di Gioia Giudici
Fabio Pennetta, Boxe populaire, Agenzia X, Milano 2017, pp. 248, € 14.00
Proprio nei giorni in cui Forza Nuova ha lanciato un appello ai pugili per le sue ronde a caccia di migranti, esce in libreria un noir militante che toglie ogni sentore di fascismo alla nobile arte: è Boxe populaire – Pugni rosso sangue di Fabio Pennetta, che si autodefinisce “un discreto pugile delle palestre popolari autogestite”. Ed è da questo movimento dal basso, che negli ultimi anni ha sottratto lo sport alla logica del profitto per restituirlo alla sua essenza di strumento di crescita personale e collettiva, che nasce questo libro tutto milanese, dove in molti riconosceranno personaggi più o meno noti degli spazi sociali occupati.
Sono loro, con le donne e gli uomini che li fanno vivere, i veri protagonisti di un libro che inizia un venerdì pomeriggio, quando il giornalista Stefano Calligari, detto Il Callo, riceve una telefonata dalla Questura: nella palestra occupata di via Torricelli – gli dicono – gli squatter anarchici organizzano incontri clandestini, e questa volta c’è scappato il morto. Il cronista, precario e declassato dal cartaceo al web, intravede la possibilità di tornare tra quelli che contano risolvendo il caso e criminalizzando i pugili militanti, ma proprio loro gli mostreranno come sia facile deformare la realtà e come sia triste perdere i propri sogni per la strada. Il Callo, che ai tempi dell’università era un ribelle, raggiunti i quarant’anni si è impigrito fin quasi a non rendersi conto di essere lui stesso al servizio di un sistema che non rinuncia comunque a criticare. Scrive dei centri sociali come nemmeno un tesserato di Fratelli d’Italia, ma non crede a ciò che si ostina a pubblicare; si indigna per il fatto di essere sfruttato ma poi è il primo a sfruttare un poveraccio che ha trasformato in tuttofare in cambio di vitto e alloggio. Il Callo non è cattivo, il guaio è che non ci pensa. Ed è questo il grosso scoglio – è una delle riflessioni che suscita la lettura del libro di Pennetta – contro cui si scaglia l’onda dell’attivismo: la disillusione che si trasforma in apatia, nel “mi bastano il divano e l’ultima serie di Game of Thrones”. Ma poi c’è l’occasione che cambia tutto: nel libro è un allenamento aperto al parco, nella vita è un amico che ti porta in una palestra popolare, magari una di quelle la cui storia è narrata in appendice, posti come Torricelli a Milano, l’Antifa boxe legata ad Askatasuna, la Vincenzo Leone di Napoli o la Sanpietrino di Firenze. Luoghi dove vigono parole d’ordine come antifascismo, antirazzismo, antisessismo, che si traducono in rispetto di sé e degli altri. Posti dove esplorando i propri limiti si imparano a rispettare gli altrui confini. Luoghi dove la parola “compagni” perde ogni vecchiume e si trasforma in impegno vero. Al Callo – complice anche l’incontro con un’affascinante boxeuse francese – bastano tre giorni per capire tutto questo e togliersi di dosso la maschera da milanese imbruttito. Settantadue ore in cui tornerà un giornalista serio, alla ricerca della verità anche se non collima con la linea editoriale del suo giornale, indosserà i guantoni, prenderà qualche pugno e alla fine si scoprirà decisamente meglio di quanto credeva.
Che la storia del Callo sia quella di chiunque si avvicini per la prima volta alla boxe popolare lo si scopre appena il noir cede il passo a una mappa narrativa delle palestre autogestite. È un colloquio immaginario tra un allenatore e un neofita quello scelto per presentare la pratica sportiva promossa dal Lambretta: dal primo, timido, ingresso in palestra alla pratica come passione, dalle assemblee in giro per l’Italia agli incontri sul ring con i compagni che fanno il tifo, fino alla consapevolezza del pugilato come esercizio di coscienza di classe. Perché “quando l’ingiustizia diventa legge – è la citazione di Brecht presa in prestito da Pennetta – la resistenza diventa un dovere”.