Quaderni economico-filosofici di Marx), egli – tenendo conto della lezione di Istvan Mészáros – approfondisce l’aporia tra lavoro concreto, utile, originario (costitutivo dell’essere umano), produttore di valori d’uso, e lavoro astratto, indifferenziato, ossia quella misura sociale del lavoro, che è l’unica ad interessare il capitale, il quale se ne appropria, indifferentemente dal suo contenuto specifico (sia esso armi, droga, software o grano), ai fini dell’estrazione del pluslavoro e del plusvalore.
Su questa base, il socialismo può essere definito come la società in cui il lavoro (collettivo) è esercitato come lavoro concreto, utile, e perciò – in quanto emancipato dalla produzione di plusvalore – libero e in armonia con l’essenza creativa dell’essere umano 3
Questo suo contributo, per nulla banale, permette, tra l’altro, una critica delle società del “socialismo reale”, e del “produttivismo” (che per la verità era stata avanzata fin dagli anni ’50 da Amadeo Bordiga), anche se Antunes, che sembra in questo caso non rendersi conto delle stesse implicazioni del proprio discorso, ha a proposito dei “socialismi” storici idee non del tutto risolte: se infatti coglie giustamente una ragione del loro fallimento nell’arretratezza e nell’isolamento, e pur essendo consapevole dell’impossibilità del socialismo nazionale, ritiene, curiosamente, che essi siano “divenuti” capitalisti, a contatto col mercato mondiale, laddove in realtà essi “socialisti” non sono mai stati4
Ci troviamo comunque di fronte ad un testo di grande densità teorica. Proprio per questo, ci si aspetterebbe che l’autore, dopo averle enunciate, si apprestasse a dimostrare le proprie tesi con l’ausilio, se non di ricerche autonome, quanto meno di congrui dati, il che purtroppo non avviene: Antunes preferisce citare esempi sicuramente significativi, ma la cui generalizzabilità – pur ammissibile – è tutta da dimostrare e, quando, saltuariamente, ricorre ai dati, lo fa per lo più di seconda mano. In questo modo, la sua critica ai sostenitori della “fine del lavoro” (e/o del lavoro salariato) non può dirsi conclusiva. Ci auguriamo che questo compito possa trovare presto soddisfazione, e comunque Addio al lavoro? è un potente stimolo in questa direzione.
Detto questo a livello generale, e nell’impossibilità di esaminare da vicino tutti i nodi teorici da Antunes affrontati, ci pare tuttavia utile soffermarci almeno su uno di essi. Data l’importanza epocale dei cambiamenti intervenuti in quello che è stato chiamato anche, in modo generico, passaggio dal “fordismo” al “post-fordismo”, giustamente, il nostro autore avverte l’esigenza di una ridefinizione del concetto di classe proletaria. Parliamo infatti, nientemeno, che della transizione da un modo di produzione “rigido”, in cui predominavano i salariati industriali e le grandi concentrazioni proletarie, e che richiedeva una relativa stabilità della forza lavoro nonché un correlato grado di welfare, e che presentava un basso tasso di disoccupazione, ad un mercato del lavoro flessibile e frammentato, caratterizzato da una riduzione del lavoro stabile e da un esteso e strutturale esercito industriale di riserva, oltre che da una brutale riduzione dei diritti e dei servizi sociali di cui i salariati – sempre più precari ed instabili – godono. Si pone cioè il problema di come definire e descrivere questo nuovo proletariato, in cui il precariato è già oggi una percentuale importante, verosimilmente destinata a crescere. Ecco le parole di Antunes:
“Utilizzo l’espressione classe-che-vive-di-lavoro come sinonimo di classe lavoratrice, con questa espressione intendo enfatizzare il senso contemporaneo della classe lavoratrice (e del lavoro). Essa include:
1) tutti coloro i quali vendono la propria forza lavoro, includendo sia il lavoro produttivo, sia quello improduttivo (nel senso inteso da Marx);
2) i salariati del settore dei servizi e il proletariato rurale;
3) il proletariato precario, senza diritti, e i lavoratori disoccupati, che costituiscono l’esercito industriale di riserva;
4) esclude, naturalmente, i manager e gli alti funzionari del capitale, che ricevono redditi elevati e vivono di interessi.
Questa espressione include integralmente l’idea marxiana del lavoro sociale combinato, come presentata nel Capitolo VI inedito [del I Libro del Capitale].” (p. 172).
Parlare di “ classe-che-vive-di-lavoro” o lavoratrice, invece che di proletariato, non risolve tuttavia l’arduo problema. Si tratta di una definizione che affonda le sue radici nel socialismo d’antan e che risulta troppo generica, in quanto, presa letteralmente, includerebbe tutti i lavoratori, compresi dunque i proprietari dei propri mezzi di produzione (quali “artigiani”, contadini autonomi, ecc.), i bottegai, e quant’altro. È ben vero che Antunes specifica che così non è, ma in questo modo, appunto, la sua definizione della classe potenzialmente rivoluzionaria non corrisponde alle figure sociali che egli individua come sua parte. Anche l’inclusione “d’ufficio” dell’esercito industriale di riserva, che certo risale a Marx, non appare del tutto scontata se diciamo, come il nostro autore correttamente afferma, che un’ampia disoccupazione diventa un fatto strutturale, per mezzo del quale una parte crescente di questo potenziale esercito industriale di riserva è di fatto esclusa a vita dal processo di produzione, e rinuncia a (o perde la capacità di) farne parte (in altre parole si “de-proletarizza”).
Basso, nella già citata introduzione, senza direttamente criticare la formula di Antunes, preferisce il termine salariati, anche per il fatto che oggi “non pochi salariati rinunciano ad avere prole”. A nostro avviso parlare di salariato è sicuramente più appropriato che non di lavoratore. Si potrebbe obiettare tuttavia, da una parte che la forma “salario” include anche molte categorie non proletarie, dal poliziotto al funzionario statale, al dirigente, e così via; dall’altra che tale definizione tenderebbe ad escludere ciò che Antunes invece include, come nuove forme di lavoro quali cooperative fasulle, falsi lavoratori autonomi, ecc. le quali, pur non ricadendo sotto la forma del lavoro salariato, rappresentano forme di estrazione di pluslavoro
In attesa di una migliore definizione, quella di Marx, proletariato, senza essere mai stata perfetta, ci appare ancora quella che, al di là del suo significato etimologico, per il valore che ha storicamente assunto nel dibattito politico, traccia tutto sommato meglio i fluidi e mobili confini dei possibili becchini del sistema capitalista.
Negri ed Hardt vengono citati una sola volta da Antunes in Il lavoro e i suoi sensi a p. 149, dichiarando il suo accordo con loro, il che è sorprendente, dal momento che essi si collocano appunto tra quanti considerano non più vigente la legge del valore come formulata da Marx ↩
Senza superare del tutto queste ambiguità, ne Il lavoro e i suoi sensi. Affermazione e negazione del mondo del lavoro, 2016, Milano (la precedente edizione uscì nel 2006 per la Jaka Book col titolo Il lavoro in trappola, la classe che vive di lavoro) Antunes sembra propendere verso una prospettiva radicale e non gradualista e si sofferma più di quanto non faccia in Fine del lavoro? su questioni centrali del dibattito teorico contemporaneo quali il cosiddetto “lavoro immateriale” e il “lavoro produttivo”, con definizioni a mio avviso discutibili. ↩
In verità, Antunes, anche per l’oggetto stesso del suo saggio, non svolge appieno tutte le implicazioni che la distinzione tra lavoro necessario e lavoro astratto apre. Fugaci – anche se non assenti – sono infatti, almeno in questa sede, i suoi cenni al carattere distruttivo della produzione capitalistica, non solo verso l’ambiente, ma anche nel senso di spreco di lavoro sociale in produzioni dannose o inutili e in lavori superflui, e sono oggi forse la maggioranza (questi temi sono comunque presenti ne Il lavoro e i suoi sensi, cit.). Assente invece il tema della dilapidazione di ricchezza sociale dovuta (indipendentemente e al di fuori delle crisi) alla costante sovrapproduzione e sproporzione fra i vari settori che è carattere essenziale della produzione fondata sul capitale. ↩
Come anche Basso nota nella sua penetrante introduzione, Antunes definisce i paesi del “socialismo reale” quali paesi “post-capitalistici”, “società ibride, né capitaliste né socialiste” (p. 151) le quali, malgrado i propri “tratti interni anticapitalistici, come l’eliminazione della proprietà privata, del profitto e del plusvalore accumulati privatamente”, sono state soffocate dal mercato mondiale vivendo, a partire dal 1989, “un processo di ritorno al capitalismo” (p. 150). In realtà, come ha ad esempio dimostrato Amadeo Bordiga fin dagli anni ’50 del secolo scorso, tutte le categorie capitalistiche non sono mai venute meno nell’economia “sovietica”, non essendo la proprietà statale confondibile con il socialismo (cfr. in tal proposito, ad es., i segg. volumi, che raccolgono scritti di quegli anni: Amadeo Bordiga, Struttura economico-sociale della Russia d’oggi, Milano, Edizioni Il programma comunista, 1976; Amadeo Bordiga, Proprietà e capitale, Milano, Edizioni Iskra, 1980). ↩