L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi, Exòrma Edizioni, Roma 2017, pagg. 178 € 14,50
di Mauro Baldrati
“Sono tra i cinquanta e i sessanta, più o meno l’età di mio padre quando sono nato. Ho smesso da tempo di fare cose importanti, e a parte questo, da stamattina ho ripreso a inseguire una rotta giovane.”
cap. terzo, pag. 15
Pubblichiamo l’incipit del romanzo di Marino Magliani, quattro pagine sulle donne della Liguria, velocissime e infallibili cacciatrici di mosche anche mentre sono sedute, in stato di riposo. Chi, tra coloro che hanno avuto la ventura di vivere in campagna, non conosce la compagnia invasiva e implacabile delle mosche?
L’autore, quasi con echi proustiani del Combray, rievoca i tempi che furono, i tempi perduti, forse sprecati, del suo destino di nomade, acquisito già nell’infanzia come figlio di un lavorante nei grandi alberghi. E’ uno straniero errante che passa dall’emisfero sub tropicale alla Spagna, al Portogallo, alla Francia, al Sud America, ma sempre con l’Unica Terra nel cuore e nel cervello, il suo punto fisso; quella Liguria un po’ arcaica e barbarica che ha lasciato da anni per vivere in una cittadina olandese sul mare del Nord, flagellata dal vento e dalla pioggia: “Vivere in esilio è svegliarsi all’alba, colazione, lavorare un’ora, poi tornare a dormire e risvegliarsi a metà mattinata. Un piede nudo sul pietraio del passato, l’altro su quello del presente, e il rumore che senti nella testa rigonfia di sonno sono i sonagli dei serpenti sotto le pietre.”
Cap.24 pagg. 53 – 54
“Mia madre era una formidabile sterminatrice di mosche. In paese la morte delle mosche dipendeva dalle donne, se quel giorno si decideva di prendere il tè da scià Rafelina, a morire erano le mosche della cucina di scià Rafelina. Non importa se giravano nelle stanze o in sala, prima o poi si sarebbero posate da qualche parte in cucina e scià Rafelina e le sue amiche le avrebbero uccise.
Era un paese stradale, a tratti l’asfalto seguiva le anse ghiaiose del torrente, con vicoli eternamente all’ombra, e panchine di pietra su cui d’estate sedevano donne di ogni età. Poi a una cert’ora le braccianti tornavano agli uliveti e al fresco restavano solo le vecchie.
Vedevo tutte quelle donne salire in colonna come formiche, su per le mulattiere che dividevano gli orti e le vigne, e sparire dietro il costone, per poi rispuntare un attimo, fin quando la fronda azzurra non inghiottiva definitivamente scalinata e colonna.
Le vecchie raccontavano che anticamente esisteva anche un secondo paese, poi erano arrivate le formiche e il fiume nero aveva divorato le case.
Le formiche mi sembravano molto meno furbe delle mosche, le formiche argentine ad esempio entravano e uscivano dalle stesse fessure e bastava spruzzarci un po’ di ddt per mandarcele a morire tutte quante. Le mosche invece certi pericoli li intuiscono e dove andava una non ci girava l’altra o ci arrivava per voli diversi.
Mia madre era la donna più buona della valle ed era una formidabile sterminatrice di mosche. Aveva imparato da sua zia, Lalla Tilina. Lalla Tilina stava seduta in cucina e tu non te ne accorgevi, ma lei mentre ti parlava, studiava le mosche, se erano nervose e avevano scoperto il cibo, una goccia d’acqua, lo zucchero. Quando una mosca si posava sul tavolo (le gambe verniciate di verde, il piano di marmo, con una tovaglia di plastica, corta e piuttosto sbiadita) lei apriva la mano, le dita larghe, e intanto che discorreva, succedeva: la mano si muoveva a rastrello, dava uno schiaffetto all’aria, le dita si chiudevano. La mosca veniva uccisa dal mignolo, schiacciata contro il palmo della mano e trascinata, finché il tatto non portava a Lalla Tilina notizie di strutture devastate.
La mosca era morta, e chi stava di fronte alla zia lo capiva dai suoi occhi che cercavano altri voli.
Erano bestioline tenaci e sulla loro solidità avevo fatto delle prove. Ogni tanto ne catturavo una anch’io e la sbattevo violentemente al suolo. La mosca accusava il colpo e rimaneva immobile una mezz’ora. Poi, come se niente fosse, si dava una scrollata e riprendeva il volo.
Chi non era veloce come Lalla Tilina, dal soffitto della cucina faceva pendere un paio di canne spalmate di vischio. Prima o poi le mosche ci toccavano e la sera le canne erano un nerume di ali e corpi magri di libellule, mosche, moscerini, zanzare.
Lalla Tilina era italiana, ma viveva a Nizza da molti anni.
Io immaginavo che la Francia fosse un paese pieno di insetti, un luogo di esercizio dove la popolazione poteva tenersi continuamente in allenamento.
Lalla Tilina mischiava dialetto ligure con italiano e dialetto nizzardo. Qualcuno diceva lo facesse apposta perché detestava passare per italiana. A volte pranzava da noi o noi da lei, e a tavola, tra una mosca e l’altra, raccontava del grandeur della Francia, di profumi straordinari, di magliette di marca, di cibi sconosciuti.
Presa, segnalavo io a mia madre che stava ai fornelli e si perdeva la scena. Mia madre si voltava e protestava, Lalla Tilina si andava a lavare le mani e per un po’ lasciava vivere le mosche.
(…)
Le mosche del torrente, dove d’estate noi ragazzi andavamo a fare il bagno – io non sapevo nuotare, una pietra – erano le più testarde, mordevano a tradimento, affondando la proboscide nei capillari. Erano talmente ghiotte di sangue che non si riuscivano più a staccare e la mano aperta le sorprendeva prima che si alzassero in volo. Cadevano in acqua, tramortite, e se la corrente non se le portava via, prima o poi le risvegliava il gusto del sangue e tornavano all’attacco. Annegarle era impossibile, ci avevo provato tenendole sott’acqua quattro o cinque minuti, ma quando le liberavo schizzavano fuori ancora più imbestialite. Per saperle davvero morte, una volta ridotte all’incoscienza, bisognava sfilare loro la testolina. A quel punto restavano a galla giusto il tempo di farsi tirare giù da un pesciolino.
A galla ci vivevano anche le cravemutte, le capremute, specie di insetti di cui non conosco il nome in italiano, innocue e lunghe, con quattro zampette, le madri portavano in groppa i piccoli.
Erano le cose che esistevano solo in dialetto, e se da tempo sono scomparse è perché sono intraducibili o sono come le mosche che le cerco nel posto sbagliato.
In Olanda le mosche non sanno dove posarsi e se ne vanno. D’estate, attorno agli stagni, sì, ce ne resiste qualcuna, prima o poi si perde e vaga fino a trovare una casa abitata, fornita di cibo, dove trascorrere agosto e settembre. Poi la prima notte fredda la paralizza. Non sono dure a morire come le mosche liguri, ma da morte si conservano più a lungo, e l’anno dopo le ritrovi in un angolo, sul dorso, le zampette all’aria, stecchite, ma come se aspettassero il sole.”