M. Gervasoni, La Francia in nero. Storia dell’estrema destra dalla Rivoluzione a Marine Le Pen, Marsilio, 2017, pp. 320.
La Francia in nero. Storia dell’estrema destra dalla Rivoluzione a Marine Le Pen di Marco Gervasoni, agile e utile ricostruzione della storia dell’estrema destra in Francia, è un testo capace di colmare un vuoto importante nella storiografia e, soprattutto, nella pubblicistica italiana, spesso incline ad affrontare tematiche di respiro internazionale senza avere una reale cognizione dell’argomento trattato e delle implicazioni storiche di certi fenomeni. In questo volume Gervasoni propone una riflessione storica analizzando un contesto ben preciso: il momento in cui l’Europa è entrata in fibrillazione per la possibilità che il Front National vincesse – realmente – le elezioni presidenziali. Poi sappiamo come è andata: ha vinto Emmanuel Macron e tutto è tornato a posto. La Francia in nero permette di capire quali siano le radici del neofascista Front National che, stando alle reazioni dei media nostrani, “d’improvviso” è risultato il terzo partito in uno dei paesi pilastro dell’Unione europea.
Partendo da queste premesse il titolo naturale della nostra recensione avrebbe dovuto essere un altro, forse dal tono più sempliciotto ma sicuramente più azzeccato: “La scoperta dell’acqua calda, ovvero i mass media di fronte alla crescita del neofascismo. Il caso francese”. Nell’arco della lunga campagna che ha condotto alle presidenziali del 2017 l’informazione europea ha riappiccicato addosso al Front National l’etichetta di neofascista, da tempo archiviata in favore della più moderna definizione di movimento populista. Recuperando di fatto tutto un dibattito che i più avevano trascurato sulle radici dell’odio frontista che affondano nel negazionismo, nella nostalgia per la Francia di Vichy e per l’Algeria dei Pieds noirs.. Insomma in tutto quello che gira intorno alla parola chiave neofascismo. Ed eccoci alla scoperta dell’acqua calda di cui parlavamo poco sopra. Il FN non ha mai cambiato opinione, magari ha ammorbidito alcune delle prese di posizione pubbliche; in realtà però ha sempre fatto in modo che le proprie tesi fossero ben al centro del dibattito pubblico, riuscendo a trasformare il proprio messaggio nel pivot attorno al quale il resto del mondo politico avrebbe dovuto poi prendere posizione. Com’è possibile che lo si scopra solo ora che si tratta di fascisti?
Nel dibattito pre-elettorale la pericolosità del Front National non è stata misurata solamente nella radicalità del suo messaggio politico ma nella crescente capacità attrattiva che esercita su consistenti settori delle classi popolari francesi, in particolare fra gli operai e i lavoratori manuali. Si è allora tirato in ballo il gaucho-lepénisme, categoria politologica molto utilizzata negli ultimi anni per identificare tanto il passaggio di settori tradizionalmente di sinistra – come per l’appunto gli operai – a destra, quanto per indicare un presunto parallelismo fra i discorsi e le proposte dell’estrema sinistra e dell’estrema destra. E qui arriviamo al punto. Il ricorrente richiamo a questa presunta similitudine tra destra e sinistra e la “riscoperta” delle tendenze nere del Front National – che nella stagione post Jean Marie Le Pen si era proclamato con insistenza de-demonizzato e aveva trovato la complicità dei media nel dipingerlo più accettabile all’interno della cornice repubblicana – hanno avuto una sola funzione: creare il trampolino di lancio per l’unico candidato che secondo la stampa avrebbe potuto arrestare i populismi, tanto di destra, quanto di sinistra: Emmanuel Macron; candidato altrimenti piuttosto impresentabile per un paese scosso dalla rinnovata presenza dei movimenti sociali nati dalle lotte contro la Loi du Travail, sostenuta dal Partito Socialista alla guida del paese
Ora, tutto ciò potrebbe risultare semplicistico poiché riassume la politica di un paese in uno slogan: «Sono i media ad aver fatto vincere Macron per salvare le banche»; ipotesi di per sé non lontana dalla verità ma che non può essere risolta in maniera così facile. Teniamo però queste considerazioni per contestualizzare La Francia in nero e riprendiamo il nostro libro, partendo dall’articolo Destra e populismo miscela antimoderna che gli ha dedicato Antonio Carioti su “La Lettura” del 20 agosto 2017:
Qui emerge anche l’osmosi con le forze antisistema di sinistra: pur odiandosi, spesse volte le due fazioni non solo hanno contribuito insieme a indebolire i regimi rappresentativi, ma hanno condiviso o si sono scambiate motivi ideologici rilevanti. […]
Tale retroterra storico rende meno sconcertante lo scenario delle recenti elezioni presidenziali, con un vincitore Emmanuel Macron, difficilmente classificabile secondo i criteri usuali e una candidata sconfitta, Marine Le Pen, proveniente dall’estrema destra, ma impegnata ad assorbire e riadattare temi di sinistra. […]
È un rimescolamento di carte come altri simili avvenuti nel passato, oppure alla dialettica tra destra e sinistra se ne sta sostituendo un’altra tra i fautori della globalizzazione e i suoi avversari, tra l’establishment cosmopolita e i populisti che si appellano alle radici identitarie dei popoli?”.
Il cuore de La Francia in nero è proprio qui e Carioti lo ha individuato immediatamente e naturalmente se ne compiace. Marco Gervasoni infatti dipana nel corso della sua narrazione il lungo filo rosso – o nero – che attraversa la storia politica francese, caratterizzata da una forte dicotomia fra destra e sinistra, riforma e conservazione, in cui si sono sviluppati dei sotterranei estremismi di destra e di sinistra capaci di esplodere in grandi fiammate di rivolta: rivolta contro lo Stato e contro la democrazia. Su questo terreno, sottolineano l’autore e il suo recensore, un piano d’intesa sono sempre stati in grado di trovarlo. Argomentazione che se non è priva di fondamento, sembra però strizzare molto l’occhio al presente.
Attenzione però: Gervasoni non banalizza le questioni storiografiche e ricostruisce in maniera precisa la storia dell’estrema destra, proponendo anche se con un taglio compilativo, le tappe principali di un percorso politico che da noi è decisamente poco conosciuto, ma i cui echi sono frequenti nell’attualità d’Oltralpe. Il “cuore nero” della Francia inizia a battere all’indomani del crollo dell’Ancien Régime, quando i monarchici e i cattolici iniziano ad organizzarsi, trova il suo mito delle origini più che nell’uccisione del Re nella repressione della Vandea antirivoluzionaria e cristiana, si complica con il bonapartismo e la lunga scia di emulazioni che ebbe nel XIX secolo, su cui – in nome del nazionalismo ampiamente diffuso nella popolazione francese – politicanti di ogni risma si gettarono da destra e da sinistra. Lo stesso cuore continua a pompare sangue nel Novecento assumendo i nomi dei Camelots du Roi, de l’Action Française, de La Croix de feu, de La Cagule che invitò i poliziotti a sparare sul parlamento negli anni Trenta, passando poi nell’Organnisation de l’armée secrète dell’Algeria Francese, finendo poi nell’Ordre Nouveau, negli universitari del Groupe Union Defense (più noti come GUD, ancora attivi, tanto che risultarono coinvolti nell’omicidio dell’antifascista francese Clément Méric nel 2013) e naturalmente nel Front National.
Partiti, organizzazioni, movimenti diversi tra loro, non soltanto per la distanza cronologica che li separa. E allora perché e come metterli assieme? La destra francese, in particolare quella estrema, è stata sempre attraversata da anime lontane fra loro, alle volte addirittura antitetiche. Come far incontrare lontane nostalgie orleaniste e monarchiche con il fascino dell’uomo forte di marca bonapartista che si potrebbe anche trovare in De Gaulle? Difesa a oltranza della patria o alleanza con il nemico introducendo modelli di stato e organizzazione politica potente come nel caso degli amati-odiati nazisti tedeschi o dei fascisti italiani? Come conciliare il tradizionalismo e il nazionalismo con il liberismo sfrenato professato da alcuni ammiratori del modello politico e sociale statunitense (non da ultimo, si può citare il caso contraddittorio, che riprenderemo, del Front National di Jean Marie Le Pen negli anni Ottanta) e l’adesione al Patto Atlantico? Come gestire quella tendenza anticapitalista che potrebbe finire per accomunare la destra, l’ultima custode della Patria, con gli unici veri avversari, i comunisti?
Ogni domanda richiama dilemmi e dibattiti che si ritrovano in gruppi, intellettuali e organizzazioni dell’estrema destra francese che Gervasoni con cura mette in fila, srotolando quel filo nero il cui capo individua nella ricorrente critica al capitalismo e al sistema democratico, costante che quasi tutte le formazioni di estrema destra sembrano esprimere. La ricorrenza di questo filo si spiegherebbe attraverso gli itinerari militanti, con membri di vecchie formazioni che si iscrivono a quelle più nuove e radicali, portandosi dietro un bagaglio ideologico che non viene annullato ma semmai aggiornato: in questo per l’appunto, secondo Gervasoni, è proprio la critica al capitalismo a fungere da collante e a permettere a questi gruppi di essere elemento attrattivo in momenti di crisi politica e sociale per nuovi simpatizzanti, attirando anche i vecchi avversari della sinistra, che vedrebbero nella rinnovata estrema destra anticapitalista una potente macchina antisistema.
Nessuno vuol mettere in dubbio che non sia così: pur per ragioni diverse dall’emancipazione del proletariato, i vari fascismi hanno criticato – almeno a parole – il grande capitale in nome dello statalismo, del corporativismo e della difesa della tradizione contro il cosmopolitismo; ed è altrettanto vero che in anni diversi i movimenti fascisti hanno attirato militanti di sinistra, in particolare comunisti, tanto negli anni Trenta (il caso di Jacques Doriot, dirigente della Jeunesse Communiste, “astro nascente” del Komintern morto poi da collaborazionista nella Germania di Hitler nel 1945 è il più indicativo ma non l’unico) quanto in anni più recenti quando numerosi quadri comunisti virarono verso il Front National, tanto che si parlò all’interno dei movimenti di transmigration.
Leggendo però Francia in nero ci sembra di intuire un procedimento inverso, che va nella direzione di quella lettura che ne ha fatto Antonio Carioti su La Lettura: al fine di cercare dei legami fra fenomeni differenti e lontani della variegata galassia della destra francese, Gervasoni sembra basarsi sull’idea, tutta del nostro presente, che gli estremi, prima o poi finiscano per toccarsi. Si va alla ricerca quindi dei populismi del passato, scambiando lucciole per lanterne. Abbiamo già citato diversi passaggi da sinistra a destra e rilevato la comune critica alla democrazia liberale, ma al fine di legittimare il presente, l’autore tende ad enfatizzare i caratteri anticapitalistici della destra e, usando un lessico più recente, anche rossobruni nella storia del fascismo, del neofascismo francese ed europeo facendone una marca determinante piuttosto che un aspetto fra tanti. Presenza, quella dell’anticapitalismo di destra e del fascino che alcuni movimenti neofascisti provarono nei confronti del bolscevismo o del marxismo-leninismo, che non ha mai oscurato l’aspetto veramente qualificante del fascismo: l’applicazione sistematica della violenza nei confronti degli oppositori politici e del movimento operaio, come invece sembra dimenticare Gervasoni. Rendiamo più chiaro il ragionamento ricorrendo a un esempio evidente: nella Germania dell’ascesa del nazismo ci sarà anche stata una forte presenza – almeno fino al 1934 – del nazionalsocialismo puro, o nazi bolscevismo che dir si voglia, rappresentato da Ernst Rohm e le SA; questo però non ha impedito che militanti comunisti, sindacali e socialisti venissero poi uccisi. Critica al capitalismo comune o meno.
Se proprio si volesse provare a tracciare una linea di continuità che tenga insieme passato e presente dell’estrema destra francese, mettendo in comune tendenze diverse, la si potrebbe individuare soltanto nell’antisemitismo. L’antisemitismo è l’autentica costante della destra estrema francese: sia esso declinato nell’originale odio nei confronti degli ebrei, o in attacco alla plutocrazia e al nuovo ordine mondiale, sia essa xenofobia in nome della diffusa opinione che gli ebrei fossero (o siano?) i primi stranieri di Francia, o sia celata – solo apparentemente – dietro alla più recente islamofobia.
L’anticapitalismo dell’estrema destra francese, e in particolare oggi del Front National, non è quindi che una strategia fra le tante: come si diceva prima, negli anni Ottanta Jean Marie Le Pen si diceva sincero sostenitore del neoliberismo di Ronald Reagan, trasformandosi in difensore della France profonde e delle fasce più deboli della popolazione nel momento in cui crescevano le difficoltà causate dalla deindustrializzazione e dalla ristrutturazione del mercato del lavoro e si poteva puntare con più facilità il dito contro gli immigrati, a suo dire responsabili della crisi che attraversava l’Esagono.
«Quando Jean-Marie Le Pen passò al secondo turno, nel 2002, mi ricordo l’esplosione di gioia di mio padre davanti alla tv, era commosso fino alle lacrime».
Come mai questa passione per il FN?
«Dicevano sempre “in ogni caso destra e sinistra sono la stessa cosa, non fanno niente per noi”, e in quel ”in ogni caso” c’era tutta la delusione per essere stati abbandonati dalla sinistra che si è messa al servizio del mercato. La sinistra ha smesso di difendere i deboli, e si è occupata al massimo di come gestirli all’interno di rapporti di forza ormai accettati».
Invece i Le Pen, padre e figlia, parlano al popolo?
«Per quanto sia paradossale, i miei genitori si sentono considerati da loro. Quando ero piccolo li sentivo dire “sono gli unici che parlano di noi”, e questo è decisivo. I miei volevano esistere agli occhi degli altri, che in fondo è quello che vogliamo tutti. Mio padre e mia madre non potevano godersi il lusso di votare in base a un programma, un’opinione. Quella è una cosa da privilegiati. Per loro il voto è il tentativo di esistere. La differenza tra dominanti e dominati, come diceva Pierre Bourdieu, sta certamente nel denaro, diplomi, cultura, ma soprattutto i primi hanno il diritto di esistere due volte. Vivono come tutti, con il loro corpo, mangiano, bevono, dormono, ma in più hanno una seconda esistenza nel mondo delle rappresentazioni, nella letteratura, nel cinema, alla televisione. Nella mia infanzia noi eravamo il nulla, esistevamo solo al momento delle elezioni, e i miei andavano a votare per Le Pen perché anche loro volevano esistere due volte, almeno il giorno delle elezioni».
Queste parole di Eduard Louis, scrittore che è stato conosciuto in Italia per il romanzo autobiografico Il Caso Eddy Belleguelle edito da Bompiani del 2014, sono tratte da un’intervista che ha rilasciato al “Corriere della Sera” il 30 aprile 2017 (Mio padre operaio per sentirsi vivo sceglieva Le Pen), una settimana prima del ballottaggio delle elezioni presidenziali e rispecchiano in maniera chiara il reale meccanismo che ha permesso al Front National di emergere e di proclamarsi rappresentante delle classi popolari francesi.
Se dovessimo ridurre tutto ad un’equazione quindi, non è tanto il Front National o l’estrema destra ad essersi avvicinato alle classi popolari in nome di un presunto carattere anticapitalistico, quanto il fatto che sono state le masse popolari ad essersi avvicinate a lui. Questo tipo di processo non si è costruito tanto sul terreno – su cui comunque il Front National, applicando una strategia leninista, si è capillarmente diffuso aprendo sedi ed essendo presente in quei luoghi trascurati dalla politica nazionale come le aree piagate da una capillare disoccupazione, come il Nord-Pas-de-Calais delle miniere e delle fabbriche chiuse – quanto irrompendo nei dibattiti mediatici: qui Le Pen padre è riuscito a emergere, spacciando il suo razzismo e la sua xenofobia come «les propos virils d’un homme simple et de bon sens», contro il politically correct dei borghesi benpensanti e di sinistra di Parigi.
Su questa linea del “pane al pane, vino al vino” Le Pen è riuscito a raccogliere il consenso di quelle classi popolari che si sentivano messe da parte dai partiti di sinistra e snobbate dai media che le hanno dipinte come non in grado di fare dei ragionamenti che non fossero di “pancia”, come avvenuto con la Gran Bretagna in cui la vittoria della Brexit è stata spiegata come una scelta sconsiderata dettata dai ragionamenti deboli di gente povera, zotica e ignorante.
Quel che poi potrebbero fare realmente per i lavoratori e le lavoratrici francesi i frontisti al governo e la maniera con cui potrebbero mettere in pratica il loro anticapitalismo è un punto molto fumoso e, per quanto abbiamo detto fino ad ora, decisamente dubbio. Ma del resto, purtroppo, nessuno gliene chiede conto.