di Gioacchino Toni

«Ritengo che la fortuna dei movimenti d’opinione che chiamiamo populismi sia in gran parte dovuta alla diffusione della comunicazione digitale e quindi al prevalere dei soggetti digitali sugli esseri umani reali. Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali» (A. Dal Lago, Populismo digitale, pp. 73-74)

«La ‘post-truth politics’ appare come un processo di deterioramento degli spazi di discussione della sfera pubblica in cui, soprattutto quelli online, sembrano luogo valido solo per il rafforzamento delle proprie credenze pregresse. [Si tratta di una] degenerazione che va tutto a vantaggio delle forze populiste [che] hanno saputo trasformare il web in un luogo utile per il consolidamento del loro macroframe, che ha bisogno di massicce dosi di sfiducia e di una dinamica fortemente conflittuale per poter crescere e affermarsi» (G. A. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla, p. 11)

Dalla grave crisi economica e sociale contemporanea sono scaturite paure collettive e incertezze di cui hanno approfittato leader politici populisti e ciò avviene in un contesto caratterizzato dall’importanza assunta dalla comunicazione digitale nell’informazione e nella narrazione politica che, non di rado, non lesina di ricorrere a false notizie. Tali questioni sono al centro delle analisi di due saggi usciti recentemente: Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra (Raffaello Cortina Editore, 2017) e Giuseppe A. Veltri – Giuseppe Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, (Mimesis, 2017).

Pur restando in Italia la televisione il principale strumento di informazione e intrattenimento, conviene riportare qualche dato per farsi un’idea della diffusione della comunicazione digitale in rete, tenendo presente che tra i più giovani quest’ultimo strumento è comunque già prioritario. «Secondo l’ultimo rapporto Censis-Ucsi [2016] sulla comunicazione, il 73,7% degli italiani sono sul web, con punte del 95,9% per quel che riguarda gli under 30 […] Facebook viene utilizzato dal 56,2% degli italiani, raggiungendo un’utenza dell’89,4% tra gli under 30. Nel mondo sono iscritti a Facebook 1 miliardo e 650 milioni di persone. A connettersi ogni giorno più di un miliardo, con 45 miliardi di messaggi scambiati nelle 24 ore. Youtube ha circa un miliardo di utenti, Instagram ne ha 500 milioni e Twitter 300 milioni» (G. A. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla, p. 9). Tali dati suggeriscono le potenzialità dalla rete nei processi di orientamento dell’opinione pubblica contemporanea, soprattutto della sua componente più giovane. Le posizioni politiche populiste non solo hanno saputo sfruttare gli ambienti digitali, soprattutto i social media, ma, come vedremo, i populismi sembrano essere, almeno in parte, il risultato della logica prevalente prodotta da tali ambienti.

 

Il populismo della/nella rete…

Il volume di Dal Lago si concentra su quello che egli definisce “populismo digitale”: populismo in quanto i leader pretendono di agire in base al mandato diretto del popolo e digitale perché la relazione leader-popolo viene a darsi soprattutto nella rete. L’analisi prende il via dalla constatazione di come, da qualche tempo, il ricambio di leader politici sia rapidissimo e l’ipotesi avanzata dall’autore è che «l’imprevedibilità elettorale dipenda dal prevalere della politica digitale su quella reale» (p. 11). Visto che buona parte delle scelte della vita pubblica sembra essere ormai elaborata proprio nella rete, il prevalere della politica virtuale su quella reale avrebbe trasformato l’opinione pubblica in opinione digitale.

Esiste evidentemente un legame tra il declino dell’informazione tradizionale e l’ascesa della rete ma, sottolinea il sociologo, Internet non dovrebbe essere pensato come sostituto dei media nati precedentemente ma, piuttosto, come sistema d’integrazione di vari media, dunque di vari tipi di messaggio. Prima dell’era della rete erano soprattutto i giornali e la televisione generalista, con la loro capacità di definizione della situazione politica, ad influenzare l’opinione e pilotare il consenso. Tali media tradizionali avevano un ruolo importante nel determinare le crisi politiche e nell’orientare i cittadini-spettatori che, di tanto in tanto, venivano chiamati a partecipare esercitando la loro azione sul terreno politico attraverso il voto.

Non sono certo mancate stagioni in cui i cittadini hanno saputo forzare la scena politica prendendo direttamente la parola e imponendo l’agenda e l’indirizzo della politica al di fuori della delega elettorale; si pensi alla conflittualità che ha caratterizzato l’Italia deli anni ’60-’70, periodo in cui la classe operaia ha dato prova di autonomia decisionale e politica dotandosi anche di propri strumenti comunicativi. Tuttavia, è indubbio il ruolo di primo piano svolto dai mezzi di comunicazione di massa generalisti nell’orientare l’opinione pubblica.

Con l’affermazione di internet, sostiene Dal Lago, i media tradizionali hanno diminuito la loro capacità d’indirizzare i cittadini che, rendendosi relativamente più indipendenti da essi, hanno intravisto la possibilità di agire direttamente sul sistema politico proprio attraverso Internet. Gli apologeti delle potenzialità partecipative offerte dalla rete insistono solitamente nell’indicare come essa offra una pluralità di fonti informative senza precedenti, come gli utenti possano intervenire direttamente sulle questioni di pubblico interesse e sulla possibilità dei leader politici di comunicare direttamente con i cittadini-utenti bypassando la mediazione dei mezzi d’informazione tradizionali. Tali entusiasmi, però, evitano di fare i conti con il fatto che la rete non manca di svolgere un’attività di condizionamento; si pensi, ad esempio, alla non neutralità degli algoritmi utilizzati dai motori di ricerca o a come, attraverso la profilatura degli utenti, questi non solo sono indirizzati al consumo, ma finiscono per diventare merce essi stessi. Insomma, nonostante la libertà che si gode sulla rete sia assai minore di quella che molti credono, il web produce una notevole illusione di indipendenza.

Il nuovo tipo di rapporto strutturato dalla rete tra leader e pubblico digitale viene definto da Dal Lago «double bind politico-comunicativo». Con double bind si intende, nell’ambito comunicativo, «il sovrapporsi di due ingiunzioni contraddittorie rivolte a un soggetto in condizione subordinata (one-down) da parte di un’istanza superordinata (one-up)» (p. 19). Un caso di double bind politico è, ad esempio, “Ti ordino di essere libero”. Il double bind risulta efficace anche nel controllo delle procedure politiche che formalmente si presentano come democratiche. «Finora il tentativo più interessante e in parte riuscito di trasformare il double bind comunicativo (o illusione di essere liberi in rete) in double bind politico (ovvero l’illusione di decidere in rete) si deve senz’altro all’italiano Gianroberto Casaleggio (1954-2016) e alla sua pseudo-utopia di una democrazia esclusivamente digitale» (pp. 18-19).

Se è bene ribadire che una delle cause principali dell’ascesa dei populismi, e della più generale deriva di destra, è da ricercarsi nell’incapacità delle sinistre di fare i conti con i processi di globalizzazione, è altrettanto vero che internet sembra offrire ai leader populisti la possibilità di attuare una relazione, almeno apparentemente, diretta con i propri seguaci, dunque di costruire una sorta di carisma digitale.

I leader carismatici contemporanei tendono a prescindere dal supporto dei partiti strutturati, o almeno tentano di celarlo il più possibile, sfruttando quell’immagine anti-establishment resa necessaria dall’impresentabilità e dall’indifferenziabilità dei partiti tradizionali. «Inevitabilmente, questi leader neo-carismatici tenderanno a rafforzare i rapporti con il loro pubblico e quindi a perseguire politiche neo-nazionalistiche, protezionistiche in economia e ostili agli stranieri. Visto in questa prospettiva il populismo digitale è dilagante [e] capace di assorbire le istanze sociali che sono state deluse dai processi di globalizzazione e di dislocazione della forza lavoro verso la periferia del mondo. Qui si manifesta un paradosso evidente. La digitalizzazione della cultura è uno degli aspetti decisivi della globalizzazione, ma ora sembra che stia provocando un vero e proprio rigetto anti-globalizzazione» (p. 22).

Dopo essersi dedicato, nel primo capitolo, all’analisi delle categorie di popolo e populismo, nel secondo Dal Lago indaga l’affermarsi dell’illusione partecipativa grazie alla rete. La sensazione trasmessa agli utenti dal web è quella di abitare quello stesso mondo che si presenta loro sui monitor dei dispositivi digitali. L’autore si sofferma su come la velocità di trasmissione dell’informazione digitale possa incidere sulla realtà esterna al web, tanto che il capitolo è emblematicamente intitolato “La realtà come costruzione virale”. Secondo lo studioso si può parlare oggi di realtà virale «ogni qual volta la dimensione spazio-temporale della rete irrompe nella vita sociale» (p. 63).

La percezione di autenticità e democraticità trasmessa dal web, tende a trasformare qualsiasi notizia in notizia vera almeno finché non viene provato il contrario, ammesso che quando ciò avviene interessi ancora. «Nello spazio-tempo di Internet, una notizia, per il solo fatto di circolare, corrisponde a un fatto reale […] Una notizia può essere attivata da qualsiasi fonte, naturale, scritta, visiva o digitale: nel momento in cui entra nei meccanismi della diffusione della rete, può diventare virale e quindi vera, anche se non ha alcun fondamento reale» (p. 64). Si pensi, ad esempio, a come lo staff di Donald Trump ha lavorato sulla falsa notizia che voleva Barack Obama nato in Kenia, dunque non candidabile alla Casa Bianca. A Trump è bastato dichiarare via Twitter nel 2012 di avere ricevuto notizia della falsità del certificato di nascita di Obama da una non meglio precisata “fonte estremamente credibile”, per potersi permettere di ignorare le smentite documentate praticamente fino alla propria elezione, quando ormai la verità circa la candidabilità del rivale risultava del tutto ininfluente in termini elettorali.

Dal Lago sostiene che la versione Internet dei movimenti tradizionalmente sociali della vita pubblica si presenta non come comunità di individui in carne ed ossa ma come utenti della rete e ciò li rende paradossalmente simili e omogenei a prescindere dalle differenze ideologiche, geografiche e di genere. All’esperienza diretta si sostituirebbe «lo scambio di informazioni mediato, sullo schermo del computer, dalla scrittura, dalle immagini e da entrambi» (p. 69). In tale dimensione, continua lo studioso, non si appare come individui dotati di faccia ma come icone di se stessi.

Nell’invadere la sfera pubblica, la digitalizzazione la trasforma assorbendola nella rete e nel delegare le esperienze sociali alla rete si determina un’espansione della sfera privata a spese di quella pubblica. L’individuo in carne e ossa tende a delegare all’informatica la soddisfazione di bisogni reali perdendo la relazione sociale a favore di quella virtuale. Sarebbe dunque così che, secondo l’autore, la sfera politica viene assorbita all’interno di quella digitale e «i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali» (pp. 73-74).

Una caratteristica riscontrabile nei dibattiti digitali, sostiene Dal Lago, è la tangenzialità: raramente gli interlocutori entrano nel merito di ciò che commentano, solitamente si limitano a sfruttare l’occasione per ribadire punti di vista e credenze già posseduti e sostanzialmente indipendenti da ciò che si dovrebbe commentare. Nelle discussioni l’utente digitale pare essere alla ricerca di un pretesto per sfogarsi, per ribadire le proprie credenze in maniera, appunto, tangenziale rispetto alla questione iniziale. Dunque si tratterebbe di un tipo di dibattito in cui si interviene senza argomentare. Molte discussioni, inoltre, non sono affrontate da una comunità duratura, per quanto virtuale, ma risultano del tutto occasionali. «È vero che su Facebook ci si può iscrivere a gruppi di discussione più o meno stabili e che spesso i commentatori degli articoli online sono sempre gli stessi, ma si tratta, appunto, della partecipazione a ritornelli o a cori, non della creazione di relazioni stabili» (pp. 80-81).

L’interattività offerta dalla rete finisce frequentemente col rafforzare la conflittualità all’interno di essa; «i ritornelli identitari e oppositivi lasciano spazio, dopo alcune decine di commenti e scambi, a iperboli negative e insulti» (p. 81). Da tali conflittualità in rete deriva una «cultura linguistica del tutto coerente con le iperboli del populismo digitale (evidente in personaggi come Trump e Grillo), la diffusione di pseudo-notizie e così via» (p. 84). I populisti contemporanei trovano dunque in Internet un valido alleato visto che «corrispondono perfettamente allo stile delle discussioni in rete. Ed ecco, perciò, come le inclinazioni degli utenti attivi di Internet incontrano quelle dei leader» (p. 91).

Nel terzo capitolo del saggio viene affrontata la diffusione del populismo digitale e il paradosso che vede proprio i politici digitali, i più attivi nel processo di virtualizzazione della politica, farsi paladini del localismo e dell’identitarismo. Dal Lago individua nei populismi contemporanei diverse analogie con il fenomeno peronista. In generale, i leader del populismo digitale tendono a far coincidere la propria persona con l’essenza della democrazia, a mostrare il proprio movimento come capace di superare la vecchia distinzione tra destra e sinistra, dunque, di fatto, a pescare delusi da entrambi gli schieramenti e a prospettare una società priva di conflitti, apolitica.

La rete si presenterebbe, dunque, come ambiente che unifica le politiche para-fasciste contemporanee rendendole comunicabili e comunicanti. Se i diversi leader attuassero ciò che propagandano potrebbero in diversi casi portare i rispettivi paesi in rotta di collisione l’uno con l’altro ma, sostiene Dal Lago, «tra tutti questi leader si sta affermando uno stile comune, circolano le stesse parole d’ordine, si sviluppa una sorta di simpatia politica globale. E qui c’è un paradosso. I para-fascisti odiano la globalizzazione, spingono tutto verso il nazionalismo più esasperato (“padroni a casa nostra!” è il loro slogan prediletto), ma si muovono tutti nello stesso ambiente virtuale» (pp. 116-117).

L’autore si mostra ben consapevole di come il fascismo digitale, pur sviluppandosi in ambiente virtuale, si nutra della crisi politica, economica, sociale e culturale ma, sostiene, «il punto è che virtuale e reale tendono a fondersi – o, meglio, il virtuale assorbe il reale e lo modella a suo piacimento. Poiché, in rete, le bufale più colossali sembrano verità per il solo fatto di essere pubblicate, non c’è da stupirsi che l’ondata para-fascista in questione se ne alimenti e le riproduca» (p. 117).

Il populismo digitale non è però riconducibile soltanto agli outsider che si presentano come sbucati dal nulla; lo si ritrova anche all’interno di partiti e movimenti tradizionali formalmente democratici. «Si tratta per il momento di correnti più o meno sotterranee, di un’evoluzione apparentemente pacifica e indolore della democrazia post-bellica, della creazione di formazioni politiche “unitarie”, consociative, non conflittuali» (p. 119). Qui l’autore fa riferimento al Partito della nazione di Matteo Renzi che, rimarcando l’abbandono della vecchia distinzione destra-sinistra, pretenderebbe di ottenere una maggioranza superiore al 51%, oppure, all’esperimento francese di Macron, presentato agli elettori come superamento delle vecchie divisioni ideologiche. In entrambi i casi citati si tratta di progetti politici che pretendono di combattere i populismi emergenti con le medesime armi. Insomma, tutti questi politici populisti, tali più o meno a loro insaputa, un po’ come Peron, sostiene Dal Lago, sognano una nazione pacificata, apolitica, sotto il comando di un uomo solo carismatico. All’ascesa del MoVimento 5 Stelle viene dedicato il quarto, ed ultimo, capitolo, dal titolo “Il fascismo travestito da democrazia diretta”.

 

… nell’era della post-verità

In Fuori dalla bolla Giuseppe A. Veltri e Giuseppe Di Caterino indagano le dinamiche che sono alla base del formarsi delle opinioni e delle decisioni degli individui in un contesto contemporaneo caratterizzato da un’epocale trasformazione tecnologico-comunicativa. Nel volume ci si rifà alla definizione di populismo data da Jan-Werner Müller che lo definisce come «una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamento immaginario – a delle élite corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista […]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. Gli attori politici non dediti a questa causa semplicemente non sono populisti. Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico. In altre parole non ci può essere populismo senza qualcuno che parli a nome del popolo nel suo insieme […] è questa la rivendicazione di fondo del populismo solo una parte del popolo è davvero il popolo […] ciò che distingue i democratici dai populisti è che i primi formulano le pretese di rappresentanza quasi come ipotesi che possono essere empiricamente confutate sulla base dei risultati effettivi di procedure e istituzioni regolari quali le elezioni […] i populisti al contrario, persistono con la loro pretesa di rappresentanza a qualunque costo perché essa è di natura morale o simbolica, non empirica, dunque non può essere confutata» (Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo, Egea, 2017).

Alla vecchia idea che in economia, ma non solo, le decisioni prese dagli individui derivino da procedimenti sostanzialmente razionali, negli ultimi decenni si è affiancato il convincimento che vuole una parte delle decisioni derivare da forme prevedibili di irrazionalità. Secondo diversi studiosi gli individui prenderebbero decisioni soprattutto sulla base «di quello che gli psicologi chiamano “Sistema 1” o del pensiero veloce, che utilizza scorciatoie mentali ed è condizionabile dalle emozioni, anziché fare ricorso al “Sistema 2” o del pensiero lento» (p. 19). Gli individui si trovano in sostanza ad alternare decisioni ponderate, proprie del “pensiero lento”, in cui, ricorrendo a regole logiche, prendono in esame tutte le informazioni disponibili, a decisioni prese in modalità rapida, selezionando soltanto alcune di queste informazioni. È indagando tali modalità decisionali dell’individuo che Daniel Kahneman e Amos Tversky, approfondendo il comportamento economico individuale, ottengono il Nobel per l’economia del 2002 ma, più in generale, sostengono Veltri e Di Caterino, sono gli stessi governi a ricorrere sempre più spesso alla teoria dei due Sistemi per rendere le politiche pubbliche più efficaci.

Ad essere preso in esame dai due autori è anche il legame esistente tra le credenze di un individuo e la sua identità, una componente non irrilevante della quale è definita dall’ambiente sociale e, soprattutto, dai gruppi sociali a cui è legato, la cosiddetta identità sociale. I membri di ogni gruppo sociale hanno una base di credenze comuni che pare vengano elaborate in una parte del cervello diversa da quella utilizzata per il ragionamento razionale. «La conseguenza è che tali credenze sono molto resistenti alla logica o alle evidenze empiriche perché metterle in discussione vuol dire danneggiare la nostra appartenenza al gruppo sociale a cui apparteniamo, mettendo a rischio i benefici sociali che ne riceviamo» (p. 26). L’individuo tenderebbe dunque a prendere posizione in modo da assecondare la sua partecipazione alla rete sociale a cui appartiene e, nell’età contemporanea, occorre fare i conti, soprattutto per i più giovani, anche con la partecipazione ai social network.

I media tradizionali, per il loro essere gerarchici e unidirezionali, necessitano della fiducia dei fruitori e di una realtà sociale il più possibile omogenea. Aumentando la frammentazione sociale e venendo meno un nucleo omogeneo rilevante, diventa difficile per tale tipo di media rispondere a interessi e necessità a loro volta frammentate e differenziate. «Nella network society, il fabbisogno comunicativo viene soddisfatto dalla partecipazione di quelli che erano una volta gli utenti attraverso Internet, prima nella sua incarnazione 1.0 e successivamente in modo ancora maggiore attraverso le piattaforme del social web o Web 2.0» (p. 34). L’informazione via social media sembrerebbe risultare più attraente rispetto a quella dei media tradizionali perché i social media risultano meglio in grado di catturare la complessità ed appaiono più credibili rispetto ai media istituzionali in quanto composti da parigrado. Inoltre, nel suo complesso la rete viene percepita in grado di rappresentare equamente la pluralità dei punti di vista. Si tratta, evidentemente di una visione della rete idillica che non trova riscontro nella realtà dei fatti. «L’autenticità della comunicazione online è spesso basata sull’illusione di una similitudine con le forme di interazione offline: il fatto di poter interagire con individui specifici dà l’impressione di conoscere con chi si parla. Tuttavia, il problema principale delle aspettative sulla comunicazione in Rete dipende da una errata nozione di senso comune di rappresentatività delle opinioni. Visto che le varie voci presenti sui social network sono considerate come rappresentazioni genuine delle comunità da cui provengono, in contrasto con il contenuto prodotto dai media tradizionali, le si considera come rappresentative delle opinioni di una intera comunità, o quantomeno della loro somma. Questo vuol dire che una bassa fiducia in qualche singolo individuo non intacca la fiducia nel collettivo, perché ogni membro della comunità online viene considerato come indipendente e quindi non condizionato dai singoli non credibili» (p. 35).

Occorre, inoltre, tener presente che la percentuale di utenti attivi in rete nel produrre contenuto è molto bassa rispetto agli utenti fruitori e ciò significa che questi utenti attivi non sono assolutamente rappresentativi della comunità di cui fanno parte e che la comunicazione in Internet tende ad avvenire tra membri di una comunità tendenzialmente omogenea e propensa ad autoconfermare le credenze che già la caratterizzano.

Diversi studi hanno dimostrato come gli individui, nel condividere contenuti nei social network, diano scarso valore alla loro veridicità ed accuratezza: «contenuti affidabili e inaffidabili hanno la stessa probabilità di essere condivisi su Facebook […] Allo stesso modo, la vita media di una storia scientifica e di una teoria complottista online sono estremamente simili […] e concentrate in un arco temporale molto breve, a indicare anche come in Rete vi sia una limitata capacità di attenzione. Questa limitata attenzione incide sul fatto che nessuno abbia il tempo di verificare l’accuratezza delle informazioni condivise mentre si fa affidamento su una valutazione basata su scorciatoie mentali» (pp. 39-41).

Se in generale la valutazione della veridicità dell’informazione dipende dalla credibilità della fonte di provenienza, nelle reti sociali si finisce per condividere informazioni senza alcuna verifica semplicemente perché si ritiene che lo abbia fatto qualcuno degli altri appartenenti alla rete sociale di cui si è parte. Più la fonte di informazione è ritenuta “vicina”, maggiore è la credibilità che si è disposti a concederle. «Per questa ragione, tutti i principali attori tecnologici che operano nella Rete hanno investito per creare filtri in grado di articolare un flusso di informazioni rilevante per ciascuno. L’esempio principale è Google che nel 2009 ha introdotto la sua ‘personalised search’ […] In sostanza, l’uso del motore di ricerca di Google venne modificato per mostrare i risultati di una ricerca in base alla storia di navigazione web di ogni utente […] Negli anni recenti, Google ha ridimensionato questo effetto di filtro ma la tendenza generale non è cambiata: in tante piattaforme online, la personalizzazione delle informazioni è comunque presente […] ognuno si ritrova in una bolla in cui riceve solo informazioni che confermano ciò [in cui crede] Questa forma di algorithmic gatekeeping modifica il libero flusso di informazioni. Visto che un numero sempre maggiore di persone utilizza i social network per informarsi […], il timore riguardo gli effetti sociali di questi filtri appare giustificato. Per questa ragione si parla oggi di echo chambers, una metafora che sta a indicare il fatto che membri di una comunità online si possano trovare nella situazione in cui le proprie opinioni vengono rimbalzate, con conseguente effetto-rafforzamento» (pp. 42-43). Dunque, i contenuti che raggiungono l’individuo sulla rete sono in parte pre-selezionati ed il trovarsi all’interno di una bolla tendenzialmente rafforza il ricorso dell’individuo a quelle scorciatoie mentali a cui abbiamo fatto riferimento presentemente.

Una parte dell’analisi di Veltri e Di Caterino è dedicata al fenomeno della viralità di diffusione in rete di alcuni contenuti rispetto ad altri. Innanzitutto hanno maggiore possibilità di condivisione «contenuti di natura emotiva, umoristica e che ‘risuonano’ con interessi e aspetti salienti della vita di molte persone» (p. 47). In secondo luogo i processi virali sembrano dipendere «anche dal ruolo dei ‘network gatekeeper’, individui che sono in grado di diffondere informazioni a molti altri raggiungendo rapidamente una massa critica di condivisioni che innesca altre» (p. 47). Veltri e Di Caterino sottolineano come le possibilità di rendere virale un contenuto siano diseguali per i diversi appartenenti alle comunità di rete: su Twitter, ad esempio, si hanno pochi soggetti con milioni di followers e questi hanno sicuramente maggiori possibilità di rendere virali i loro contenuti rispetto ai milioni di utenti con un basso numero di followers. Tutto ciò non significa che non si possano dare eventi virali online generati dal basso, semplicemente mostra come non tutti abbiano le medesime possibilità di diffusione di materiali.

Sarebbe un errore pensare che l’influenza del web si eserciti soltanto sui suoi “destinatari diretti”; dalla rete attingono ampiamente anche gli operatori dell’informazione tradizionale. Innanzitutto il web è ormai individuato come luogo, al pari di altri, in cui accadono eventi che possono diventare notizie sui media tradizionali. Inoltre i giornalisti attingono dal web informazioni aggiuntive rispetto a quelle di cui sono in possesso (ad es. setacciando nei social network i profili degli individui di cui intendono parlare). Gli operatori dell’informazione tradizionale, poi, utilizzano la rete anche per captare gli umori dell’opinione pubblica senza dover affrontare inchieste sul campo. «In questo modo il clima respirato sul web si sedimenta nella mente degli operatori dell’informazione e degli opinion makers. Con la conseguenza che la websfera si trasforma in simulacro dell’opinione pubblica: quello che accade sulla Rete è equazione diretta di quello che pensano tutte le persone, è un segnale inequivocabile dei sentimenti che attraversano il Paese, delle sue domande, delle sue necessità. Un’equazione alimentata, e per questo rafforzata, anche dai politici per ragioni di propaganda politica o, perlomeno, nella speranza della profezia destinata ad autoavverarsi» (pp. 64-65).

Il web, sognato come strumento che, grazie alla sua supposta orizzontalità, poteva contribuire a migliorare la partecipazione democratica, sembra essersi tramutato in un luogo ove proliferano iniziative propagandistiche e di manipolazione dell’informazione. Ormai «la targettizzazione consentita attraverso i big data è di una tale precisione per cui si possono somministrare notizie diverse da individuo a individuo, con l’obiettivo di orientarne le decisioni elettorali. Inoltre perché nessuna autorità indipendente potrà mai controllare la dieta informativa che viene offerta a ogni singolo utente, e quindi la presenza o meno di fake-news» (p. 67).

Secondo Veltri e Di Caterino, in Italia, i primi a comprendere le possibilità della rete per orientare il consenso sono stati Grillo e Casaleggio. I due sono stati capaci di costruire, sull’onda dell’indignazione diffusa, «un’architettura di siti, in grado di presidiare differenti hub della rete, attraverso un meccanismo ben descritto da una recente indagine della testata BuzzFeed news [qua], che ha spiegato anche il peso delle false notizie in questa loro strategia […] Anche il leader leghista Salvini negli ultimi anni ha concentrato i suoi sforzi comunicativi sulla Rete, con una strategia diversa ma non dissimile da quella del M5S. Il ricorso alla fake-news appare limitato a quei temi che sono il cavallo di battaglia del posizionamento leghista, a cominciare da quello degli immigrati ospitati in strutture di lusso con tutti i comfort (e gli italiani, invece, lasciati soli ad affrontare le durezze della crisi economica)» (pp. 69-71). Nonostante la strategia del leader leghista appaia meno organizzata rispetto a quella del M5S, pare comunque essere di una certa efficacia. In generale Salvini tende ad utilizzate la propria pagina personale sul web per «veicolare l’immagine di persona semplice, simile nei comportamenti e nei gusti a tantissimi italiani, e quindi distante da un certo stereotipo del politico di sinistra inconcludente ed elitario» (p. 71).

La modalità con cui i politici populisti dei diversi paesi presenziano in rete è tutto sommato abbastanza simile. «Una modalità di straordinaria efficacia, che fa leva sulle emozioni, che rispetta tutti i principi dello storytelling e delle sue figure prototipiche, l’eroe e l’antieroe, i rispettivi aiutanti, l’oggetto di valore. Ma soprattutto una narrazione che attinge e alimenta bufale funzionali a conferire a tutto questo credibilità e verosimiglianza» (p. 71). In effetti le bufale si rivelano estremamente utili alle politiche populiste che fanno costantemente leva su una narrazione dell’antipolitica costruita sulla sfiducia nei confronti dei partiti e dei media tradizionali: «da un parte ci sono le élite, inconcludenti e disoneste che vivono in condizioni di privilegio; dall’altra ci sono le persone normali che non arrivano alla fine del mese; delle élite fa parte anche il sistema d’informazione che non vuole che i cittadini sappiano come stanno le cose; per questo ci fanno anche la morale, ma noi non dobbiamo più crederci, perché tutto quello che dicono è funzionale solo ai loro interessi, adesso è il momento di ribellarsi» (p. 72).

Soprattutto nella sua parte finale del saggio, Veltri e Di Caterino ragionano circa la possibilità di una cultura politica del web alternativa a quella populista a partire dalla convinzione che così «come l’avvento della Tv pubblica ha fornito un impulso decisivo alla costruzione del racconto sulla società di massa, come le Tv commerciali hanno permesso la legittimazione di nuove soggettività sociali che ben presto si sono tramutate anche in un’offerta politica, anche le nuove tecnologie sociali stanno svolgendo una funzione omologa; attorno alle grande trasformazioni mediatiche si possono leggere in controluce le fasi della vita repubblicana, le trasformazioni nel rapporto tra società e partiti, la nascita di nuove soggettività politiche, la trasformazione di vecchie. Le tecnologie sociali si sono inserite nella crisi dei soggetti e delle forme della rappresentanza tradizionale accelerandone la dinamica» (p. 12).

La rete ha reso obsolete le forme di intermediazione esistenti nella politica tradizionale mettendo a contatto diretto, o almeno dandone l’illusione, politici e cittadini. I partiti di sinistra, sostengono gli autori, sembrano restare ancorati all’idea di matrice francofortese che percepisce l’opinione pubblica totalmente acritica e passiva in balia della manipolazione esercitata dai media, soprattutto la televisione. Tale convincimento, continuano Veltri e Di Caterino, ha comportato un atteggiamento della sinistra nei confronti della televisione di tipo contenitivoregolatore e tale idea pare essere stata mantenuta anche nei confronti dei social network. Il rischio di tale approccio normativo, sostengono i due studiosi, è quello di non prendere in considerazione il fatto che «i media non sono (solo) strumenti, ma luoghi in cui vive la contemporaneità e maggiormente aleggia lo spirito del tempo» (p. 13).