di Massimo Spiga
[Pubblichiamo la Prefazione dell’autore, giovane scritautore cagliaritano appassionato ed esperto di Howard Phillips Lovecraft, a Pellegrinaggio nero una guida della città di Providence e ai luoghi lovecraftiani realizzata, sotto forma di e-book, nel corso di una permanenza negli Stati Uniti. A seguire il link cui è possibile collegarsi per scaricare l’intero testo e il materiale iconografico che lo accompagna.]
Aristotele, nella sua Poetica, definì l’agnizione come il momento culminante di una tragedia; l’attimo in cui il protagonista, in un lampo di consapevolezza, riconosce le terribili afflizioni dell’animo che l’hanno inevitabilmente condotto su un sentiero destinato al dolore e alla caduta. Howard Phillips Lovecraft, uno dei più importanti autori horror del ventesimo secolo – anche se, a detta di molti, potremmo tralasciare il termine “horror” in questa definizione – ebbe modo di aggiornare l’agnizione, offrendone una radicale revisione.
Invertendone la polarità, dall’interno dello spirito umano all’esterno, HPL effettuò quella che Fritz Leiber definì una “rivoluzione copernicana”. Nelle sue storie, il pathos non giace nelle drammatiche imperfezioni della sfera emotiva: al contrario, questo aspetto è assente, o sbrigativamente accantonato. I protagonisti, giunti al climax delle loro vicende, si rendono conto che è il mondo stesso a essere imperfetto, condannato fin dal principio, privo di significato. Questa forma di oscura apocalisse (nel suo originario senso di “rivelazione”, “svelamento”) costituisce il fulcro della poetica e della filosofia lovecraftiana, ed è direttamente mutuata dall’esperienza scientifica del suo autore. Quando, da bambino, si appassionò alle stelle e all’astronomia, ben presto assaporò l’acre realizzazione che l’universo è un luogo sconfinato e insondabile: la Terra è una briciola in quell’immensità. Le nostre esistenze, le nostre ideologie, i nostri affetti si costituiscono come irrilevanti transizioni in uno spazio freddo, buio, indifferente. Lovecraft ebbe modo di codificare questa percezione nichilista in un pantheon di divinità aliene dalle medesime caratteristiche e, in questo modo, riuscì a rivoltare l’antica illusione illuministica secondo cui “il sonno della ragione genera mostri”: è la ragione stessa, con gli occhi spalancati, a produrli o a riconoscerli come pre-esistenti, distinguendone i confini in uno sfondo di caos ed entropia senza nome. Questa intuizione, forse in nuce presente anche nel Marchese De Sade, fornì una nuova, terribile lucidità allo sguardo sul rapporto tra uomo e natura, ed ebbe modo di svilupparsi nel ventesimo secolo attraverso il pensiero di molti intellettuali, tra cui possiamo citare, a mero titolo esemplificativo, la scuola di Francoforte e il loro “Grand Hotel Abisso”.
Tuttavia, Lovecraft conservò sempre un angolo cieco nella sua spietata prospettiva, un’interzona esente dal suo nichilismo: lo sconfinato affetto per la sua terra natia, il New England, e per il gioiello sulla sua corona, Providence. Fondata nel 1636 da Roger Williams, come una delle tredici colonie da cui originarono gli Stati Uniti, Providence resta ancora oggi un luogo in cui il passato permane e si insinua nel sostrato immaginifico dei suoi visitatori, come potrebbe accadere nelle città della vecchia Europa. L’identificazione tra HPL e la sua città rimane inestricabile tutt’ora; è inconcepibile proporsi di affrontare la sua sua filosofia e la sua estetica senza, nel contempo, tenere in considerazione lo spirito dell’antica città. Questo libro è stato pensato per chi intende affondare i propri sensi, la propria immaginazione, il proprio raziocinio nella culla da cui scaturì uno dei molti monumenti letterari del ventesimo secolo.
Il pellegrinaggio nei luoghi in cui HPL spese la sua vita ci riserva un’esperienza unica: è stupefacente assistere allo snodarsi di antiche vie e di architetture coloniali – le quali paiono balzare intatte dalle pagine che molti di noi lessero per la prima volta alla soglia dell’infanzia – ed è, nel contempo, perturbante scoprire come l’autore, al pari di Cesare Zavattini, sembra aver tessuto le sue storie con una struttura e una palette emotiva che pare ricalcata sull’urbanistica stessa della città. Providence non è solo una silente co-protagonista dei racconti: è una loro co-autrice. Il percorso all’interno della città sarà un viaggio che prosegue su due piani paralleli: il buio siderale della contemplazione sull’esistenza e il focolare domestico di una città che non ci appartiene, eppure sentiamo da sempre come nostra. Questo ambivalente ruolo di turisti della città reale e di cittadini della città immaginata non farà altro che provocare dissonanze cognitive, le quali ci avvicineranno alla quintessenziale esternalità che costituisce il fulcro dell’esperienza lovecraftiana.
La natura cognitivamente infettiva della sua narrativa, il suo tentativo di abbattere le barriere tra il mondo scritto e quello non scritto (che, nella prefazione a Lovecraft Zero, provai a sintetizzare con la formula “l’Abisso è la realtà”) non può che trovare il suo trionfo nel Pellegrinaggio Nero qui proposto, un itinerario in corpore vili nella materia stessa che fu usata per edificare la vasta cattedrale letteraria dei suoi miti.
A proposito della sua idea d’arte, HPL scrisse: “La vera raison d’etre dell’arte “weird” è offrire l’illusione temporanea di un’emancipazione dall’irritante e intollerabile tirannia del tempo, dello spazio, del cambiamento e della legge naturale. Se ci concediamo, anche per un fuggevole momento, l’illusoria sensazione che qualche legge di questo cosmo spietato sia stata (o possa essere) invalidata o sconfitta, acquisiamo una certa vampata di trionfante indipendenza, paragonabile nel suo potere confortante ai sogni oppiacei della religione. Difatti, la stessa religione è semplicemente una pomposa formalizzazione dell’arte fantastica. Il suo svantaggio è quello di necessitare una credenza intellettuale nell’impossibile, mentre l’arte fantastica non ne ha bisogno.”
Per noi pellegrini, Providence è un luogo in cui la tirannia del tempo si attenua e le inferenze fantasmatiche innervano sottilmente ogni percezione. Il campanile su cui posiamo gli occhi non è un mero, seppur pregevole, elemento architettonico: si tratta di “quel” campanile, in cui l’occhio trilobato di Nyarlatothep si spalancò durante una terribile tempesta. Spero che questa piccola guida possa aiutarvi, anche solo per un fuggevole momento, a sospendere le leggi del cosmo, a percepire l’impossibile.
Qui il link per scaricare il testo nella sua interezza:
http://www.massimospiga.it/download/5542/