di Gioacchino Toni
Stefano Cristante, Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2017, pp. 214, € 16,00
Stefano Cristante, nel suo saggio dedicato ad Andrea Pazienza, ha sicuramente il merito, tra gli altri, di evitare la trappola della mitizzazione dell’artista da lui indicato come «portatore di una filosofia prevalentemente nichilista, e tuttavia capace di spargerla nei suoi testi senza rimuginazioni e lamentazioni, costruendo i dialoghi e i monologhi in modalità esperta e sofisticata» (p. 172).
Nonostante la tendenza di Pazienza a definirsi un disegnatore indolente, in realtà in una decina d’anni ha prodotto parecchio materiale. Questa propensione dell’artista a descriversi svogliato deriva forse dall’ambiente di fine anni Settanta entro il quale si trova a vivere, decisamente ostile ad obblighi, contratti, scadenze e più in generale a tutto ciò che odora di lavoro.
Lo studio di Cristante prende il via dalla pubblicazione nell’aprile del 1977 su “Linus” delle tavole che danno vita alla prima storia di Pazienza, Pentothal. Lo stile adottato risulta decisamente caotico e servono quasi quattro anni all’artista per giungere alla tavola conclusiva mostrante la scritta «“Le straordinarie avventure di Pentothal” inserita in un tabellone ferroviario, come annunciasse un treno in partenza. Ma il treno era già partito da un pezzo, e non a caso la fine del viaggio coincide in realtà con la spiegazione magica del talento di Pazienza. La Natura, raffigurata in forma di albero antropomorfo, suona il campanello e consegna al ragazzo Andrea Pazienza una scatola contenente il “regalo del disegno”. Quindi in realtà la storia ha termine con un inizio» (p. 28).
La situazione vissuta da Pazienza è quella del ’77 bolognese, quella della città del Pci che finisce col fronteggiare il movimento con i blindati dell’allora Ministro degli interni Francesco Cossiga. Cristante rintraccia in Pentothal le modalità con cui il giovane di origini pugliesi vive la turbolenta realtà bolognese: «La “definizione della situazione” di Pazienza attraverso Pentothal (che è un doppio dell’artista su carta) è quella del partecipe-isolato. È dentro le cose dei suoi giorni […] e simultaneamente buttato sul suo tavolo da disegno, vinto dal sonno. Allora sogna. Ha incubi. Si sveglia tardi, spesso abbrutito. Legge, cita a memoria i dadaisti, soffre per amore, inventa efferati cinismi onirici, spiega come si possa star dentro a un flusso senza appartenervi. Descrive come la mente di un artista faccia i conti a ogni istante con il bagaglio di conoscenze che è riuscito ad associare al talento naturale» (p. 29).
Nel saggio si sottolinea come Pazienza inizialmente pubblichi non secondo le modalità della serialità narrativa ma, piuttosto, con la logica dell’esemplarità di ogni apparizione che si manifesta come un connubio «tra equilibrismo grafico ed eclettismo stilistico, passando nello spazio di una pagina dalla linea chiara a quella scura» (p. 29). Le tante fonti d’ispirazione vengono per certi versi da lui esasperate a livello esponenziale e le singole tavole finiscono per rappresentare un universo visionario autosufficiente che Cristante definisce efficacemente «Polaroid a fumetti di un proletariato giovanile in cui rientra uno dei profili di Andrea Pazienza» (p. 29).
Nel periodo in cui lavora a Pentothal, Pazienza introduce «una neo-lingua fattona-terrona» (p. 30) che utilizzerà, successivamente anche su “il Male”. Lo stile narrativo e grafico del giovane autore risulta fortemente autobiografico ed esistenziale e ciò lo differenzia da quello del francese Moebius, spesso citato in Pentothal. Pazienza rielabora «il postmodernismo futurologico di Moebius in un presente stralunato» (p. 30); le strampalate automobili del francese vengono riprodotte da Pazienza non per viaggi nello spazio ma per girare in un altrettanto stralunato paesaggio terrestre quotidiano. Mentre i personaggi di Moebius si presentano come creature eteree in ambientazioni future misticheggianti, «quelli di Pazienza corteggiano il fantastico solo per rientrare con l’equilibrismo dei surfisti in una terra presente, dove i dialoghi possono avere riferimenti alla realtà quotidiana o possono prendere le forme di un monologo interiore improvvisamente durissimo oppure, al contrario, audacemente lirico» (p. 31).
In Pentothal fanno capolino diversi personaggi e situazioni che si ritroveranno nelle produzioni successive dell’autore. Nel primo episodio si viene proiettati nella quotidianità del movimento bolognese del quale, per certi versi, Pentothal si sente sia parte che estraneo e, sostiene Cristante, a tale “bipolarità situazionale” finisce col rispondere con improvvisi “scarti laterali”. «Beh, sono cambiate molte cose dall’ultima volta, per cominciare il ragazzo si è inserito ed ora è più dentro che mai ai fatti della vita e al movimento degli studenti. Conosce diciassette slogans!» (p. 32).
Pentothal si presenta come una serie di flash improvvisi legati l’uno all’altro soprattutto dalla presenza dell’artista nei diversi frammenti. Nell’atmosfera onirica e alterata messa in scena dalle tavole, il protagonista ha ormai abbandonato ogni velleità eroica. Sulla falsariga di quanto proposto da Moebius, Pazienza ricorre a stralunati riassunti delle puntate precedenti e gioca su molteplici piani narrativi ricorrendo a citazioni colte e reinterpretando l’immaginario proposto da “Métal Hurlant”. «Dopo un paio di tavole moebiusiane (tavv. 72-73), Pentothal cade (forse da un albero) nel vuoto di un balloon che, nella tavola successiva, lo porta a precipitare in una realtà dove lo attendono Filippo Scòzzari – ritratto con il pennino appoggiato all’orecchio, in primo piano rispetto a due suoi tipici personaggi – e Stefano Tamburini, quest’ultimo con la maglietta della rivista “Cannibale” e l’ammissione di essere appena arrivato da Roma e di essere “sconvorto”. Quando la tensione narrativa sembra scemare, Pazienza si tira in piedi da solo attraverso il delirio demenziale: Le straordinarie avventure di Pentothal diventano allora Pentokan, la tigre della malora, un Sandokan che spara con mille armi difendendosi da attacchi totali, ma nella stessa tavola (tav. 118, a poche pagine dalla fine della narrazione) l’artista avvisa che torna a casa, “e nella mia casa tutto risponde ad un ordine preciso, ad un mio desiderio, è soddisfazione del mio desiderio. Qui sono al sicuro” […] “Ma a volte – prosegue –, di notte, si riaffaccia alla memoria l’immagine di quel giovane drogato [Zanardi] e penso: E se, nonostante tutto, fosse un eroe? Non esiste questa possibilità. E allora cerco di immaginare la sua vita, quali possano essere le sue abitudini. Come fa, quando va a qualche festa, se non ha un paio di calze pulite? Scherzo, ma, a ripensarci, come fa?”. “L’immagine del giovane drogato” annuncia narrazioni più ordinate e popolari – è proprio del 1981 la prima sconcertante avventura di Zanardi, Giallo scolastico, pubblicata da “Frigidaire” – ma il marchio del molteplice, la sua lieve e ancora non centrale architettura scritta, lo stesso lettering fantasioso e infantile e la precisione miniaturistica di tante inserzioni infilate nelle tavole, fanno di Pentothal un archivio visivo impareggiabile nella dimensione del “volontariamente incompiuto”» (pp. 34-35).
All’avventura di “Cannibale” ideata da Stefano Tamburini, danno manforte autori come Massimo Mattioli, Filippo Scòzzari, Andrea Pazienza e, successivamente, Tanino Liberatore. Nell’inverno del 1977, nel secondo numero della pubblicazione, quello delle “quattro copertine possibili”, Pazienza pubblica una storia che ha per protagonista una variante fricchettona di Pippo, il celebre personaggio disneyano, ricorrendo ad un tratto grafico che, sottolinea Cristante, cita esplicitamente lo stile di Robert Crumb, uno dei maestri dell’underground americano. «Il Pippo sballato di Pazienza rifiuta il lavoro […] Lo fa immergendosi in un ambiente degradato, una specie di avamposto fricchettone in mezzo al deserto» (p. 38). Toccherà a Topolino riportare a casa Pippo ma, suggerisce Pazienza, nonostante sia rientrato nei ranghi, Pippo non manca di fumarsi spinelli. «Siamo dunque così all’immagine capovolta del giovane hippie che conserverebbe un fondo di buon selvaggio rousseauiano: è quest’ultimo – nella declinazione disneyana del carattere di Pippo – a contenere invece la potenziale degenerazione fricchettona. Ecco infine svelato con questo rovesciamento il mistero dell’irregolarità di Pippo: nell’ultima vignetta appare chiaro “perché Pippo sembra sballato…” “Sembra sballato perché È sballato!”» (p. 40).
Sempre nel secondo numero di “Cannibale” Pazienza pubblica Prixicel!!, una storia in sette tavole di ambientazione fricchettona in cui acidi tagliati con la nitroglicerina fanno esplodere chi ne fa uso. Personaggi strafatti tornano anche nei numeri successivi di “Cannibale”: E per me un Anco Marzio (1978), Ma cosa succede? (1978), Agnus Dei (1979).
Francesco Stella è invece indicato da Cristante come personaggio interstiziale che Pazienza fa comparire in svariate occasioni e sotto diverse vesti. Per la prima volta Stella compare in otto tavole pubblicate su “Cannibale” nel 1979, nelle vesti di un operaio che sogna di esportare i pelati negli Stati Uniti, poi lo si incontra nelle otto tavole della storia rock-fantascientifica Vita e gite (1981) su “Frigidaire”, fino a ritrovarlo nei panni del tenente Francesco Stella, ex-maestro di tennis di Livorno, protagonista delle quarantotto tavole di Aficionados (1981), «una storia piuttosto eccentrica nel pur conclamato eclettismo di Pazienza: l’unità di misura non è la vignetta con i balloon, ma l’illustrazione commentata da una voce narrante, resa con il consueto e inconfondibile stampatello, sotto cui si aprono talvolta dei dialoghi a fumetti. L’incipit rivela una nuova disposizione nel lavoro di Pazienza: il trattamento è da racconto storico» (p. 44).
Su “il Male” del settembre 1979 compare, probabilmente per la prima volta, una vignetta di Pazienza ritraente l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Da quel momento, di tanto in tanto, il personaggio viene riproposto dall’artista anche sulle pagine di “Frigidaire”. «Nel caso degli sketch su Pertini, Pazienza si trova di fronte il problema di “serializzare” il Presidente, cioè di rendere un esponente politico – dal grande passato ed eletto alla massima carica dello Stato – un personaggio comico, capace di far ridere il lettore senza smentire il rispetto collettivo nei suoi confronti» (p. 52). Per qualche tempo Pazienza spinge sull’acceleratore del “rincoglionimento senile” del Presidente, dando vita a spassose vignette in cui l’ex-partigiano nel confondere le cose o i ricordi si lascia andare ad affermazioni surreali.
Nell’albo dedicato a Pertini il personaggio cambia e diviene un intransigente e collerico decisionista a cui Pazienza affianca «un altro personaggio, con caratteri contrapposti. Fisicamente è alto e dinoccolato, psicologicamente instabile e ingenuo fino alla demenza, pasticcione, codardo, debole di fronte a ogni minaccia. Questo partigiano si chiama Paz: è il pupazzo con cui si autoritrae l’autore, e che compare fin dalla prima tavola di Pertini. Il ruolo di Pazienza è quello del “luogosergente” di Pertini: un ruolo inesistente e surreale, su cui si addensano le apposite costruzioni del demenziale, fatte di incongruità spazio-temporali, missioni sabotate dall’incompetenza di Paz ed esplosioni di collera di Pertini. Dunque ora il cabaret fumettistico può contare su un duo comico – Pert e Paz – come da tradizione d’avanspettacolo» (p. 55). Su questa base l’artista inserisce una scrittura ricca di svarioni ortografici, giochi di parole e rime.
Nel 1979 Pazienza pubblica su “il Male” Il Partigiano, una surreale storia di resistenza all’invasione comunista nella sua San Severo nel foggiano di un personaggio dagli evidenti tratti autobiografici. Secondo Cristante «Il Partigiano è il transito tra Pentothal e Zanardi. La traboccante fantasia onirica di Pentothal si innesta sulla suggestione resistenziale abbandonando il tratto moebiusiano, preferendogli un eclettico miniaturismo che gioca con le trasformazioni del Partigiano, inseguendolo nella sua evoluzione da goffo improvvisatore a killer lucido e consapevole. Pentothal sogna e delira, il Partigiano gestisce il proprio delirio e Zanardi agisce esclusivamente in modo lucido e premeditato: la zona narrativa dove Pazienza decide di avventurarsi va maneggiata con cura e consapevolezza sempre maggiori» (p. 63).
Nel racconto breve Giallo scolastico (1981), ove appaiono personaggi come Zanardi (Zanna), Colasanti (Colas) e Petrilli (Pietra), l’unità di misura generale, sostiene Cristante, è la tavola, ma è nella vignetta che si ritrova la precisione; «una precisione grafica che consente a Pazienza di addomesticare i suoi pupazzi, a volte rendendoli parte di un mondo coerentemente morbido e infantile, a volte completando nei dettagli la loro fisionomia realistica e inserendoli in un mondo altrettanto realistico» (p. 66). Il racconto è composto da quattordici tavole, ad alto numero di vignette per tavola, in totale sono quasi centosessanta, «anche se alcune sono in qualche modo doppie, perché, senza confini grafici netti tra loro e mettendo insieme due situazioni contemporanee ma diversamente dislocate, ne enfatizzano la portata» (p. 66). La serie prosegue con numerose storie fino all’incompiuta Zanardi medievale (1988).
Zanardi rappresenta un personaggio importante nella produzione di Pazienza. Con esso, l’autore non si accontenta di ritrarre il mondo giovanile dell’epoca all’interno di una cornice noir; Zanardi si trasforma «in una declinazione di stati d’animo estremi, mettendo la sua estrema razionalità al servizio di imprese scaltre e buie […] brand di una devianza che si erge sopra ogni normalità» (p. 87).
Il personaggio Pompeo, un tossicodipendente capace di osservare il mondo in cui vive con un certo distacco, compare su “Alter” nell’aprile del 1985, pubblicazione che però, dopo poche uscite, decide di interromperne la collaborazione con l’autore. Grazie alle edizioni Grifo Pompeo giunge in libreria nel 1987. Gli ultimi giorni di Pompeo (1987) secondo Cristante può essere considerato un graphic novel di 116 tavole in cui a colpire, più che lo stile letterario, è «l’esibizione calligrafica realizzata con il pennarello [capace di creare] un lettering multiforme e attraente: dominante è lo stampatello maiuscolo, ma a tratti interviene con effetti di drammatizzazione un corsivo spigoloso e, quando è il momento di una lunga citazione poetica, si associano stampatello maiuscolo e minuscolo, oltre a un corsivo costruito su lettere di spessore diverso, a comporre una visione di parole graficamente tremolanti e oscure […] Pazienza scarica il suo inchiostro funambolico su foglietti quadrettati, i cui segni sono ben visibili nella stampa finale. L’opzione di mantenere il proprio segno ugualmente sofisticato pur in presenza di una superficie graficamente plebea come il foglio a quadretti amplifica le qualità del disegno stesso, e trasmette una misteriosa intimità al lettore, di nuovo messo a fianco del disegnatore a osservarne l’azione, mentre l’artista sceglie i suoi materiali e fa scelte impreviste, miscelando la guida sapiente del segno con risorse all’apparenza arrangiate e frettolose, figlie di un’urgenza» (p. 91).
Cristante analizza nei dettagli il mondo messo in scena da Pompeo a partire dalla prima pagina dell’opera definita dallo studioso metaletteraria e cross-mediale: metaletteraria perché viene citato un passo letterario all’interno di un’opera letteraria, e cross-mediale in quanto si cita il medium letteratura nel medium fumetto.
Campofame (1987) è invece un’opera, pubblicata in tre puntate da “Comic Art”, che Pazienza deriva da Hungerfield di Robinson Jeffers. Ad attrarre Pazienza, si sostiene nel saggio, è probabilmente il fatto che Jeffers con Hungerfield tenta di elaborare il lutto causato dalla perdita della moglie lo fa «affidandosi a una leggenda inaudita: un uomo, Hawl Hungerfield (Campofame), al capezzale della madre morente, decide di attendere la Morte e di affrontarla» (p.123). Mentre la prima parte di Campofame è potente, le ultime sette tavole risultano un po’ approssimative con un finale affrettato che differisce sostanzialmente da quello di Jeffers.
Nella prima parte del saggio l’autore mette in evidenza soprattutto l’abilità di Pazienza nel concepire e trattare testi e aggiunge: «l’opinione unanime degli esperti è che Pazienza possedesse una gamma di abilità che lo innalza automaticamente all’olimpo dei comics […] Precisione e rapidità di esecuzione sono proverbiali in Pazienza, e le vighnette sono quanto di più immediatamente spettacolare egli abbia realizzato. La fama di Pazienza, prima nel pubblico giovanile e poi anche in quello generalista, è costruita innanzitutto sull’impatto della sua unità di misura più piccola ed esplosiva, la vignetta» (pp. 140-142).
Il penultimo dei venti volumi dedicati all’opera di Pazienza, pubblicati nel 2016 da Repubblica-L’Espresso, intitolato Incompiute, presenta diverse tavole non finite. Tra queste ve ne sono alcune appartenenti ad Astarte, storia restata incompiuta a causa della morte dell’artista. Dalle dieci tavole, contenenti ottantacinque vignette, Cristante segnala l’altissima densità di inquadrature ed espressioni e la cura della lingua utilizzata, priva di strafalcioni ortografici o gramelot. «La conduzione autobiografica e ispirata dalla strada lascia il posto a un’affabulazione ampia e innovativa, condotta con vignette che hanno lo stesso formale principio ispiratore dei suoi precedenti poemi in prosa, come Pompeo e Una estate: testo sovrastante il disegno, rari balloon. In comune con altre opere, oltre a questa scelta di miniaturizzare la grande tavola scritta/illustrata, vi è poi ancora una volta la presenza della morte, annunciata fin dalla prima tavola» (p. 146).
Nella parte finale del saggio viene riproposta per intero una lunga composizione scritta da Pazienza, probabilmente durante il suo primo periodo da studente del Dams, in quanto da essa è possibile derivare numerose informazioni circa la poetica dell’artista: «la smania elencativa, la confusione voluta dei piani del discorso (arte-gusto-cibo-arte), la rapidità nell’afferrare uno scivolamento logico e trasformarlo in un’iperbole delocalizzata (dal pennarello alla lista dei fumettisti preferiti), il ritmo narrativo, la musicalità dei testi, gli accostamenti demenziali» (pp. 152-153). Inoltre, grazie a questo scritto di Pazienza si possono ricavare alcuni tra i numerosissimi riferimenti artistici e culturali che hanno in qualche modo influenzato la sua produzione: Pratt, Wolinski, Pichard, Parker & Hart, Quino, Mordillo, Schultz, Breccia, Claire Bretécher, Tristan Tzara, Marcel e Suzanne Duchamp, Man Ray, Hans Arp, Max Ernst, Arthur Cravan, Hugo Ball, André Breton, Vladimir Tatlin, Lacerba, Papini, Balla, Boccioni, Severini, Carrà, Marinetti, Sironi, Piero Manzoni, Pistoletto, Mondrian…
L’orizzonte espressivo di Pazienza è quello delle grandi trasformazioni che conducono agli anni Ottanta e l’artista testimonia i mutamenti «da una postazione inconsueta: quella del soggetto che si fa personaggio [entrando] nelle tavole a fumetti esibendo se stesso (o comunque un proprio avatar) sulla carta, portando a spasso i lettori in un multiverso spiazzante, letterariamente e graficamente più intenso e visionario di quelli moebiusiani perché costruito sui tasselli di un’identità sociale precisa (giovanile e universitaria) e perché capace di agire sul fronte demenziale della gag e della situazione narrativa, grazie all’assimilazione neo-dadaista e alla tendenza al polimorfismo stilistico, attraverso cui Pazienza rende pubblici i comportamenti di settori minoritari ma vistosi della gioventù» (p. 185).
L’arte di Andrea Pazienza «è stata in grado di imporre linguaggio e comportamenti, cioè immaginario collettivo in atto. Pazienza è arrivato a questo effetto disegnando se stesso e i suoi pensieri e poi infilandosi in un contesto prescelto, prima quello del Dams e di Pentothal, poi quello dell’ambiente fricchettone e fattone, poi quello dell’antropologia zanardesca, poi quello di Pompeo – per seppellire le proprie rovine – e infine quello, erudito e non meno sorprendente, della lavorazione di Campofame e di Astarte. A quest’ultima fase artistica appartiene il periodo trascorso a Montepulciano, caratterizzato dalla presenza rassicurante, intorno a Pazienza, non solo della moglie Marina ma dell’amico-editore Mauro Paganelli e di un gruppo di creativi eclettici, tra cui Moreno Miorelli, con cui prendeva confidenza diretta dell’arte rinascimentale nelle chiese e nei musei toscani» (p. 187). La voglia di sperimentare e sovvertire non è mai venuta meno nel corso della breve vita dell’artista… perché se la pazienza ha un limite, Pazienza di limiti davvero non ne aveva.