di Piero Cipriano
Io ho una mia teoria sugli psichiatri che si specializzano – solo – in farmaci o elettrochoc. Se li guardi in faccia quasi mai ricambiano lo sguardo. Guardano di sbieco, o in alto, o in basso, come avessero gravi deficit relazionali, l’empatia non ne parliamo, è per questo, secondo me, che invece di stare con il paziente, comprenderlo, ascoltarlo, parlarci, calarsi nel suo dolore, restituirgli un po’ di speranza, preferiscono somministrargli farmaci o corrente elettrica. È una mia teoria, si capisce. Ma confortata da quasi vent’anni di frequentazione del mondo psi. È per questo che non potevo fare il farmacologo o lo scioccatore, nonostante avessi iniziato la mia carriera proprio con questo tipo di psichiatri.
Eppure provengo da quel mondo. Il mondo della psichiatria biologica, organicista, basata su diagnosi descrittiva di marca americana (DSM) e psicofarmaci. La mia tesi di laurea ebbe questo titolo, che dice molto, sul tipo di psichiatria che frequentavo, e di cui ero diventato molto esperto: Allucinazioni uditive e giro temporale superiore nella schizofrenia – uno studio quantitativo RMN. Conoscevo i farmaci, li conoscevo molto bene. Talmente bene che nessuno avrebbe potuto convincermi che sapevamo quale fosse il meccanismo d’azione, e che tutto sommato non continuavamo a somministrarli ex adiuvantibus – a giovamento – un po’ alla cieca. Fu nel periodo della mia formazione universitaria che venni cooptato nell’ambìto gruppo elettrochoc. Eravamo in quattro a farne parte: il professore, l’anestesista, e due studenti. L’altro studente che non ero io al primo elettrochoc cui assisté, appena il povero cristo ebbe la convulsione, crollò al suolo svenuto. Non volle più continuare a vedere elettrochoc. Velocemente fu sostituito da un altro. Per fortuna pure io fui presto sostituito, dopo quattro o cinque elettrochoc cui partecipai, più che altro come spettatore, perché fui chiamato a fare il militare. Solo che presi la via dell’obiezione di coscienza, e feci in modo di farmi assegnare a un centro diurno psichiatrico di Montevarchi, dove c’erano stati i basagliani, e così conobbi un altro tipo di psichiatria, e lasciai per sempre gli elettroscioccatori, i farmacisti, gli organicisti, i neokraepeliniani.
Qual è il motivo della persistenza, altrimenti immotivata, di questa pratica?
Molti pazienti, dopo anni di assunzione di antidepressivi, non ne riportano più alcun beneficio. Viene ormai definita sindrome tardiva da antidepressivi. Accade sempre più di frequente che dopo dieci o quindici anni di somministrazione, senza interruzione, di psicofarmaci ai pazienti, il loro cervello cambia in un modo che noi ignoriamo completamente. Perché accade, con gli antidepressivi detti Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina (SSRI), un po’ quello che succede con la cocaina, o la L-dopa, o le benzodiazepine. La prima somministrazione è la migliore. All’inizio c’è una vera e propria luna di miele con la cocaina, o con gli oppiacei, o con gli antidepressivi SSRI, o con le benzodiazepine. Ma poi, gradualmente, essi modificano i vari recettori cerebrali, e l’effetto si attenua, e bisogna aumentare viepiù il dosaggio. Vediamo i tre casi: gli antipsicotici, gli antidepressivi, e gli ansiolitici.
Nel caso degli antipsicotici, dopo alcuni anni, si sviluppano le cosiddette psicosi da ipersensibilità. Ovvero psicosi che si sviluppano proprio perché abbiamo somministrato antipsicotici a persone che avevano avuto un primo episodio di psicosi. È un paradosso. Ma accade. Significa che se i pazienti, dopo un primo episodio di psicosi, vengono aggrediti farmacologicamente con antipsicotici, ad alti dosaggi e senza scalarli e sospenderli appena la crisi psicotica è risolta, si determina un nuovo equilibrio nel cervello, per cui quei pazienti, per non incorrere in ricadute, hanno bisogno di assumere per tutta la vita antipsicotici a dosaggi importanti.
Un caso mio personale. E lo so che l’aneddotica non costituisce una prova. Ma ne ho moltissimi di questi casi. Una donna di sessantacinque anni, che ho avuto in cura per circa due anni. A trent’anni, dopo la nascita del figlio, ha un episodio di psicosi, forse post-parto. Viene ricoverata in una clinica e trattata con un antipsicotico deposito (o long-acting), il Moditen Depot. Che assume per trent’anni. Senza che nessun medico prenda mai l’iniziativa di ridurlo, sospenderlo, o modificarlo con qualche altro farmaco più nuovo, pur trascorrendo questa donna molti anni senza sintomi. Finché, dopo trent’anni, su richiesta del figlio, e della paziente, le tolgo il farmaco, sostituendolo con un nuovo antipsicotico, a basso dosaggio, e per via orale. Dopo pochi mesi la paziente ha una ricaduta. Dopo trent’anni di quel farmaco il suo cervello non ha tollerato la rottura di quell’equilibrio.
Poi vi sono le depressioni da supersensibilità. O le sindromi tardive da antidepressivi. Anche gli antidepressivi, dopo dieci quindici o vent’anni, smettono di funzionare, determinando forme depressive resistenti a qualunque trattamento farmacologico. La causa delle sempre più frequenti forme depressive resistenti agli antidepressivi è la somministrazione, a pioggia, di farmaci antidepressivi, da parte anche di medici di base o di neurologi o di altri specialisti, antidepressivi prescritti per qualunque forma di tristezza, per lutti, o per depressioni sotto soglia. E’ lapalissiano che meglio sarebbe prescrivere l’antidepressivo quando veramente è necessario – depressioni gravi e con idee di suicidio – alle dosi minime efficaci e per periodi limitati (alcuni mesi), e quando il paziente sta meglio iniziare la riduzione del dosaggio. Invece gli psichiatri vengono formati (negli innumerevoli convegni sponsorizzati dalle case farmaceutiche) a trattare i pazienti depressi con un dosaggio uguale per tutti, e minimo sei mesi al primo episodio e per tutta la vita dopo il terzo episodio. Ma ciò è sbagliato.
Invece accade che molti psichiatri, ai pazienti divenuti resistenti agli antidepressivi, che non sanno più con quali altri farmaci trattare, li inviino a fare gli elettrochoc.
Dunque cosa determina il ritorno dell’elettrochoc?
La psicofarmacologizzazione di massa crea un esercito di persone resistenti ai farmaci (un po’ come per gli antibiotici, assumerli per motivi sbagliati – influenza, raffreddori, eccetera – li sta rendendo viepiù inefficaci, selezionando ceppi di microrganismi antibiotico-resistenti). Ma il rimedio (l’elettrochoc) per i danni causati dai farmaci, aggiunge danno al danno. È due volte iatrogeno. È l’accanimento terapeutico degli psichiatri, che non sapendo che fare strafanno, prima coi farmaci, presi dall’ebbrezza che finalmente anche loro hanno i farmaci per curare le malattie, e quando i farmaci smettono di funzionare passano alla corrente elettrica, ritornano alla terapia convulsiva.
Questa terapia aveva forse senso negli anni 30-40-50 del secolo scorso, quando la psichiatria era del tutto priva di trattamenti somatici, e brancolava nel buio, e dunque qualcosa doveva provare, e una terapia ex adiuvantibus basata sull’ipotesi che schizofrenia ed epilessia fossero patologie antagoniste, dava l’illusione agli psichiatri di fare qualcosa.
Ma oggi, oggi non avremmo più alcun motivo per riproporre le pratiche di Julius Wagner-Jauregg (convulsioni indotte attraverso la malaria) o di Ladislas Meduna (convulsioni indotte con il cardiazol) o di Bini e Cerletti (convulsioni indotte da scarica elettrica), nessun motivo se non fosse che i farmaci psicoattivi, che dovevano essere miracolosi, e avrebbero dovuto spazzare via le malattie mentali dal pianeta, non solo non sono miracolosi per niente, ma hanno smesso di funzionare, e hanno iniziato a cambiare la psicopatologia, facendo sì che molta psicopatologia di questi ultimi decenni è forse, prevalentemente, una psicopatologia iatrogena.
Il rimedio, però, non può essere l’elettrochoc, di cui – riguardo ai meccanismi d’azione – non si sa assolutamente niente.
In Italia, per fortuna, rispetto ad altri paesi (negli USA 100mila persone ogni anno), l’uso di questa pratica è tutto sommato limitato. L’ultimo censimento risale ai dati resi noti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale, presieduta da Ignazio Marino, nel triennio 2008-2010. Allora furono individuate novantuno le strutture ospedaliere italiane dove veniva effettuato l’elettrochoc. E millequattrocento persone, in questo triennio, avevano effettuato il trattamento elettrico. Le strutture ospedaliere più attive in questa pratica erano l’ospedale di Montichiari, in provincia di Brescia (più di quattrocento trattamenti nel triennio 2008-2010), il Policlinico di Pisa (con quasi trecento trattamenti, nello stesso triennio), e l’ospedale San Martino di Oristano (con quasi duecento trattamenti).
Dopo di questo vi è stata un’audizione al Senato nel 2013 da cui i centri eroganti questa terapia sembravano essere ridotti a dodici. Evidentemente molte strutture la stanno abbandonando. Nel Lazio, per esempio, fino al 2014 vi era una sola casa di cura privata a erogarla (la clinica San Valentino), ora nessuna più.
Il meccanismo d’azione dell’elettrochoc, dicevamo. Ipotesi. Nulla di più. Forse viene coinvolto il sistema serotoninergico, perché sappiamo che è coinvolto nella regolazione dell’umore. Ma ciò è poco, troppo poco.
In realtà è forse il suo principale effetto collaterale, quello che viene perseguito: rendere amnesico un paziente. Fargli dimenticare, talvolta, persino chi è.
“Mi chiamo Fernando Alonso, corro in kart e voglio diventare un pilota di Formula uno”. Gli ultimi vent’anni della sua vita rimossi dalla memoria, il campione di Formula uno ricorda la sua vita fino al 1995.
Il 6 marzo 2014, il corridore di formula uno, dopo aver avuto una scarica elettrica nell’abitacolo della sua auto da corsa, così si esprimeva. Aveva fatto una sorta di elettrochoc, presentava i sintomi tipici dell’amnesia post critica della sindrome convulsiva. Dopo la scarica elettrica perse coscienza, rimase senza memoria per un paio di giorni.
Ecco, Fernando Alonso, il campione, aveva dimostrato cos’è, come funziona, un elettrochoc. Nulla è cambiato da quando i maiali destinati a essere sgozzati, al mattatoio di Roma, dopo lo choc elettrico andavano al patibolo fatui, stolidi, ignari del fatto che stavano per morire. Questo stato di completa incoscienza di sé colpì a tal punto Bini e Cerletti, che pensarono di trattare allo stesso modo i malati mentali, gli internati del manicomio di santa Maria della Pietà. E così nacque una delle tante terapie ex adiuvantibus della psichiatria: l’elettrochoc si aggiunse alla malarioterapia, alla lobotomia, alla camicia di forza, alle fasce. Perché funzione l’elettrochoc? Togli la memoria di sé a un depresso, o a una persona con un arresto psicomotorio, lo riporti indietro di venti, dieci, un anno, o di pochi mesi, e quello scorda le ragioni della sua depressione o del suo blocco. E per un po’ non si sente più depresso, ma non perché gli è passata – per magia – la depressione, ma perché per un po’ egli non sa neppure chi è, o chi è stato negli ultimi anni o mesi. Salvo poi quando torna la memoria, e con essa il male di vivere. Ciò che i medici elettricisti non dicono, però, è che questa pratica non solo non è una cura, ma è come una botta in testa, che favorisce una evoluzione tardiva verso sindromi demenziali.
Quando ero nel gruppo elettrochoc dell’università di Roma veniva un ex giornalista, depresso, ormai resistente agli antidepressivi che aveva assunto per venti anni. Dopo alcune somministrazioni elettriche, da depresso che era diventava stolido, la depressione sembrava essere passata, ma lui pareva non sapere neppure chi fosse.
La memoria, dunque. Perdeva interi pezzi della sua memoria biografica. Che poi, nei mesi successivi riacquistava, e con essi tornava la depressione.
È quanto auspica la protagonista del film di Paolo Virzì, La pazza gioia, dice portatemi a Pisa a fare l’elettrochoc, ma non intende per guarire, bensì per non pensare, smemorarsi, come farsi dare una botta in testa.
Ricordo una ragazza, con diagnosi di disturbo borderline (non è tra i disturbi indicati per l’elettrochoc) che fuggiva tenacemente dai luoghi di cura. Le fecero 6-8 elettrochoc, senza effetto alcuno, la memoria le rimase integra, e di conseguenza non manifestò alcun effetto terapeutico (a dimostrazione che è il disturbo cognitivo che favorisce l’apparente miglioramento dell’umore).
Per questi motivi io, tutto sommato, sono d’accordo con Kurt Schneider, che pure è uno psichiatra molto apprezzato dagli organicisti: “Rifiuterei questa terapia anche quando con essa si potesse sottrarre, cosa possibile, un paziente a un conflitto interiore. Lo si potrebbe colpire alla testa così che non sia più capace di risposte emozionali, ma così noi veniamo meno alle ragioni etiche della vita. Anche se tutto ciò fosse di aiuto, non tutto ciò che aiuta è consentito”.