di Paolo Lago
Francesca Fiorentin, Gli alfabeti intatti, prefazione di Paolo Lago, Arcipelago Itaca, Osimo (AN), 2017, pp. 73, € 13,00
La poesia è uno strumento di libertà: lo sa bene Francesca Fiorentin, che scrive parole poetiche soffuse di indomabile passione. Come ho scritto nella prefazione alla sua bella raccolta poetica Gli alfabeti intatti, uscita recentemente per Arcipelago Itaca, «la poesia è sinonimo di libertà e, insieme a lei, lo sono anche l’arte, la letteratura, varie forme della bellezza di un mondo da riscoprire e da far rinascere. La poesia è fuga verso la libertà ma anche desiderio di lotta per una liberazione contro una diffusa “colonia penale” che ci sovrasta e imprigiona la poesia stessa: “Certe poesie hanno sottofondi / ad alto volume / martelli pneumatici / cigolii, catene al collo / Tende il muscolo la nostra colonia penale / una litania si leva a lamento, ma stride come la sua macchina / No del mio respiro a questa macchina”. Se certe poesie, imbrigliate e legate dal potere, hanno dunque catene al collo, il respiro delle parole, il respiro che la poetessa soffia sul suo foglio di carta è un rifiuto, è un dire “no” al movimento meccanico di un potere-oggetto che vuol rendere oggetti le stesse parole. Scrivere versi è una battaglia continua, una guerra contro tutto e tutti, e la poetessa lo sa bene».
Passione e emozione sono, a mio avviso, importanti parole chiave della poesia di Fiorentin: fra le composizioni appartenenti all’ultima sezione della raccolta poetica – le più recenti – una, datata 25 gennaio 2017 (ogni poesia è contraddistinta da una data), può sicuramente essere considerata emblematica in questo senso. «Per questo amo il buio, / le mani toccano densità mute, senza sguardi, come lontane stelle», così suonano i primi due versi, con l’incipit affidato al verbo «amo» in funzione esplicativa e ad un’estensione immaginifica del discorso che continua come una diretta conseguenza del complemento di causa iniziale. E, così continuano i versi, in una iterazione della parola «penombra» che introduce una notazione paesaggistica: «e la penombra, che non possiede abbastanza calore da / infiammare la linfa vitale, / la penombra quando porge il filtro di raggio verde che allunga / l’orizzonte». La seconda parte della poesia si srotola in forma paratattica come se tutto fosse una diretta conseguenza del nesso esplicativo iniziale: «e l’inaspettata grandine, i bianchi sassi dal cielo; / ogni veloce movimento; / l’ampio mantello aperto a ventaglio, ala su orizzonte; / il lungo salto dei gradini per le scale; / lo stacco da terra di piedi e peso, / e per altro ancora, amo la poesia». Poi, improvvisamente, arriva la sorpresa finale, che giunge dardeggiante come una sphraghìs, un suggello poetico, un fulmen in clausula, come in un’elegia di Catullo o Properzio: «amo la poesia», che fa da pendant con «amo il buio» all’inizio. «Per questo» […] e per altro ancora, amo la poesia»: in mezzo stanno immagini di sogno e di bellezza, della capacità di stupirsi ancora per le piccole cose e per la bellezza improvvisa della natura o di sé stessi e degli altri («la grandine», «un’ala su orizzonte», «il lungo salto dei gradini per le scale»), fino a quello «stacco da terra di piedi e peso» che anticipa il librarsi dell’emozione poetica, della creazione stessa della poesia, che è sempre uno spiccare il volo, un perdere peso nella leggerezza del sentimento, un provare emozione e passione per scoprire fino in fondo la propria umanità.
La passione e l’emozione del fare poesia si raggiungono solo, però, per mezzo del sacrificio e della lotta: come si legge in altri versi di qualche anno prima, datati 24 agosto 2011, «Corsi al nido e tolsi le mie piume nere / con una lama accorciai le penne / mi procurai anche rosso dolore al petto / per poter esser pettirosso, e non solamente / vedere gli altri – essere poeti». Per poter essere pettirossi, cioè poeti, occorre infliggersi «anche rosso dolore al petto»: come un pettirosso, emblema di delicatezza e ‘debolezza’, ‘ferito’ al petto dalla sua chiazza rossa di dolore, così il poeta deve cercare di «non solamente vedere gli altri», ma divenire compartecipe di emozioni e sofferenze, perché c’è emozione anche nella sofferenza e quell’apparente debolezza si tramuterà in forza. Qualsiasi emozione, anche l’odio, nel mondo poetico di Fiorentin, si tramuta in passione perché, ancora peggio è l’indifferenza, l’assoluta mancanza di emozioni e passioni: «L’indifferenza è una tale Assenza, di tutto, viverla è immobilità e sonno solitudine», «mentre l’odio lega sempre a qualcosa, a qualcuno» (Odio). Il canto, la poesia è l’emozione più vera per opporsi all’irreggimentazione e alla normalità, al grigiore quotidiano che probabilmente ci viene imposto dall’alto, fin dagli anni della scuola perché «Sbagliarono le madri, le prime della classe / sbagliarono i padri, il mestiere tradizionale / abbandonato, per il miraggio di velocità e di arrivo»; perché, in conclusione, «sono armi le pagelle del mondo / …Invece, lenti canti inventate», dove nel primo, fra questi due versi, possiamo anche leggere, in enallage, «sono armi del mondo le pagelle», sono le armi di quel mondo ‘grigio’ che ci vorrebbe tutti uguali, mentre nel secondo verso, si eleva, fortificato da una sonora allitterazione, il liberato canto poetico.
Perché, come dicevo all’inizio, la poesia è uno strumento di libertà. Una libertà da conquistarsi anche attraverso la sofferenza e la fatica estrema («Allora so: la creazione / è una fatica titanica», leggiamo in una poesia datata 2 aprile 2017). Il vortice di passione ed emozione poetica male sopporta l’irreggimentazione imposta dall’alto da un Potere cieco che ci vorrebbe tutti degli automi, ligi alle regole del Capitale che pretende di governare le nostre vite per mezzo di una totalizzante lente economica, fatta di vuoti doveri e di squallide routine lavorative. Nel nostro mondo, infatti, come afferma Serge Latouche in un interessante dibattito con Anselm Jappe (edito recentemente da Mimesis col titolo Uscire dall’economia), ogni aspetto della vita è misurato solamente con la lente totalizzante dell’economia. E la poesia di Francesca Fiorentin, fatta di emozione e di passione, questo davvero non lo può sopportare. L’economia, per la poetessa, è la «scienza / dell’imprevedibilità del peggio», una scienza che ci controlla per mezzo del lavoro salariato; allora, nella poesia datata 10 gennaio 2017, così leggiamo: «Ho uno stipendio, ma non è solo lavoro, / è una missione di lotta da crociati, / competere per dei tenutari di capitali / che tengono le file di questa lite. / Una sola è la specie di attore / e sarà anche la vittima: / il gladiatore, che ha come padrone / non un senatore romano, ma un general manager / di origini Globali, diffuso in tutto il mondo». E, in un componimento del luglio 2014, «Anche il lavoro salariato è una specie di detersivo / lava la libertà di stare nel proprio stato di isolamento / per un piatto ogni volta da pulire e da ripresentare al palato». Contro il lavoro salariato che ci vorrebbe schiavizzati, contro il cinismo del potere economico e dei suoi manager automatizzati, contro la smania di ridurre tutto a un vuoto calcolo, si erge la passione della poesia, creatrice di sempre nuove emozioni. Bene ce lo spiega il componimento, datato 26 gennaio 2017, che offre il titolo alla raccolta, e credo sia doveroso riportare per intero:
Come si sta fuggiti
dall’egro affare dei commerci
sulla scia di Plutone
le lettere diventano codici a barre, quotazioni.
Io sulle panchine tra le tombe e le ombre,
o nel buio fuori dallo spettacolo,
ascolto un testo maestoso, spira tra le spine,
mentre il copione dice il copione.
Poi nella stanza tocco alfabeti intatti e mi sento viva.
Una volta fuori dall’«egro affare dei commerci», da una assurda, grigia quotidianità malata di economia, nella stanza magica delle emozioni, le parole straziate possono tornare «alfabeti intatti» per tramutarsi in canto e, finalmente, insieme a loro possiamo sentirci vivi.