di Valerio Evangelisti
[Con il titolo Unions, questo articolo è apparso nel numero di maggio 2017 della Nuova Rivista Letteraria, Edizioni Alegre, dedicato alle parole della rivoluzione.]
Nell’ottobre 1913, di fronte alla Liberty Hall di Dublino, Jim Larkin prese la parola davanti a centinaia di operai. Si era nel pieno di uno sciopero generale che sarebbe durato sette mesi, iniziato dai trasportatori ed esteso a quasi tutte le categorie. Larkin era, con James Connolly (al momento in prigione), il massimo dirigente della Irish Transport and General Workers’ Union (ITGWU), il più importante sindacato irlandese. L’organizzazione adottava la tattica della solidarietà: quando una categoria scendeva in sciopero, altre la imitavano a sostegno, senza distinzione di qualifica o di specializzazione. L’esatto opposto della prassi delle Trade Unions inglesi, che promuovevano agitazioni sulla base del mestiere. Così una lotta dei tranvieri dublinesi si era allargato a macchia d’olio a tutti gli altri lavoratori della capitale, fino a paralizzare completamente la città.
Larkin era un uomo biondo, di altissima statura, con spalle larghe e un’oratoria fantasiosa e potente, lodata da Lenin. Esortò i lavoratori che lo ascoltavano ad armarsi. La polizia inglese, pochi giorni prima, aveva ucciso uno scioperante e ne aveva fatto morire un altro sotto tortura. Una ragazza era stata ammazzata da un crumiro, assoldato dal proprietario delle tranvie di mezza Irlanda, con interessi nell’industria alberghiera e nella finanza.
Secondo il sindacalista era ora di finirla. Gli operai dovevano dotarsi di una propria milizia, capace di opporre violenza alla violenza. Parlando, Larkin suscitava l’entusiasmo di lavoratori che impugnavano gli hurley, le mazze usate nello hurling, il durissimo gioco di palla irlandese. Pochi mesi dopo quegli stessi operai, sottoposti all’addestramento militare impartito dal capitano Jack White, sarebbero sfilati in divisa per O’Connell Street, con un cappello alla boera e un fucile in spalla. Era nata la Irish Citizen Army. Nel 1916, alleata agli Irish Volonteers di ispirazione nazionalista, si sarebbe impadronita di Dublino, tenendola per giorni contro i feroci bombardamenti inglesi.
Come fu possibile che da un sindacato nascesse una milizia armata, somigliante a un esercito, con tanto di reparti femminili? Il fatto era che James Connolly aveva militato, negli Stati Uniti, negli Industrial Workers of the World (gli wobblies), espressione americana del sindacalismo rivoluzionario; e lo stesso avrebbe fatto Larkin, costretto ad abbandonare l’Irlanda poco dopo la mezza vittoria dello sciopero generale più lungo d’Europa (il padronato si piegò a non discriminare i lavoratori organizzati). E gli wobblies erano abituati a livelli di scontro poco comuni nel vecchio continente.
Ma chi erano i sindacalisti rivoluzionari, che comprendevano sia gli IWW che la ITGWU, sia la CGT francese che una importante frazione delle Leghe di resistenza italiane?
Oggi non è facile capirlo, e un parallelo con gli odierni “sindacati di base” sarebbe fuorviante. Fino agli anni Venti del ‘900 si chiamò sindacalismo rivoluzionario, o a volte semplicemente sindacalismo, una specifica corrente del movimento operaio distinta sia dal socialismo che dall’anarchismo. Reclamava il possesso dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori, però non attraverso una gestione statale, né tramite un decentramento di unità autogestite e federate tra loro.
Lo strumento principe, il modello organizzativo di società egualitaria, doveva essere la industrial union: il sindacato industriale ramificato per settori produttivi ed eletto dal basso, il cui coordinamento (di fatto un governo) sarebbe stato puramente amministrativo, senza una “politica” divenuta obsoleta. Il “socialismo” esisteva dunque già in potenza sotto il capitalismo, via via che gli operai si organizzavano per comparto industriale, senza distinzione di qualifica. Raggiunta una forza sufficiente, la società latente e già di fatto costituita avrebbe distrutto il capitalismo attraverso uno sciopero generale a oltranza, che paralizzasse il padronato e lo costringesse ad abdicare. La one big union sarebbe stata pronta ad assumere il comando in nome della classe operaia che democraticamente la animava.
Padre Hagerty, un prete cattolico che partecipò alla fondazione degli IWW nel 1905 (ma poi fu richiamato all’ordine dalla gerarchia ecclesiastica e si sottomise), illustrò il progetto con un disegno suggestivo. Un cerchio era suddiviso in tanti spicchi, che convergevano al centro. Ogni spicchio rappresentava un settore produttivo, con tutte le sue diverse mansioni, chiamato a eleggere rappresentanti. L’ultima votazione dava vita al nucleo centrale, in cui si unificava la struttura e si stabilivano gli obiettivi da perseguire per soddisfare la domanda sociale. Insomma, una sorta di programmazione ante litteram, fondata sull’elettività dal basso. Il trionfo della democrazia diretta, anche se di stampo esclusivamente operaio.
Pur senza adottare questa sorta di rigido pentacolo, a un piano analogo si adeguò il sindacalismo rivoluzionario in ogni paese, dalla Francia all’Italia, dal Messico all’India. E’ chiaro che, non implicando una presa del potere, il modello si associava a un interesse debole o nullo per l’azione politica incarnata dai partiti. Gli IWW ebbero iniziali rapporti difficili con il Socialist Labor Party di Daniel De Leon, e in seguito più facili con il partito socialista americano di Eugène Debs. In Francia, solo il Parti Ouvrier Socialiste Révolutionnaire di Jean Allemane (fondato nel 1890, più tardi confluito nella SFIO), adottò il sindacalismo rivoluzionario quale propria ideologia. In Italia, per breve tempo i sindacalisti furono una corrente del PSI, prima di troncare ogni legame. In Irlanda effimere alleanze finirono in nulla.
E così via, di paese in paese. La Union, in questa corrente socialista non marxista né anarchica, si considerava autosufficiente, e se accettava sostegno politico (lo sciopero della ITGWU ebbe l’appoggio in Inghilterra del leader laburista Keir Hardie e del movimento delle suffragette), rivendicava piena autonomia da ogni partito. In quanto prefigurazione della società a venire, il sindacato non aveva bisogno di espressioni istituzionali. La classe operaia quanto più era autonoma, tanto più era forte. Lo statuto della Prima Internazionale, nel suo preambolo, era interpretato alla lettera.
I maestri teorici del sindacalismo rivoluzionario furono numerosi e contraddittori, al punto che si può dire che non ve ne furono (come asserì il francese Pierre Monatte al congresso anarchico di Amsterdam del 1907). Il movimento si richiamava in genere alle Considerazioni sulla violenza di George Sorel, testo peraltro arduo, poco idoneo alla divulgazione. In Italia Enrico Leone e Arturo Labriola dialogavano su riviste fuori della portata del comune militante. Più incisivo fu il lavoro di divulgazione di attivisti senza troppe pretese intellettuali, capaci di tenere la penna in mano. Il manualetto Il sabotaggio di Émile Pouget, uno dei leader della CGT, fu tradotto in decine di lingue, ed ebbe certamente più fortuna del raffinato Sorel. Idem per The Way to Win, scritto nel 1910 dall’inglese Tom Mann.
Il fatto è che il sindacalismo rivoluzionario fu essenzialmente un fenomeno che sorgeva dal basso, per cui si esprimeva attraverso gli agitatori. Prendeva atto della crescita egemonica della grande industria, da cui derivava un’obsolescenza delle soluzioni anarchiche tradizionali, a sfondo contadino o artigiano. Parallelamente rifiutava un socialismo di Stato, poco dissimile dal capitalismo, in cui la condizione operaia non sarebbe cambiata nei suoi termini di fondo.
Ciò spinse i sindacalisti ad aderire totalmente – a volte sin troppo – alla composizione di classe con cui avevano a che fare. Anzitutto arruolarono nella compagine sovversiva i lavoratori saltuari, precari, non specializzati, fino a includervi i disoccupati o addirittura i marginali. Poi adottarono forme di lotta che sottolineavano la radicale estraneità di tale manodopera, effettiva o potenziale, dal mestiere o da un orgoglio di tipo artigianale, legato alla padronanza della mansione.
Gli IWW furono, in tal senso, il caso più estremo e significativo. Avevano a che fare con lavoratori che passavano da un impiego all’altro, e spesso erano di recente immigrazione, a stento padroni dell’inglese. Nacque di conseguenza un sindacato mobile e malleabile, che seguiva la forza-lavoro nei suoi spostamenti alla ricerca di un salario qualsiasi e parlava mille lingue, nei volantini e nei documenti.
Dalle miniere del Colorado o del Kentucky alle coltivazioni di frutta della California, dalle foreste pluviali attorno a Portland ai porti di Seattle o di San Francisco, dalle industrie tessili di Lawrence, Massachusetts, e Paterson, New York, ai cantieri di Chicago. Lì erano gli operai tuttofare che gli wobblies prediligevano e inseguivano nei loro continui spostamenti. Gli IWW divennero un sindacato mobile, che si spostava su rotaia con passaggi abusivi sui convogli merci. Divennero presto parte di un mito che contribuirono coscientemente a creare, a furia di canzoni (per esempio la celeberrima Hallelujah I Am a Bum), di repressioni selvagge e omicide, di diritti conquistati non di rado con la Colt in pugno. Venne un momento in cui, per potere viaggiare gratis sui vagoni merci delle ferrovie, bastò esibire la tessera del sindacato. Wobblies con camicia nera e fazzoletto rosso al collo assicuravano agli hoboes di giungere a destinazione senza essere molestati dai ferrovieri.
Nei brevi periodi stanziali, le forme di lotta suggerite dai sindacalisti rivoluzionari americani erano le stesse che il movimento propugnava in Europa e ovunque era presente. Lo sciopero, evidentemente. Poi il boicottaggio, praticato in Italia, in forme persino più radicali, dalla CGdL riformista: l’isolamento, economico ma talora anche umano, di chi si fosse mostrato ostile alla classe lavoratrice. Il “bollino”, e cioè l’attestato che una determinata merce era stata prodotta nel rispetto degli accordi sindacali. E infine il metodo di lotta più controverso di tutti: il sabotaggio.
Un’allegra canzoncina degli IWW, scritta da Joe Hill, imitava nel titolo (Ta-ra-ra Boom De-ay) il rumore di una trebbiatrice che prendeva fuoco ed esplodeva, nel corso di spietate vertenze bracciantili.
Una tattica che ricordava certe pratiche dei sindacalisti rivoluzionari italiani, come il taglio delle viti o l’incendio delle messi – chiamato il gallo rosso, sulla scorta delle agitazioni contadine russe posteriori al 1905. E i pamphlet della CGT francese erano prodighi di insegnamenti su come paralizzare una locomotiva o una macchina agricola col taglio di una cinghia di trasmissione o con un cacciavite “dimenticato” tra gli ingranaggi. Tanto che, almeno teoricamente, un singolo operaio poteva interrompere la produzione con la stessa efficacia di un nucleo cospicuo di scioperanti, e, se era veloce e astuto, con minori conseguenze. Metodi che ricordano quelli adottati nel decennio 1970 dagli operai dell’automobile italiani, con il “salto della scocca”, lo “sciopero a singhiozzo” e altri sistemi per dare a una minoranza il potere di una maggioranza.
Gli wobblies, chiaramente, rifiutavano ogni compatibilità col sistema legislativo borghese, e si facevano beffe della legalità. Gli IWW australiani arrivarono all’estremo di farsi banditi e di rapinare banche e treni. Il raccordo con metodi meno selvaggi stava nel chiamarsi fuori dalla società capitalista, da parte di un’avanguardia operaia, e nel farsi antistato riconoscendo solo leggi proprie.
Il quadro degli IWW, che aspiravano a essere embrione della società futura, sarebbe incompleto se non ricordassi l’enorme produzione mediatica dei sindacalisti rivoluzionari statunitensi. Disegni, fumetti, caricature, adesivi, poesie, raccontini e soprattutto centinaia di canzoni. A volte originali, altre volte composte sull’aria di motivi tradizionali o popolari. A partire da Solidarity Forever, l’inno del movimento, che a aveva per musica la ballata di John Brown; o la celeberrima A Pie in the Sky, che il martire Joe Hill scrisse sulla base musicale dell’inno dell’Esercito della Salvezza.
Resta da chiedersi come mai di tutto ciò, e del sindacalismo rivoluzionario quale corrente socialista autonoma, non sia praticamente rimasta traccia nel primo dopoguerra. Ogni paese ha una storia a sé, anche se ovunque pesò il conflitto 1914-18, con pratiche repressive divenute di taglio militare, e con la classificazione degli insubordinati nel novero di nemici della patria e traditori.
Le Unions aderenti agli IWW avevano in sé una debolezza intrinseca. Capaci di capire la centralità di un proletariato mobile e precario, ne furono anche le vittime. Le sezioni, le locals, nascevano e morivano non appena gli iscritti si trasferivano, talora attraversando l’intero paese. Si usciva e si entrava dal sindacato in continuazione, rendendo impossibile una struttura solida permanente. Le ripetute ondate migratorie, di diversa nazionalità, facevano sì che i nuovi venuti fossero i crumiri dei loro predecessori, spingendo verso il basso i livelli salariali e rendendo effimera ogni conquista. Mai gli IWW superarono i centomila aderenti. Chiaramente pochi per un territorio sconfinato.
Sorse, sul piano organizzativo, la concorrenza dei comunisti, forti della vittoria bolscevica in Russia. Alcuni wobblies illustri, come “Big Bill” Haywood ed Elizabeth Gurley Flynn, premettero per l’adesione alla Terza Internazionale. La maggior parte del movimento, però, scelse di imboccare, come in Europa, una via differente.
Si passò dal sindacalismo rivoluzionario all’anarco-sindacalismo, simile solo in apparenza. Il primo disegnava su se stesso il profilo della società egualitaria a venire. Il secondo affidava a un’ideologia storica e consolidata l’edificazione dell’assetto egualitario, mentre riservava al sindacato una funzione di supporto. La potente CNT spagnola e l’USI italiana furono espressioni salienti di questa seconda tendenza, tra successi e sconfitte.
D’altra parte, l’ordinamento economico post-bellico rendeva arduo concepire l’organizzazione sindacale come ossatura di un sistema di autogoverno dei lavoratori. La guerra aveva ingigantito industria e finanza, fondendole con l’apparato statale. Il peso dei sindacati era scarso, con l’eccezione di quelli disposti a farsi complici. Ogni insubordinazione era soffocata manu militari. Per anni gli wobblies dovettero occuparsi di processi e deportazioni forzate. In seguito diressero lotte su scala limitata, anche vittoriose, tra marittimi e minatori. Mancava però una strategia che desse un senso politico e rivoluzionario alle conquiste salariali.
Eredi degli IWW furono il potente sindacato dei portuali della Costa Occidentale, la ILWU, e la CIO delle origini. Entrambe adottarono la formula dell’organizzazione su scala industriale. La prima era però guidata dai comunisti, la seconda ne subì inizialmente l’influenza. Uguale modello fu fatto proprio dai Trasportatori del sinistro e abilissimo Jimmy Hoffa. Il maccartismo si incaricò di sradicare dal movimento sindacale ogni residua velleità sovversiva.
Oggi gli IWW esistono ancora, e hanno raccolto qualche recente successo tra la manodopera sottopagata della ristorazione veloce, negli Stati Uniti e in Canada. Si tratta però di un gruppo anarchico di dimensioni ridottissime, con finalità educative e un bollettino mensile pieno per metà di rievocazioni nostalgiche.
Il sindacalismo rivoluzionario è dunque morto. Ha avuto diversa fortuna la milizia sindacale da cui ero partito, la Irish Citizen Army. Dopo il massacro del 1916 si fuse con i Volonteers per dare vita all’IRA, Irish Republican Army. Era però l’inizio di una storia completamente diversa.