Einaudi i Coralli, Torino 2017, pp. 195, € 17,00
di Mauro Baldrati
Luglio 1981. L’onda lunga degli anni Settanta, coi suoi furori, i suoi conflitti, si sta ritirando. La risacca porta con sé molti ideali, scoprendo un fondale fin troppo colorato, sgargiante e, a detta di molti, inutile. Superfluo. Deperibile.
Un ragazzo di 24 anni, di Reggio Emilia, inquieto, curioso, dopo avere viaggiato a lungo per il pianeta, decide di completare il suo percorso di straniero nomade visitando, e abitando, una delle metropoli-mito che porta in sé tutti i segni della storia: Berlino, l’isola lussureggiante circondata dal freddo mare grigio, immobile. Berlino, la città dove tutto sembra possibile, dove tutto si trasforma, quasi come una favela stratificata; un territorio liberato dove le regole non esistono, eppure sono rispettate da tutti, leggi non scritte che generano la forza motrice di una macchina sociale e politica esuberante.
A Berlino hanno già cercato ispirazione – e non solo, anche avventura, forse rifugio – David Bowie, che gli ha dedicato una trilogia, Brian Eno, Lou Reed. E poi Iggy Pop, a Berlino con Bowie anche per disintossicarsi da droghe e alcol, benché non cercassero certo riposo e quiete (quando mai a Berlino?), visto che “battevano” la città “a caccia di drag queen”.
Anche Massimo Zamboni suona, la chitarra, ma non ha ancora nessun progetto definito. Ma quale città più di Berlino si poteva definire “piena di musica?” Quale formazione migliore? Quale laboratorio più proficuo?
Nella parte più narrativa del libro racconta come la musica fosse ovunque, in strada, nelle case con le porte spalancate (o senza porte), nei locali. Gruppi di ragazze e ragazzi ballavano sui marciapiedi al ritmo dei Daf, o avvolti nelle sonorità cosmiche dei Tangerine Dream. Ma non erano particolarmente all’avanguardia. La musica era qualcosa di naturale, di fisico, non oggetto di ricerca intellettuale. Per esempio non conoscevano i Tuxedomoon, mentre “a Reggio Emilia eravamo molto più avanti”.
Così ogni strada, ogni palazzo, ogni suono costituiscono uno stimolo. Anche il desolato, enorme quartiere desertificato dai bombardamenti che l’accoglie all’arrivo, stanco, solo, mostra la reversibilità di un territorio sgargiante sbocciato sulle devastazioni della guerra, che lascia le sue tracce come installazioni permanenti di morte e distruzione.
A Berlino tutto sembra avvenire per caso, con velocità sbalorditiva. Nessuna discussione, nessuna verifica. Le regole-non regole sono infallibili, perché tutti le rispettano. Massimo trova immediatamente una stanza in una casa occupata, senza domande, senza conoscenze, e poco dopo anche un lavoro, cameriere in una pizzeria di italiani.
Esplora la città, penetra in profondità nella materia in continua trasformazione, incontra un ragazzo col quale fa amicizia, Giovanni Lindo Ferretti (la versione emiliana della coppia Bowie-Iggy Pop?). Insieme navigano per la città, osservano, ascoltano, finché, nel quartiere turco, notano la scritta murale “Punk Islam.” Si fermano, la contemplano a lungo. Diventerà il titolo del loro primo pezzo di musica italiana punk-sperimentale, quando fonderanno i CCCP
Berlino, riserva inesauribile di energia, di sfida alla morale, di libertà; ma Nessuna voce dentro. Un’estate a Berlino Ovest non è un libro d’avventura, o di aneddoti, come forse ci si aspetterebbe. Troppo facile? Troppo scontato? E’ uno scritto denso, con riflessioni di carattere antropologico sulla storia, la musica, le dinamiche della vita; il narratore è uno straniero che non si ferma mai, entra, osserva, riflette, descrive; non indugia nell’estetica, non si sofferma sullo spettacolo, anche se non può mancare qualche doveroso cameo, come la ragazza punk con la pantegana sulla spalla.
Questo aspetto, per alcuni, può costituire il suo limite. Qua e là le riflessioni e le descrizioni sembrano rallentare la lettura, smorzando il desiderio di storie forti, di colori che esplodono, di follie creative che deflagrano. Ma non è necessariamente un difetto. Si tratta semplicemente di qualificare un’opera secondo una determinata tendenza, e per quello apprezzarla, o criticarla.
E la tendenza principale di questo libro è la scrittura. E’ un testo scritto straordinariamente bene. Ne girano pochi di questa qualità. Lo stile è estroso, raffinato quanto basta per non scadere nel virtuosismo. Possiamo dire che una trama a tratti sacrificata, viene riscattata dal ritmo ipnotico dello stile.
Ci fu chi, sintetizzando la sintesi, classificò le opere unicamente come “belle” e “brutte”. Noi potremmo ampliare questa storica riflessione in opere “utili” e opere “inutili”.
Nessuna voce dentro. Un’estate a Berlino Ovest si colloca orgogliosamente tra quelle utili.