di Sandro Moiso

Gianfranco Marelli, L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957- 1972, Mimesis Edizioni 2017, pp.456, € 26,00

A sessant’anni esatti dalla Conferenza di Cosio d’Arroscia (Imperia) del 28 luglio 1957 che ne stabilì di fatto la nascita, l’Internazionale Situazionista continua a costituire una sorta di oggetto volante non identificato della teoria politica e della critica radicale dell’arte, della cultura e della società capitalistica avanzata.

Anche se il suo equipaggio, nel corso dei suoi quindici anni di vita, comprese complessivamente non più di 70 persone (di cui soltanto sette donne), “Navigare sul mare della storia del situazionismo non è certo facile” come afferma Gianfranco Marelli al termine del suo lungo, dettagliato, appassionato e sofferto studio di quello che può essere ancora definito come uno dei movimenti più radicali della seconda metà del ‘900 e forse l’unico le cui principali formulazioni possano ancora costituire, almeno in parte, un’eredità immarcescibile per l’azione sociale antagonista nel secolo in cui siamo entrati, quasi senza accorgercene, ormai da un ventennio.

Gianfranco Marelli si occupa dell’argomento da più di venti anni e l’attuale pubblicazione di Mimesis costituisce la ristampa, ampliata e arricchita (72 note a piè di pagina e 50 pagine in più rispetto alla precedente) del testo pubblicato per la prima volta nel 1996 dalle Edizioni BFS di Pisa.
Nel corso degli anni Marelli ha pubblicato sull’argomento “L’ultima internazionale. I situazionisti oltre l’arte e la politica” (Bollati Boringhieri 2000) e “Una bibita mescolata alla sete” (BFS Edizioni 2015). Inoltre ha curato, per il secondo volume de “L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico” (Jaca Book 2011), la voce “L’Internazionale Situazionista” ed ha sviluppato la sua riflessione sulla stessa attraverso una grande varietà di saggi e contributi pubblicati in volumi collettanei e su riviste, sia cartacee che online.

A darci la cifra della passione dell’autore per l’argomento basterebbero le poche parole poste al termine del Prologo, quando ricordando lo smarrimento provato in seguito alla notizia del suicidio di Guy Debord, che del movimento era stato il profeta e il leader indiscusso, mentre si trovava a Parigi con la speranza (vana?) di incontrarlo, scrive: “Improvvisamente il tempo, a Parigi, era cambiato. Faceva freddo e da allora non smise più”.

Ma la passione di Marelli si lega pure ad una grande lucidità che, a differenza di altri tardivi o antichi estimatori dell’Internationale Situationniste, gli permette di analizzare quanto è rimasto di vivo e quanto invece è stato riassorbito dalle logiche del potere e dalla società capitalistica di quella, pur vivacissima, esperienza. Come lui stesso ha affermato; “L’amara sconfitta del situazionismo e il bisogno di evitare la noia di un REFRAIN pro-situazionista sono concetti tutt’ora validi. Si tratta di ANDARE OLTRE. Come, del resto, avrebbe voluto lo stesso Guy Debord.

L’esperienza situazionista era nata dai fermenti dell’arte d’avanguardia successiva al secondo conflitto mondiale e dalle teorie critiche che, già dalla seconda metà degli anni ’40 del Novecento, avevano aggredito violentemente sia le passate esperienze surrealiste e dadaiste che l’urbanistica razionalizzante di Le Corbusier e la banalità della vita quotidiana, ridotta a sopravvivenza e a trionfo dell’ordine economico e sociale borghese, che i riti del consumo e le stesse strutture urbanistiche finivano con l’esaltare.

Un percorso che dal Lettrismo di Isidore Isou passerà, tramite rotture, separazioni ed espulsioni che ne caratterizzeranno sempre il cammino fino alla dissoluzione formale, attraverso la successiva Internazionale Lettrista (in cui sarà già preminente la figura di Debord), il movimento COBRA e il Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista. Sarebbero stati questi tre movimenti, inizialmente separati, ad incontrarsi con altri artisti nel Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi, tenutosi ad Alba dal 2 all’8 settembre 1956, e a porre le basi per la Conferenza del 1957 da in cui l’Internationale Situationniste sarebbe poi nata.

E’ una storia di correnti artistiche e urbanistiche radicali e di uomini, spesso di singoli individui, quella che caratterizza le origini del Situazionismo. E questo aspetto viene sottolineato dall’autore che, al contempo però, rifiuta di ricostruire le singole vicende individuali per dare più spazio invece alle formulazioni teoriche prodotte e ai risultati raggiunti dall’insieme dei suoi componenti (spesso momentanei).

Certo non mancano le figure di rilievo nella ricostruzione di Marelli. Dallo stesso e onnipresente Debord a Pinot Gallizio, dall’olandese Constant, a Raoul Vaneigem, Asger Jorn, Gianfranco Sanguineti e molti altri che occuperebbero qui, in una recensione, troppo spazio se fossero tutti elencati. Ma come ha scritto Marelli in altro contesto: ”La tendenza a raccontare non più LE PERSONE CHE FANNO STORIA (ce ne sono, fidatevi) ma LA STORIA DELLE PERSONE, ha impresso alla memorialista un carattere confidenziale, da fotoromanzo, che esaspera l’intimità personale fino a farla USCIRE DA SÉ IN UN’ESTASI ESPLICATIVA DEL TUTTO COLLETTIVO, così da “finalmente comprendere come i fatti andarono per davvero”. La problematica va trattata GENTILMENTE, sostenendone l’importanza, evidenziandone la particolarità, cogliendone le ambiguità, ma senza mai scadere nell’OLEZZO DI LENZUOLA STROPICCIATE”.1

Il personalismo delle vicende narrate conta per quanto ha potuto influire sul percorso e le rotture in seno al movimento e non certo per stuzzicare il voyeurismo del lettore. In fin dei conti l’”ultima” Internazionale era nata in un ambiente artistico ed intellettuale ristretto in cui le mire e le aspirazioni personali, anche se travestite in alcuni casi da critica radicale, finirono spesso col determinare quelle rotture e dimissioni di cui si è precedentemente parlato ancor più che le vicende del contesto socio-politiche circostante.

Vicende storiche e politiche che, però, non furono mai estranee alle vicende del Movimento. Basti pensare che le tre fasi più significative della storia dello stesso incrociarono fatti e vicende estremamente significative per il successivo sviluppo dei movimenti rivoluzionari.

Il 1956 con la rivolta d’Ungheria e la crisi “formale” dello Stalinismo corrispose a quel Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi che vide i partecipanti esprimersi, in alcuni casi, contro gli apparati burocratici e senescenti dei partiti presunti proletari e a favore di una visione consiliarista della lotta politica.

Il 1968 con l’insurrezione generalizzata degli studenti e dei giovani prima e di una parte significativa del mondo operaio poi, che vide il trionfo delle teorie situazioniste sulla necessità di fare la rivoluzione a partire dal rovesciamento delle strutture della vita quotidiana e dal rifiuto della mercificazione di ogni attività umana.

Gli anni compresi tra l’inizio dei Settanta e il 1977, periodo in cui il Situazionismo si sgretolò organizzativamente proprio nel momento in cui le sue idee sembravano diffondersi sempre più attraverso i mille rivoli e le mille formulazioni dei movimenti di rivolta che avevano, in alcuni casi, superato le divisioni causate dalle camarille politiche e sindacali falsamente di sinistra. Troppo spesso falsamente estremiste.

E’ un ben strano destino quello che vede il Situazionismo agonizzare proprio nel periodo in cui le sue critiche più audaci agli ambienti “militanti” dell’estremismo parolaio sembravano aver maggiormente attecchito a livello di massa . Ma anche quello fu solo un momento nel lungo cammino della liberazione della specie visto il rapido riformarsi delle sette e delle burocrazie (spesso clandestine) proprio all’apice di quei movimenti. Il quotidiano tornava in cantina e le “organizzazioni” in quanto partiti o gruppi armati riprendevano il sopravvento.

Ora, anche se nel testo l’attenzione per il “fallimento” degli ideali situazionisti e dei loro rappresentanti occupa un discreto spazio (si pensi soltanto all’aggettivo “amara” che accompagna la parola “vittoria” nel titolo), vale forse la pena qui di sottolineare almeno alcuni degli elementi che caratterizzano ciò che l’autore definisce come L’oro situazionista, ovvero l’eredità che Vaneigem sintetizzò così ironicamente: “tutto quello che noi abbiamo detto sull’arte, il proletariato, la vita quotidiana, l’urbanismo lo spettacolo [che] si trova ripreso ovunque, tranne l’essenziale”.2

In mezzo ai tanti credo valga la pena di riprenderne almeno quattro, i primi due già presenti nel Rapport sur la construction des situations e sur les conditions de l’organisation et de l’action de la tendance situationniste internationale, scritto da Debord nel maggio del ’57 e stampato a Bruxelles nel giugno, in vista della Conferenza di unificazione del luglio successivo.

1) La Borghesia in fase di liquidazione

All’epoca una critica delle difficoltà della borghesia e del capitalismo di mantenere in vita i propri valori attraverso una cultura, un’arte e scelte politiche ormai superate, anche e proprio quando volevano presentarsi come “moderne”. Un concetto che superava in qualche modo e allo stesso tempo arricchiva la concezione marxista della crisi del capitalismo inteso come mero fatto economico e che coinvolgeva nella sua critica sia i paesi del “capitalismo avanzato” che quelli del “socialismo reale”. Una concezione che oggi, a sessant’anni di distanza, non mostra solo la sua utilità sul piano della critica culturale ma, e soprattutto, nel momento in cui gli strumenti di rappresentanza del potere politico borghese (i parlamenti, i governi e gli stati nazionali) sembrano aver perso qualsiasi valore effettivo. Trasformandosi soltanto in mere ed appassite funzioni del capitale finanziario sovranazionale. Liquidati definitivamente non dalla rivoluzione proletaria, ma dalla globalizzazione che ha dimostrato l’inutilità dei confini e delle separazioni nazionalistiche.

2) Far retrocedere dappertutto l’infelicità

Contro l’idea di felicità borghese, fin dagli inizi il situazionismo rivendicò l’enorme potenziale di scoperta di nuovi desideri e reali motivi di felicità insita nelle lotte e nelle rivolte. Nel détournement dei significati e nella costruzione di situazioni soggettive, e molto meglio se collettive, tese a ribaltare e ad utilizzare differentemente gli spazi della vita quotidiana, architettonici, urbani e psichici. La felicità connessa agli ideali borghesi e piccolo-borghesi non può rappresentare altro che la base reale dell’infelicità collettiva, soprattutto laddove l’alienazione umana legata al lavoro e al consumo (in tutti i suoi multiformi aspetti) viene mascherata da normalità o ancor peggio da “realizzazione soggettiva”. E’ chiaro quindi che la felicità vera può realizzasi soltanto nel momento in cui la lotta contro il modo di produzione capitalistico non si limita al mero fatto o rivendicazione di carattere economico-riformistico, ma trasforma l’ambiente sociale e le mentalità che ne sono il prodotto, rifiutandone in primo luogo la mercificazione. Una rivoluzione in permanenza dello stile di vita e dell’organizzazione culturale (intendendo qui il termine cultura nel suo senso più ampio di norme, conoscenze, abitudini, etiche ed estetiche) più che una monolitica rivoluzione politica è quella che si può intravedere nella proposta situazionista fin dalle origini. Proposta messa collettivamente ed inconsciamente in atto da tutti movimenti autenticamente rivoluzionari (dalla Comune a quelli del maggio ’68 e degli anni successivi). Una rivoluzione che vive e cresce nelle lotte, ma che è soffocata dai partiti e dagli Stati, anche quando si definiscono proletari o indipendenti.

3) La proletarizzazione del mondo

Secondo la concezione situazionista “la società del benessere, nel cercare di integrare il proletariato ai valori dominanti, aveva ampliato il proprio dominio sulla vita trasferendo all’esterno dei rapporti di produzione le condizioni di alienazione/separazione che la produzione della merce aveva da tempo sussunto nel lavoro, e che ora il consumo della merce prodotta replicava fedelmente nel tempo libero. Per i situazionisti, quindi, la stessa definizione di proletariato, non era più delimitata dall’attività lavorativa compiuta nel sistema produttivo capitalistico, ma riguardava ormai l’intera vita degli individui che era espropriata e sfruttata (al fine di riprodurla come merce) all’interno dei processi di valorizzazione e scambio della merce; ogni individuo espropriato della propria vita – vale a dire, ormai privo della possibilità di controllarla e guidarla oltre gli imperativi economici dettati dalla produzione e dal consumo capitalistico – era dunque un proletario, e la cosiddetta società del benessere non solo (come invece sostenevano i sociologi di «Arguments») non aveva migliorato, superandola, la condizione proletaria dei ceti subalterni, ma addirittura aveva proletarizzato l’intera società.[…] l’Internationale Situationniste osservava che il processo di proletarizzazione della società concerneva non soltanto il diffondersi di questa divisione nel mondo produttivo, ma ben più l’affermarsi di un sistema economico che creava condizioni di alienazione/separazione del vissuto quotidiano, quali fattori di dominio totalizzante compiuto dalla merce nel mondo.3 La proletarizzazione completa dei paesi a capitalismo avanzata passa dunque attraverso il consumo (di merce, tempo libero, spettacolo) più che attraverso il bisogno e torna a trasformare il proletariato in classe deprivata (oggi anche del potere di consumare) pronta a lavorare in qualsiasi condizione e per qualsiasi salario.

4) La società dello spettacolo

Resta per molti questo l’assunto fondamentale della teoria situazionista, magistralmente esposta nel testo di Guy Debord dallo stesso titolo. Ciò che più conta in esso, e che spesso non è colto a fondo, è il fatto che tale spettacolarizzazione della realtà sociale non tocca soltanto la fascinazione esercitata dalla merce o l’azione giaculatoria ed ossessiva esercitata dai media in tutti i campi ma, e soprattutto, l’immagine e il ruolo del proletariato all’interno della società.
La nozione di spettacolo – adottata dai situazionisti per definire la società contemporanea e il suo sistema di dominio diffuso (nei regimi capitalisti), e concentrato (nei regimi totalitari) – concretizzò il concetto per cui «tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione»; di modo che l’alienazione/separazione degli individui dalla propria vita quotidiana espresse nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione della merce nel mondo, divenuto il mondo della merce. Lo spettacolo – vale a dire «il riflesso fedele della produzione delle cose, e l’oggettivazione infedele dei produttori» – divenne quindi la chiave interpretativa della realtà contemporanea che consentì ai situazionisti di elaborare una teoria critica della vita quotidiana quale cartina di tornasole per rilevare la necessità del proletariato di assurgere a classe della coscienza; classe della coscienza delle proprie condizioni di alienazione, separazione, prodotte dalla società dello spettacolo e perpetuate grazie – soprattutto – ai suoi rappresentanti di classe, il partito e il sindacato. Il processo di estraniazione rifletteva così la condizione proletaria sia nei confronti del sistema di dominio, sia nei confronti del sistema ad esso antagonista, rappresentato dalle istanze “rivoluzionarie” dell’ideologia marx-leninista, che specularmente separavano il proletariato dalla propria coscienza per divenirne i padroni della sua coscienza; rappresentato dal partito-guida, il proletariato era così alla mercé dei “rivoluzionari di professione”, il cui compito non era l’abolizione del proletariato in quanto classe del capitale, ma l’affermazione del proprio potere di classe burocratica sul proletariato. Ecco perché, a parere dei situazionisti, la critica ai regimi comunisti non poteva essere una critica che si limitava a correggere gli errori compiuti dal partito nella gestione dello stato, ma doveva essere una critica che individuava nel partito, nello stato i medesimi processi di alienazione/separazione che il proletariato subiva nella società capitalista, perché speculari – anche se in negativo – alla stessa rappresentazione spettacolare del proletariato che doveva essere combattuta sia nei paesi capitalisti, sia nei paesi «socialisti».4

Alla fine i fili si riannodano tutti: critica del quotidiano, dell’estraniazione, del lavoro coatto, della merce e della reificazione dell’esistenza, in un quadro in cui “La necessità di «reinventare la rivoluzione» divenne per l’Internationale Situationniste il criterio prioritario per riconoscere le forze agenti che avrebbero trasformato il mondo, riconoscendosi, di conseguenza, nella pratica radicale delle loro azioni. I fenomeni che nelle società industrialmente avanzate raffiguravano il rifiuto ai valori della produzione e del consumo, così come la disaffezione nei confronti delle forme rappresentative della politica (il partito, il sindacato, lo stato) furono assunti dai situazionisti come conferma delle proprie ipotesi teoriche, anzi come realizzazioni pratiche delle idee elaborate. Il «rifiuto del lavoro», che gli strati marginali e giovanili nella metà degli anni ’60 – soprattutto negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni – manifestavano come forma di contestazione radicale al sistema, catturò l’interesse dei situazionisti al punto che essi vi videro una conferma parziale (in quanto non ancora organizzata) delle possibilità di superamento rivoluzionario delle condizioni economiche attuali.5.

Forse alcuni di questi assunti sembrerebbero giovare al capitalismo odierno, eppure, eppure…
Nonostante i transfughi, nonostante i fallimenti, nonostante tutto ciò che ha potuto essere riassorbito e riciclato dal modo di produzione dominante, e che Marelli segnala con lucidità a tratti spietata, un po’ di oro è rimasto e proprio questo libro può aiutarci a riscoprirlo per trarne l’essenziale.

Il recensore si scusa in anticipo per i limiti imposti dallo spazio di una recensione, ma il testo di Marelli resta indispensabile ancora oggi e sarà anche compito del lettore individuare e magari utilizzare ancora nel presente, apparentemente così lontano e contemporaneamente così simile al mondo in cui l’Internationale Situationniste ebbe modo di sparare le proprie bordate e di affermarsi come strumento fondamentale della critica radicale, oltre a quelli fin qui accennati, molti altri temi ancora utili per demolire le mitologie più perniciose e stridenti dell’esistente e della sua pretesa e fasulla modernità.


  1. Valga come esempio, per tutti, il recente testo di Donatella Alfonso, Un’imprevedibile situazione. Arte, vino, ribellione nasce il Situazionismo, il melangolo, Genova 2017. Un libro che sembra considerare la fondazione dell’I.S. un incidente casuale durante un’allegra bisboccia, il cui capo era solito fin dal mattino bersi almeno un litro di vino. Narrando così che, in uno sperduto e spopolato paesino dell’entroterra savonese, improvvisamente le cantine furono prese d’assalto da uno sparuto manipolo di situazionisti. Magari sbagliando anche la data e fissando la Conferenza nel luglio del 1958 invece che del 1957!  

  2. cit. in Marelli, pp.423-424  

  3. Marelli, pp. 404–405  

  4. Marelli, pp. 404-405  

  5. Marelli, pag. 405