di Giovanni Iozzoli
Lada Žigo, Roulette, Edizioni Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 216, € 16,00
Esiste una ricca letteratura sul rapporto tra il gioco d’azzardo e la condizione umana – nella sua singolarità, nella sua imprevedibilità, nella sua morbosa componente di rischio. Dostoevskij ne è il prototipo classico, ma anche per Mark Twain, Pirandello e molti altri, il tavolo verde è stato un richiamo importante, non solo letterario.
Lada Žigo non ha paura di affrontare un territorio narrativo così ben frequentato. Il suo sforzo è sottrarre al gioco d’azzardo ogni fascinazione “esistenziale”, ogni residua nobiltà letteraria, per ricondurlo al suo ruolo di cruda metafora dell’economia contemporanea, simbolo malato della modernità e del capitalismo finanziario.
In Roulette, la polemica anticapitalista e antinazionalista trasuda da ogni pagina. Siamo dentro una narrazione fortemente ed esplicitamente politica, con un piglio polemico che non siamo più abituati a vedere dalle nostre parti. Il suo antieroe – ludopatico e instabile ex volontario delle milizie croate – è una specie di manifesto ambulante dell’inganno nazionalista: ha combattuto per una piccola patria che, appena costituitasi, ha generato gerarchie fondate sul malaffare, lo sfruttamento, la clientela, lasciandosi dietro le spalle proprio i combattenti che avevano creduto nelle bugie patriottiche.
«Vada a chiamare i pesci grossi, i veri giocatori, i nostri politici e gangster, lo sa di cosa sto parlando? Il dado è tratto, i ladri si sono presi la posta e la roulette del popolo gira solo per finta, così, per inerzia. Ho combattuto per questa terra, correvo in mezzo ai proiettili, avevo una direzione, mi capisce, una direzione, l’obiettivo era di salvare qualcuno, e poi hanno venduto il mio paese e ci hanno schiaffato le sale slot e ci lasciano ammazzare l’anima sulla maledetta ruota. Così vediamo le nostre piccole pensioni e le nostre paghe divorate dai numeri, fissiamo lo sempre lo stesso punto come le pecore» (p. 13).
La Croazia descritta da Lada Žigo, è un non luogo in cui persino la “sacra lingua croata” lascia il posto a una galoppante americanizzazione – dalle insegne dei negozi allo stile di vita. E cosa c’è di più “americano” di una sala giochi e delle fredde luci delle sue slot machines? In quest’epoca di squallore tecnologico, persino il fascino decadente della roulette, con il suo tappeto verde su cui si adagiavano ansie e desideri di gentiluomini inquieti, lascia il posto a un aggeggio elettronico davanti a cui sfila un’umanità derelitta in cerca di riscatto. Non si entra nella spirale del gioco per l’insofferenza esistenziale, ma nella speranza di ripagare un debito, trovare i soldi per l’affitto, rendere un po’ meno grama un’esistenza proletaria che si rianima solo davanti ai neon colorati della sala.
Il libro si apre su una scalcagnata seduta psichiatrica collettiva per ludopatici, nel reparto di terapia comportamentale di un grande ospedale. Una umanità dolente squaderna le sue angosce davanti a uno psichiatra poco più sano di loro, che non vede speranze nella sua missione riabilitativa:
«erano anni che si paravano davanti dei giocatori… odiava il suo lavoro, diviso tra il desiderio di aiutarli e l’impossibilità di sciogliere i loro debiti. Gli sembrava che il suo campo rimanesse incolto, senza frutti, il materiale vinceva sullo spirituale. La sua professione non aveva senso: arava nel deserti, seminava sementi, ma anche quando qualcosa cominciava a germogliare, rimaneva e sarebbe rimasta sempre malerba. Debiti. Centinaia. Migliaia. Milioni» (p. 15).
Ante, il protagonista, uno del gruppo, danza sbilenco lungo le strade sconnesse di Zagabria, tra i mai sepolti ricordi di guerra e quelli ancora precedenti, legati al ricordo di una vita normale. Il massimo a cui puntare è inventarsi le ragioni quotidiane per stare al mondo, senza speranze, senza prospettive, nella certezza che la Madre Croata non concede riparo o riscatto, ai suoi cittadini che non hanno saputo convertirsi prontamente ai valori della società di mercato.
«Tutto era calmo nella silenziosa metropoli mitteleuropea; nell’apatia gli sembrava che risuonasse soltanto un imperativo: non hai niente. Sul mercato ci sono 500.000 disoccupati. Non aspettare! Non c’è nessuna possibilità! Gioca! Non hai altro. Gioca il tutto per tutto!» (p. 23).
Le anime febbrili che affollano le sale slot di Zagabria, inventano dei tortuosi deliri numerologici per dare un senso all’esistenza: i numeri della roulette elettronica diventano divinità del destino, quasi sempre malevole, intorno alle cui misteriose sequenze improvvisare la vita. Ma:
«La somma di tutti i numeri sulla roulette è 666. Il numero di Satana. Aveva combattuto in guerra, aveva puntato sul rosso e sul nero, sul sangue e sulla morte, e poi aveva capito di essere stato tradito» (p. 24).
Nel suo vagabondare insensato, l’ex soldato Ante incontra altri relitti umani, devastati dal gioco e dalla miseria: l’ex custode della sua vecchia scuola, un’antica amante opportunista, una cognata forse amata, distrutta dalla povertà, dalla malattia e dalle crudeltà di un marito – il fratello del protagonista – furbo, fedifrago e imboscato.
Ante è l’esatto opposto dei tipi umani che dominano il paesaggio balcanico in questi tempi: non è astuto, ha ancora un po’ di cuore, e si è giocato la vita puntando sulla Patria – accorgendosi solo anni dopo che la partita era truccata.
Nel suo delirio cabalistico anche Ante elabora un percorso di autodistruzione lungo il quale dovrà regolare tutti i conti rimasti in sospeso. Ad ogni numero su cui scommettere, corrisponderà un obiettivo da colpire: il maggiore che lo dirigeva verso i massacri, che si è rifatto una piacevole esistenza da civile; il direttore della segheria da cui è stato licenziato; il fratello stesso, simbolo cinico della Nuova Croazia. E a coronamento di tutto, con l’uscita solenne del numero zero, Ante programma il suicidio finale che dovrebbe riscattare e nobilitare una vita sbagliata.
Naturalmente tutto si combinerà in modo opposto agli sbrindellati programmi di vendetta dell’ex miliziano: non solo non riuscirà a portare un po’ di giustizia nel suo mondo, ma il destino gli precluderà anche il privilegio di un suicidio onorevole. Nella sua sfortuna cronica lo ritroveremo, dopo essersi sparato un colpo di pistola in petto, di nuovo nel reparto di terapia comportamentale, là dove la storia era cominciata. Il proiettile l’ha paralizzato senza ucciderlo. Il solito psichiatra cerca di convincerlo che è andata bene così – fedele al mandato di medicalizzare il disagio sociale e la povertà, che è una delle caratteristiche del presente, non solo in Croazia.
Intanto Ante, il protagonista, sente che la sua febbre di vendetta si è placata. Nuovi guai lo attendono all’orizzonte, mentre: «scivolava sulla carrozzina stordito, vuoto, senza cercare più alcuna spiegazione al caos del mondo» (p. 215).
Sta crescendo una generazione di (giovani e meno giovani) narratori jugoslavi – probabilmente alcuni si sentono davvero tali – che stanno provando a raccontarci i Balcani, facendoli uscire dalla zona d’ombra in cui la cattiva coscienza europea li ha confinati fino ad oggi. In una nota iniziale, l’autrice dedica il libro all’esercito crescente degli sconfitti della società croata, poveri, precari, disoccupati, che ormai trovano nelle sale slot – che spuntano ad ogni angolo di strada, a Zagabria – l’unico approdo per le loro vite lacerate. L’autrice si chiede: «Ma è possibile sconfiggere la maledetta roulette che gioca con le speranza, così come la nostra società gioca con le esistenze?» (p. 6).
Domanda retorica. Diciamo che è possibile produrre della buona letteratura impregnata di realismo e motivazioni civili; è possibile smascherare le ideologie della guerra e della competizione; è possibile senz’altro raccontare con crudezza il vero volto delle società post-socialiste, senza nostalgie, ma con la certezza che la modernizzazione capitalistica non è mai un buon affare per la povera gente.
Quando tra qualche decennio si vorrà indagare sull’anima balcanica, bisognerà ricorrere alle storie squinternate dei suoi perdenti, raccontate da autori sinceri come Lada Žigo.