di Franco Ricciardiello
Mi trovavo, più o meno per caso, a Tehran lo scorso 20 maggio, giorno delle elezioni presidenziali che hanno confermato un secondo mandato al riformista Rohani. Girando per la città ho visto più volte lunghissime, composte file davanti ai seggi. L’amica iraniana che mi ospitava in casa osservava con interesse l’aspetto degli elettori in attesa, e dal loro abbigliamento, immagino, prevedeva soddisfatta che la maggioranza avrebbe votato per Rohani. Non si sbagliava, dal momento che sei iraniani su dieci hanno confermato il governo in carica.
Un paradosso, che i miei conoscenti raccontavano come una barzelletta: chi ha interesse al cambiamento vota per il governo. Ancora fresco era il ricordo delle elezioni del 2005, quando il candidato conservatore Mahmud Ahmadinežād era stato proclamato presidente dopo un’elezione fortemente contestata, cui seguirono mesi di proteste di piazza del Movimento Verde. Si temeva un nuovo colpo di mano dell’ayatollah Rafsanjani, che con la carica di “Guida suprema” ha potere di veto e intervento su una serie di questioni politiche. Rafsanjani parteggia apertamente per l’altro candidato, Raisi, nella prospettiva che possa succedergli a breve, dal momento che una grave malattia gli impedirà di proseguire l’incarico.
Sia Rohani che Raisi sono alte cariche nella gerarchia religiosa sciita. “Un candidato o l’altro, il risultato sarà lo stesso” diceva chi, disilluso dalla situazione di immobilità politica, non era intenzionato a votare. Invece la classe medio-alta che si è recata in massa alle urne parte da un altro ragionamento: “Detesto Rohani perché è un rappresentante della teocrazia che guida il paese dagli anni Settanta; però la Guida suprema parteggia per l’altro candidato, quindi voterò Rohani”.
Non si tratta della classica scelta per il male minore: durante il primo mandato Rohani ha portato l’Iran fuori dall’isolamento in cui lo avevano cacciato il dogmatismo confessionale, la feroce repressione politica e i ricatti della diplomazia USA. L’Iran ha firmato un accordo con l’amministrazione Obama, ha ottenuto l’allentamento delle sanzioni internazionali, è in prima fila contro il fondamentalismo islamico di Daesh in Iraq e Siria; Rohani ha allentato il controllo sociale all’interno, tollerando una serie di libertà contro la volontà di una minoranza intransigente.
L’Iran è un paese giovane, anche per le politiche pro-fertilità dell’élite religiosa: la maggioranza della popolazione è nata dopo la caduta della monarchia. La società civile è insofferente e sempre più influente. Per reazione alla struttura statale teocratica, gli studenti e le classi alte sono sempre più attratti dalla laicità. È questo il paradosso delle attuali elezioni: la voglia di liberare la società dall’invadenza della religione deve passare attraverso l’elezione di un mullah, un religioso.
In questo quadro, che presenta diverse ragioni per essere ottimisti, arriva come un fulmine la notizia dei due attentati nella capitale, preceduti da esplicite minacce di Daesh. Il sedicente Stato islamico ha in effetti molte ragioni nel considerare Tehran un nemico mortale: consiglieri militari iraniani addestrano e coordinano truppe che combattono contro gli estremisti sunniti su tutti i fronti di guerra – nel nord dell’Iraq, a fianco dei curdi e dell’esercito nazionale; in Siria, insieme all’esercito statale; in Libano, con le milizie armate di Hezbollah. L’amministrazione Obama aveva fatto la scelta giusta nell’alternativa tra distruggere Daesh o combattere contro l’Iran, considerando prioritaria la cancellazione del Califfato dall’illegittima geografia del Vicino oriente.
Il cambio della guardia alla Casa Bianca ha invece sparigliato le carte; l’amministrazione Trump ha rispolverato la polverosa bandiera repubblicana della guerra al Terrore, ma nella pratica vende armi all’Arabia Saudita, una delle più feroci autocrazie del mondo, monarchia corrotta nella cui ombra scorrono fiumi di denaro verso gli estremisti salafiti che vogliono imporre un’interpretazione letterale del Corano. La vasta classe media iraniana ha un livello d’istruzione paragonabile a quello europeo, la società civile è tradizionalmente più democratica rispetto ai paesi confinanti (Afghanistan, Pakistan, stati del Golfo Persico), e la libertà d’opinione è forse maggiore che nella vicina Turchia, dove un prezioso alleato di Trump sta strangolando ogni opposizione interna.
Però gli equilibri geopolitici mediorientali prevedono automaticamente, con la distruzione di Daesh, un aumento di influenza dell’Iran; quindi gli USA sono oggi disposti a tollerare nella pratica un residuo spazio di manovra per i manovali del terrore, un prolungamento dell’esistenza non del sedicente Califfato, ma dei suoi squallidi assassini.
Il presidente Trump rispolvera la categoria degli stati-canaglia includendovi anche l’Iran, ma Teheran combatte da anni tutte le formazioni sunnite impegnate a instaurare la sharia, la legge islamica, su porzioni di territorio strappate al controllo dei corrotti governi arabi. Il ritorno di fiamma nell’amore fra USA e Arabia Saudita significa la sopravvivenza di una massa di manovra del terrore, teoricamente sotto controllo: eppure non è un mistero che l’integralismo sunnita è nato in Afghanistan grazie al sostegno americano ai guerriglieri antisovietici, e che lo Stato islamico è sorto dalle ceneri dei regimi laici in Iraq, Libia e Siria, abbattuti o minacciati in un tentativo di esportare la democrazia occidentale che si sta dimostrando ultrafallimentare. L’Iran è oggi l’unico paese nella fascia tra il Marocco e l’Asia centrale che sta evolvendo lentamente ma inesorabilmente verso la democrazia.