di Alessandro Cartoni
Alessandro Morbidelli, Storia nera di un naso rosso, Todaro editore, Lugano, 2017, pp. 170, € 15,00
Appare riduttivo definire “noir” il nuovo romanzo di Alessandro Morbidelli Storia nera di un naso rosso. Ci è parso piuttosto un congegno narrativo che ha il potere di lanciare una poderosa domanda su quello che intendiamo per verità e realtà. Il libro è costruito intorno a sei capitoli che possono valere anche come testi autonomi ma tutti in focalizzazione interna e in prima persona e scavano nell’identità di un uomo, un medico, tal Angelo Cantiani che lavora in un reparto di oncologia pediatrica a Milano.
Ora Angelo è anche un clown, Willy, che partecipa a un gruppo di clownterapia per bambini malati terminali, l’atmosfera tragica e grigia dell’ospedale si collega presto alla sua vita privata, lacerata da una profonda separazione e da un evento imprevisto e casuale che segnerà la sua esistenza.
Cinque donne, legate a lui per motivi diversi, parlano sempre in prima persona negli altri capitoli e si interrogano sul medico, sulla sua vita ma anche sulle loro personali scelte legate comunque al mondo del protagonista. Emergono tematiche eterne quali la scelta, la responsabilità, il senso del castigo. In un crescendo, che ha qualcosa della tragedia classica, il testo pone il problema della colpa e poi in un effetto domino quello di altre colpe – perché nessuno è fuori dalla colpa – di altri personaggi, come se le relazioni e gli incastri delle vite generassero alla fine una ineludibile domanda sul bene, su ciò che è il bene, che però circoscrive solo una casella bianca.
Questa onestà morale ci pare importante, tanto più considerando la distanza che separa ormai Morbidelli dal suo primo romanzo Ogni cosa al posto giusto, dove la tematica morale era risolta e soddisfatta in modo sicuramente più tradizionale: Bruno Pedrini a suo modo, come Dio, ristabiliva la giustizia. Angelo Cantiani tuttavia non è Bruno Pedrini e la sua figura non assolve a questa funzione, anzi semmai le sue intenzioni sarebbero moralmente positive. Ma come sappiamo “il pavimento dell’inferno è lastricato di buone intenzioni” e pare davvero di veder comparire Goetz de Il diavolo e il buon Dio di J. P. Sartre, che osserva con orrore il rovesciarsi del bene nel male.
Anche qui nella storia nera del naso rosso scompare il punto di riferimento, il palinsesto morale, proprio perché la soggettiva di ogni personaggio traccia pirandellianamente la sua parte di verità che è pero la “sua” verità totale. Ora molte verità soggettive non fanno una verità. Il romanzo diventa allora un gioco delle parti dove alla fine al posto del vero domina il caso, che è forse il vero deus ex machina della realtà. Il caso risolve le vite, le questioni morali e anche le vendette. Un disegno finale non c’è, almeno non umano, quello che si vede nel paesaggio dopo la battaglia è solo il teatro di vite che si sono giocate, ognuna con la sua passione, con la sua ricerca, con la sua verità. Come dice “la madre” nel penultimo capitolo: “Alla fine ho compreso. Che nella vita non ci sono colpe, soltanto azioni e conseguenze”.
Due altre questioni pone il romanzo che val la pena sottolineare, quella del doppio e quella dell’oggetto simbolico. Il doppio si incarna in Willy, il clown, che dietro la maschera fa trapelare un mondo di ombre e oscuri presagi che irridono l’identità del medico e la oltrepassano verso una personalità altra forse foriera di atti malvagi e imperscrutabili. Poi la presenza del naso rosso che circola nel romanzo come un segnale, di cosa? Difficile dirlo. Della inconsistenza della realtà? Delle certezze? Della serietà? Del bene? Tutto può essere, ma allora il naso rosso, in questo romanzo senza chiave, concedendoci un volo ottimista, perché non dovrebbe simbolizzare l’amore che risiede in ogni azione umana?
“Quanto può far male l’amore? Quanto può distruggere? Ogni cosa. Dobbiamo essere sempre attenti al dolore di chi ci circonda, perché il fatto che questo ci sia è l’unica certezza che abbiamo.”