di Gioacchino Toni
All’interno di una raccolta di scritti stesi nel corso degli anni Sessanta e Settanta, uscita in lingua italiana con il titolo Sul guardare (Il Saggiatore, 2017), John Berger dedica un’interessante riflessione su alcuni ritratti fotografici realizzati da August Sander, tratti dalla raccolta Uomini del Ventesimo secolo, analizzando il rapporto tra abiti e classe sociale di chi li indossa.
L’analisi prende il via da una celebre fotografia del 1914 di Sander che ritrae tre giovani contadini diretti a una festa con abiti eleganti. A queste date, premette lo studioso, i tre possono dirsi appartenenti alla seconda generazione di contadini che nelle campagne europee hanno potuto indossare tale tipo di abbigliamento, cosa che soltanto qualche decennio prima sarebbe stata loro economicamente preclusa.
Pur trattandosi di un abbigliamento non certo proletario, in Europa occidentale per buona parte del Novecento è abbastanza frequente che i contadini e gli operai indossino abiti scuri completi di panciotto nei giorni di festa o nelle occasioni ritenute speciali. Osservando con attenzione l’immagine, però, secondo Berger, c’è qualcosa che tradisce il ceto sociale di appartenenza dei tre, qualcosa che impedisce loro di essere confusi con appartenenti alla borghesia e non si tratta certo della qualità del tessuto o del taglio sartoriale, poco distinguibili in una fotografia in bianco e nero di questo tipo.
Prendendo in esame anche altre fotografie simili di Sander, è possibile notare, continua lo studioso, come le anatomie, le posture ed i volti dei soggetti contadini non vengano del tutto mascherati dagli abiti borghesi. Solitamente, continua Berger, almeno a queste date, i contadini presentano corpi modellati dal duro lavoro fisico che svolgono e tradiscono un «ritmo corporeo caratteristico […] direttamente collegato all’energia richiesta dalla quantità di lavoro da svolgere in una giornata [ritmo che] si riflette in movimenti e posture del corpo inconfondibili. È un ritmo ampio e prolungato» (p. 54), inoltre tendono ad esibire una «dignità fisica tutta loro» derivata dal mostrasi abituati allo sforzo ed alla fatica.
Il completo maschile prende piede nell’Europa degli ultimi decenni dell’Ottocento «come abito da lavoro della classe dirigente. Anonimo quasi al pari di un’uniforme, fu il primo abito della classe dirigente a consacrare un potere puramente sedentario: il potere dell’amministrazione e del tavolo da conferenza. Fondamentalmente, questo vestito è concepito in funzione dei gesti che accompagnano la parola e il calcolo astratto» (p. 54). Si tratta dunque di un tipo di abbigliamento decisamente differente rispetto a quello utilizzato fino ad allora dai ceti superiori; gli indumenti indossati precedentemente erano stati pensati in funzione di attività come la caccia e l’equitazione, mentre il completo a giacca, lanciato dal gentleman inglese, tende a limitare i movimenti. Dal finire dell’Ottocento, ed in maniera ben più marcata a partire dal termine della Prima guerra mondiale, il completo maschile inizia ad essere prodotto su larga scala tanto per le grandi masse urbane che per i mercati rurali.
Tornando alle fotografie di Sander, risulta stridente, sottolinea Berger, l’abbinamento di corpi strutturati dall’abitudine alla fatica, a movimenti ampi e prolungati, con abiti nati per idealizzare la sedentarietà. L’abbigliamento tradizionale da lavoro o da cerimonia indossato dai contadini tendeva, invece, a rispettare le caratteristiche dei corpi che rivestiva; generalmente si trattava di abiti dai tagli sciolti, volti a permettere una certa libertà di movimento. «Erano l’antitesi degli abiti sartoriali, tagliati per seguire la forma idealizzata di un corpo più o meno statico» (p. 55).
Non solo nessuno obbligava i contadini ad acquistare e indossare completi borghesi ma, stando alle fotografie, questi si mostrano decisamente orgogliosi di vestirli ed è qui che, sottolinea Berger, può essere colto un mirabile esempio di quella che Antonio Gramsci indicava con egemonia di classe. «I contadini – e, se pur in modo diverso, gli operai delle città – furono persuasi a scegliere questo nuovo tipo di abito. Dalla pubblicità. Dalle fotografie. Dai nuovi mezzi di comunicazione di massa. Dai commessi viaggiatori» (p. 56). Berger ricorda anche come in occasione dell’Esposizione Universale parigina del 1900, fossero stati, per la prima volta nella storia, invitati ad un grande banchetto tutti i sindaci francesi, molti dei quali provenienti da piccoli paesi rurali e come per l’occasione la stragrande maggioranza di essi indossasse il completo a tre pezzi a riprova del fatto che, per le occasioni importanti, l’abito completo fosse ormai da intendersi d’obbligo.
Le classi lavoratrici – ma in questo i contadini si mostrarono più semplici e ingenui degli operi – si convinsero a adottare come propri i criteri della classe dirigente, nel caso specifico i criteri di eleganza sartoriale e di gusto. Al tempo stesso, l’accettazione di quegli standard, il conformarsi a quelle norme che nulla avevano a che fare né con la loro tradizione né con la loro esperienza quotidiana, li condannò, all’interno di quel sistema normativo, a essere sempre, e in modo riconoscibile per le classi superiori, mediocri, goffi, ordinari, insicuri. Ed è proprio così che si soccombe all’egemonia culturale (p. 56).
In conclusione lo studioso ama immaginare che, una vota giunti alla festa, magri dopo qualche birra, i tre giovani contadini, abbiano riposto le cravatte ed appese le giacche su qualche sedia per lasciarsi andare più liberamente nelle danze fino all’alba, coincidente però con l’avvio di una nuova e dura giornata di lavoro nei campi.
Le riflessioni di Berger sulle foto di Sanders sono oggettivamente acute e interessanti anche se non mancano di mostrare parzialità e limiti in parte dovuti al fatto che lo scritto in questione è stato steso nei primissimi anni Settanta e in parte addebitabili ad un approccio derivato dal concetto gramsciano di egemonia tendente a sottostimare i livelli di autonomia presenti nelle scelte e nelle pratiche della classe sociale proletaria.
Circa le parzialità determinate dalla data di stesura del pezzo (1972) occorre ricordare che proprio in quel periodo la centralità, anche a livello di immaginario, conquistata a suon di lotte e insorgenze, da parte del proletariato, ribalterà per certi versi i giochi; tanto che sarà la classe borghese a manifestare palesi derivazioni dall’abbigliamento proletario inaugurando un meccanismo di ripresa della moda dei ceti più bassi che non è venuto meno nemmeno con l’affievolirsi dell’offensiva operaia. Ancora oggi, nella smania della moda di proporre sempre più frequentemente novità per sostituire con nuove merci quelle vendute precedentemente, il citazionismo dell’abbigliamento nei confronti del mondo proletario o sottoproletario di certo non manca e gli street style sono da tempo diventati una fonte importante da cui attingere da parte di diverse categorie merciologiche indirizzate a compratori di certo non solo di estrazione popolare.
A proposito dei limiti del concetto di egemonia applicato da Berger, risulta utile rimandare alle riflessioni proposte da James C. Scott nel suo Il dominio e l’arte della resistenza (Elèuthera, 2006) [su Carmilla], tese a denunciare come le tesi basate sul concetto di egemonia gramsciano, soprattutto nella loro forma forte, fatichino a spiegare i sommovimenti sociali provenienti dal basso.
Se le élite controllano la base materiale della produzione cosa che permette loro di estorcere conformità di comportamento, e controllano anche i mezzi della produzione simbolica, assicurando così la legittimazione del proprio potere, il risultato dovrebbe essere un equilibrio che si auto-riproduce, che solo un urto esterno può compromettere. […] Se l’esistenza del conflitto sociale è un problema per le teorie sull’egemonia nelle società contemporanee, diventa una contraddizione insanabile quando le teorie vengono applicate alla realtà storica delle società contadine, o alla schiavitù e al servaggio (p. 109)
Il fatto che i dannati della terra abbiano storicamente avuto difficoltà a immaginare assetti sociali diversi da quelli conosciuti, non ha di certo impedito a questi di immaginare il completo rovesciamento dello status quo, tanto che il tema millenaristico del mondo capovolto, ove i primi e gli ultimi si invertono di ruolo, lo si ritrova nelle principali tradizioni culturali in cui sono state messe in discussione le disuguaglianze di potere, ricchezza e status.
Sul piano storico […] non ci sono prove per accreditare una teoria dell’egemonia, forte o debole che sia. Gli ostacoli alla resistenza, e sono molti, non possono semplicemente essere attribuiti all’incapacità dei gruppi subordinati di immaginare un ordine sociale alternativo. Essi immaginano sia il capovolgimento che la negazione della dominazione cui sono sottoposti e, fatto più che mai importante, hanno agito conformemente a questi valori, per disperazione o in rare occasioni perché le circostanze sembravano favorevoli […] l’immagine del diciassettesimo secolo che rappresenta il signore costretto a servire un villico seduto alla tavola imbandita era destinata a evocare simpatia più tra le classi rurali che tra i loro superiori sociali (p. 113)
Il fatto che i gruppi subordinati abbiano frequentemente immaginato il ribaltamento dei ruoli sociali sta a testimoniare come questi non siano poi così normalizzati dai discorsi delle élite che intendono convincerli dell’immutabilità sociale. Scott si interroga circa il motivo per cui le teorie dell’egemonia e dell’integrazione ideologica siano riuscite ad esercitare così tanto fascino su storici e sociologi.
Nel mondo strutturale-funzionale della sociologia parsoniana, i gruppi subordinati arrivano naturalmente ad accettare i principi normativi dell’ordine sociale, senza i quali la società non potrebbe esistere. Nella critica neo-marxista [tendente a seguire il concetto di egemonia gramsciano] viene ugualmente dato per scontato che i gruppi subordinati abbiano interiorizzato le norme dominanti, con la differenza che tali norme vengono viste come una falsa rappresentazione dei loro interessi oggettivi. In entrambi i casi, l’integrazione ideologica produce stabilità sociale: nel primo questa stabilità è positiva, mentre nel secondo è ciò che permette la continuazione dello sfruttamento di classe (p. 117)
Il motivo per cui questa idea dell’integrazione ideologica ha tale risonanza a livello storico, conclude Scott, deriva forse dal fatto che gli studiosi si sono a lungo ostinati a prendere in considerazione il solo “verbale pubblico” offerto dal potere con l’intenzione di mostrare accettazione e complicità da parte delle classi sociali inferiori. Accanto alla narrazione ufficiale del “verbale pubblico” esiste però anche un “verbale segreto” proprio dei dominati, tenuto segreto per opportunità dettate dai rapporti di forza sfavorevoli e la mancanza di analisi di quest’ultimo verbale comporta un’idea di egemonia totale detenuta dal gruppo dominante.
Tornando alle fotografie di Sander da cui siamo partiti, nel desiderio dei contadini di indossare l’abito borghese nei giorni di festa è ravvisabile esclusivamente la resa dei sottomessi al potere? Chi è obbligato ai movimenti dettati dal lavoro quotidiano, nell’indossare abiti borghesi creati per palesare l’esenzione da un lavoro fisico faticoso, non manifesta forse anche un diritto all’inattività?
La rappresentazione dei sottomessi come classe in totale balia della borghesia rischia di annullare di fatto l’idea che il conflitto, seppure a intensità variabile in base ai rapporti di forza, è pur sempre presente. Accettare l’idea che vuole i subordinati totalmente succubi del potere e delle sue narrazioni significa, per certi versi, negare loro ogni possibilità di autonomia, dunque negarli in quanto classe sociale capace di emanciparsi senza un provvidenziale intervento esterno.
Visto che non si era al superamento delle classi sociali all’epoca della fotografie di Sander e non lo si era nei primi anni Settanta, quando ne scrive Berger, se non si vuole rischiare di scivolare nel mito della fine della storia, sarebbe importante cogliere la presenza di elementi di autonomia anche nelle condotte più contraddittorie di quanti si trovano in una condizione di subalternità.