di Sandro Moiso
Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), con un testo di Pier Carlo Masini con la sua traduzione di Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, BFS Edizioni 2017, pp. 128, € 12,00
“I passi falsi che compie un reale movimento rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale” (Rosa Luxemburg)
Nel centenario di una rivoluzione che nemmeno la Russia di Vladimir Putin sembra voler celebrare, la ripubblicazione del testo di Rosa Luxemburg sull’esperienza bolscevica e delle masse sovietiche a cavallo tra il 1917 e il 1918 appare ancora di sorprendente attualità. Non solo per i commenti “a caldo” che dalle sue pagine è possibile raccogliere ma, e soprattutto, per comprendere come tale esperienza rivoluzionaria sia stata liquidata tanto da chi, ieri ed oggi, l’ha voluta osteggiare quanto da coloro che l’hanno voluta e continuano ad esaltare.
Tanto da far sì che a cent’anni di distanza siano realmente pochi gli scritti e le ricostruzioni critiche, ovvero tese a ricostruirne fasi, errori, vittorie, possibili esperienze sia da rivalutare che da abbandonare o da rifiutare decisamente. La letteratura specialistica e politica, fatte salve alcune opere dovute a protagonisti e testimoni di quell’esperienza (Trockij e Bordiga1 in primis, ma pur sempre segnati dalla necessità di intervenire nelle battaglie politiche e nelle polemiche in corso all’epoca dello loro stesura) oppure allo storico inglese Edward H. Carr, 2 sembra essersi schierata fino ad oggi o sul fronte del rifiuto e della condanna oppure su quello della passiva accettazione, o quasi, di ogni suo aspetto. Fenomeno inaspritosi sicuramente, in ogni senso, a partire dal 1989.
Il testo della Luxemburg fu probabilmente scritto nell’autunno del 1918, mentre l’autrice si trovava in carcere per scontare una condanna dovuta al suo intransigente antimilitarismo. Avrebbe dovuto essere successivamente rivisto, come alcune lapidarie frasi e brevi appunti al suo interno sembrano rivelare ad un lettore attento, ma ciò non poté essere portato a termine a causa dell’omicidio di Rosa, ad opera dei Freikorps di Noske, durante l’insurrezione spartachista di Berlino nel gennaio del 1919.
Rimase inedito fino al 1921 quando Paul Levi, già presidente del Partito comunista tedesco e da questo espulso nel 1920, decise di pubblicarlo, nonostante la contrarietà di amici e compagni della Luxemburg (trattandosi appunto di un testo non rivisto dall’autrice), proprio per contrastare le premesse teoriche della tattica e dell’organizzazione bolscevica e di quella Terza Internazionale che iniziava a richiederne l’applicazione da parte di ogni Partito comunista.3
Forse tale interpretazione servì a far sì che in seguito non solo tale testo, insieme a molti altri dell’autrice, fosse rimosso dalla tradizione e dalla stampa comunista, ma “quando già l’Internazionale comunista cominciava ad agonizzare, fu considerato un merito quello di aver proceduto in Germania alla liquidazione del luxemburghismo nel movimento operaio e nel Partito comunista tedesco”.4
Mentre nella “letteratura” stalinista: ”Alla voce «Luxemburg» dell’Enciclopedia Sovietica si può leggere quanto male abbia fatto alla classe operaia e al socialismo questa povera semi-menscevica, questa intellettuale piccolo-borghese, rea di spontaneismo, di oggettivismo, di meccanicismo, di liquidatorismo”.5 Eppure, eppure…
Proprio nell’incipit del testo ora ripubblicato a cura di Massimo Cappitti, Rosa Luxemburg aveva scritto: “La rivoluzione russa è l’avvenimento più importante della guerra mondiale”.6
Da questa perentoria affermazione la comunista tedesca prende l’avvio per un’analisi sia dell’immaturità del proletariato tedesco che si era lasciato irretire dalle chimere della guerra nazionale che la socialdemocrazia, tradendo anche i più semplici principi del socialismo, aveva travestito da lotta contro l’autocrazia russa e da campagna progressiva di liberazione dell’Europa e dello stesso proletariato russo da condizioni socio-economiche arretrate; sia per una autentica scomunica dei tentennamenti, delle giravolte e degli autentici tradimenti dei compiti dei partiti socialisti che la direzione e i giornali del partito tedesco, con Karl Kautsky in testa, avevano contribuito a diffondere con l’obiettivo di confondere e cancellare la memoria e l’esperienza di classe dei suoi militanti e dei lavoratori tedeschi.
Per fare ciò la rossa Rosa sente la necessità di tracciare un paragone tra le scelte dei rivoluzionari russi dal marzo all’ottobre del 1917 e quella delle componenti più radicali della rivoluzione inglese e di quella francese. L’excursus storico che la porterà ad affermare che “il partito leninista fu l’unico a capire i veri interessi della rivoluzione in quel primo periodo, ne fu l’elemento trainante, in questo senso, in quanto unico partito a fare una politica davvero socialista”7 passa attraverso la valutazione delle scelte fatte dai Levellers e dai Diggers nello spingere avanti il corso della rivoluzione inglese, affinché questa non si arenasse nelle trame presbiteriane e monarchiche e, successivamente, attraverso la ricostruzione dell’azione giacobina nello spingere verso una compiuta democrazia la rivoluzione francese.
In entrambi i casi sono proprio le componenti più umili della società sei/settecentesca a spingere in avanti i progressi rivoluzionari. Ad impedire che dirigenze incerte potessero limitare o fare arretrare il percorso rivoluzionario dal suo naturale percorso. Riferendosi alla rivoluzione francese, ma in realtà anche ai compiti del moderno socialismo e alle teorie di coloro che, sia in Russia che in Germania, affermavano che la rivoluzione russa avrebbe dovuto accontentarsi di realizzare una compiuta democrazia borghese prima di affrontare il tema della rivoluzione socialista, la Luxemburg scriveva: “La superficialità liberale nel concepire la storia naturalmente non permise di capire che senza il sovvertimento «senza regole» dei giacobini, anche le prime, incerte e parziali, conquiste della fase girondina sarebbero state sepolte sotto le macerie della rivoluzione, che la vera alternativa alla dittatura giacobina, così come la poneva il ferreo corso dello sviluppo storico nel 1793, non era la democrazia «moderata» ma la restaurazione dei Borboni! La rivoluzione non è in grado di mantenere l’«aureo mezzo», la sua natura esige una rapida decisione: o la locomotiva, pompando a tutto vapore, viene trainata su per la salita della storia fino in cima, oppure, trascinata dalla forza di gravità, rotola indietro fino al punto più basso e trascina irrimediabilmente con sé nell’abisso quanti, con le loro fiacche energie, volevano tenerle a metà strada.“8
Per la teorica tedesca però era “chiaro che non un’apologia acritica, ma solo una critica accurata e riflessiva è in grado di rivelare la ricchezza di esperienze e insegnamenti. Sarebbe infatti una follia pensare che, in coincidenza con il primo esperimento nella storia mondiale di una dittatura della classe lavoratrice, e proprio nelle peggiori condizioni possibili – in mezzo all’incendio e al caos di un eccidio imperialista nella morsa di ferro della potenza militare più reazionari d’Europa, nel pieno fallimento del proletariato internazionale – proprio tutto quanto in Russia era stato fatto e disfatto fosse stato il massimo della perfezione. Al contrario, i concetti elementari della politica socialista e la comprensione delle sue necessarie premesse storiche costringono a prendere atto del fatto che , in condizioni così fatali, nemmeno l’idealismo più smisurato e l’energia rivoluzionaria più impetuosa sono in grado di realizzare democrazia o socialismo, ma solo tentativi impotenti e distorti verso entrambi”9
Quali furono quindi i principali elementi “critici” su cui si soffermò all’epoca la rivoluzionaria tedesca?
Sostanzialmente tre: la ripartizione delle terre subito dopo la presa del potere da parte dei soviet e del Partito rivoluzionario, il principio dell’autodeterminazione delle nazioni applicato a partire dalla pace di Brest –Litovsk con cui la Russia rivoluzionaria aveva dovuto concedere ingenti conquiste territoriali alla Germania guglielmina per poter giungere alla fine della guerra e la questione della democrazia interna e dei rapporti tra Partito bolscevico ed esigenze e proposte delle masse rivoluzionarie.
Nei primi due punti, intrinsecamente legati alle parole d’ordine che Lenin aveva lanciato nell’ottobre del ’17 (Potere ai soviet, terra ai contadini e pace ad ogni costo), la Luxemburg intravedeva, nel primo, il pericolo, poi effettivamente verificatosi, che una disordinata distribuzione delle terre dei latifondi avrebbe potuto creare una classe di piccoli e medi proprietari che avrebbero poi potuto opporsi, in nome dei propri diritti proprietari, alla rivoluzione stessa. Con le successive note conseguenze, soprattutto durante la collettivizzazione forzata voluta successivamente da Stalin, la carestia in Ucraina e il massacro di centinaia di migliaia di presunti kulaki (medi proprietari terrieri) negli anni Trenta.
Mentre nel secondo la rivoluzionaria tedesca, sempre nemica di ogni forma di nazionalismo, vedeva la possibilità di una risorgenza nazionalista borghese e piccolo borghese che avrebbe minato sia la fiducia delle masse proletarie nella rivoluzione e nelle sue conquiste, sia il potere stesso della politica rivoluzionaria. Proprio come in seguito gli episodi della lunga e stremante guerra civile avrebbero poi dimostrato (dalla Finlandia all’Ucraina, che per la Luxemburg “non aveva mai costituito una nazione o uno stato”,10 e successivamente con l’argine costituito dalla Polonia del maresciallo Józef Klemens Piłsudski all’avanzata delle truppe rivoluzionarie verso il cuore tedesco del capitalismo europeo nel 1920). Finendo poi, di ritorno, a costituire la giustificazione per l’annessione forzata e l’occupazione militare voluta dalla politica “Grande russa” di Stalin nei decenni successivi alla sua presa del potere.
Ma al di là delle virtù “profetiche” dell’attenta analisi luxemburghiana della situazione “sul campo”, quello che il testo riprende ( e per questo in appendice è stato aggiunto il testo Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, scritto nel 1904, un anno prima della rivoluzione del 1905 e due anni dopo la stesura del Che fare? di Lenin) è la polemica dell’autrice con la concezione esclusivamente partitica e accentratrice dell’azione rivoluzionaria concepita dall’avanguardia bolscevica e da Lenin stesso.
“Il partito di Lenin era l’unico ad aver compreso davvero il dovere e l’esigenza di un vero partito rivoluzionario che, con la parola d’ordine: «tutto il potere nelle mani di proletari e dei contadini» ha assicurato il proseguire della rivoluzione.”11 Ma tale parola d’ordine era destinata ad entrare presto in conflitto con le decisioni, prese essenzialmente da Lenin e da Trockij, di limitazione delle espressioni di democrazia, a partire dall’affossamento dell’Assemblea costituente,
In primo luogo, a seguito di ciò, il diritto elettorale fu concesso solo a coloro che vivevano del loro lavoro mentre era negato agli altri. Ma “è ormai chiaro – scrive ancora Rosa – che un siffatto diritto elettorale ha senso solo in una società che è anche economicamente in condizione di garantire a tutti quanti vogliano lavorare una vita decente e civile attraverso il loro lavoro. E’ vero anche per la Russia attuale? Con le terribili difficoltà con cui la Russia sovietica – esclusa dal mercato mondiale, privata delle sue principali fonti di materie prime – si deve scontrare […] E’ un fatto che la riduzione dell’industria ha suscitato un massiccio afflusso verso le campagne di un proletariato urbano in cerca di una sistemazione. In tali condizioni, un diritto elettorale politico che abbia come premessa economica il lavoro obbligatorio, rappresenta una misura incomprensibile. In linea generale esso dovrebbe privare dei diritti politici soltanto gli sfruttatori. E mentre le forze produttive vengono sradicate, il governo sovietico si vede letteralmente costretto a lasciare l’industria nazionale nelle mani dei precedenti proprietari capitalisti.”12
“La tacita premessa della teoria della dittatura in senso leninista-trockista è che il capovolgimento socialista sia una questione per la quale c’è una ricetta bell’e pronta, infilata nella tasca del partito rivoluzionario, che deve solo essere realizzata energicamente. Purtroppo, o per fortuna, non è così […] Quello di cui disponiamo nel nostro programma è un numero esiguo di grandi indicazioni di carattere peraltro negativo, che mostrano la direzione in cui andrebbero presi i provvedimenti […] Del negativo, della demolizione si può decretare, del positivo e della costruzione no […] Solo la vita libera e in fermento inventa migliaia di nuove forme, improvvisa, promana la forza creatrice, corregge da sé gli errori”13
Ecco cosa differenzierà sempre il pensiero della Luxemburg da quello di Lenin: la fiducia nell’azione delle masse di cui l’azione del partito deve essere un risultato e non una premessa obbligata. La rivoluzionaria tedesca era convinta che “nelle sue grandi linee, la tattica di lotta della socialdemocrazia non è, in generale, da ‘inventare’; essa è il risultato di una serie ininterrotta di grandi atti creatori della lotta di classe spesso spontanea, che cerca la sua strada. Anche in questo caso l’incosciente precede il cosciente e la logica del processo storico oggettivo precede la logica soggettiva dei suoi protagonisti“.14
Da ciò faceva derivare la seguente osservazione: “Se la tattica del partito è il prodotto non del Comitato centrale, ma dell’insieme del partito o, meglio ancora, dell’insieme del movimento operaio, è evidente che […] l’ultracentralismo difeso da Lenin ci appare come impregnato non già da uno spirito positivo e creatore, bensì dello spirito sterile del sorvegliante notturno. Tutta la sua cura è rivolta a controllare l’attività del Partito, e non a fecondarla; a restringere il movimento e non a svilupparlo, a strozzarlo, non a unificarlo”15
Differenze e polemiche che, però, non videro mai venir meno la stima reciproca tra la rivoluzionaria tedesca e Lenin. Entrambi erano rimasti vicini nella sostanza, soprattutto quando erano stati tra i pochi socialisti contrari al primo macello imperialista; così che se la Luxemburg riconosceva in Lenin tutte le qualità del leader rivoluzionario agitato da una grande passione e da una grande energia, dall’altra il rivoluzionario russo riconosceva in lei lo “sguardo d’aquila” da grande teorica del socialismo.
Grazie dunque a Massimo Capritti e alle Edizioni BFS per averci ricordato, in occasione di questo centenario sotto tono, di quali contenuti fossero intessuti i dibattiti e di quali energie fossero dotati i rivoluzionari di quella stagione gloriosa della storia del movimento operaio.
Amadeo Bordiga: Russia e rivoluzione nelle teoria marxista (autunno1954 – inverno1955), Le grandi questioni della rivoluzione in Russia (1955), La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea (1956) e Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (aprile 1955 – dicembre 1957) ↩
La rivoluzione russa, pubblicata in lingua originale a partire dal 1950 e tradotta in italiano da Einaudi nella Collezione Storica tra il 1964 e il 1978, di cui soltanto il primo volume è dedicato alla Rivoluzione mentre gli altri nove ripercorrono il periodo dalla morte di Lenin all’esperienza del socialismo in un solo paese, alla pianificazione economica e ai rapporti con gli altri paesi e gli altri partiti comunisti fino al 1929 ↩
Almeno questo è ciò che afferma György Lukács nelle sue Osservazioni critiche sulla critica della rivoluzione russa di Rosa Luxemburg, contenute ora in Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1978 ↩
Pier Carlo Masini, Introduzione a Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, pag. 81 ↩
P.C. Masini, op. cit. pag. 83 ↩
pag. 7 ↩
pag. 39 ↩
pp. 43-44 ↩
pag. 33 ↩
pag. 58 ↩
pag. 44 ↩
pp. 67-68 ↩
pp. 71-72 ↩
Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, pp. 99-100 ↩
Problemi, pag. 101 ↩