di Mira Costanzo
I grandi racconti, diceva Julio Cortázar, nascono da un lavoro verticale, «tanto verso l’alto quanto verso il basso dello spazio letterario», e producono una «profonda risonanza» in noi. Ci ho ripensato dopo aver letto Nel nome del coniglio, presente nella raccolta Albero di carne di Stephen Graham Jones (Racconti edizioni, 2016, traduzione di Chiara Vatteroni, pp. 336, € 16,00) perché, a distanza di settimane, i suoni percepiti vibravano ancora, con una forza che merita di essere esplorata.
Questo racconto, in realtà, contiene tre racconti e mi pare che arrivi perfino a suggerirne un quarto, dai contorni incerti, la cui composizione è affidata ai lettori.
«Al terzo giorno mangiavano la neve. Anni dopo sarebbe ritornato in mente al ragazzo, di colpo, durante un colloquio di lavoro: il padre che si sputava in mano pezzetti di semi o aghi di pino. O quello che c’era nella neve. Il ragazzo aveva guardato i rimasugli marroni sul palmo della mano del padre, che alla fine annuì, se li rimise in bocca e girò la faccia dall’altra parte per mandarli giù».
La frase d’apertura, per quanto breve, solleva diverse domande: al terzo giorno di cosa? Perché qualcuno dovrebbe mangiare la neve? Chi c’è dietro quel “loro”? E la frase successiva è un affondo magistrale, che sottintende qualcosa di sinistro. Se il ricordo di un’esperienza passata si riaffaccia all’improvviso, in una situazione che dovrebbe assorbire totalmente la concentrazione, vuol dire che ha lasciato il segno.
Proprio il colloquio di lavoro rappresenta la cornice in cui viene inserito il primo racconto, quello in apparenza principale: un padre e un figlio rimangono isolati in un bosco sommerso dalla neve e mentre aspettano i soccorsi, riparati da un albero, cercano di sopravvivere mangiando un coniglio che è sempre lo stesso ma che al contempo non lo è.
Quando l’animale fa la sua comparsa, potremmo credere che sia una propaggine onirica (il ragazzo «[…] vide un’immagine che si portò dietro dal sonno») oppure un’allucinazione causata dagli stenti. Quasi subito ci accorgiamo che non ha valore solo perché potrebbe essere mangiato:
«Il padre piangeva, così il ragazzo gli parlò del coniglio, del fatto che non era neppure bianco come avrebbe dovuto essere, bensì marrone, smarrito come loro».
Ha una funzione consolatoria. Forse è una di quelle clamorose bugie che abbiamo bisogno di raccontare a noi stessi, prima ancora che agli altri, per alleviare uno stato di grave sofferenza. Il padre però va a cercarlo e, al ritorno, crolla contro il fianco dell’albero:
«[…] Il ragazzo lo fece rotolare e gli sfregò la schiena, la faccia e il collo e poi vide che era rannicchiato intorno a qualcosa che forse aveva protetto per miglia: il coniglio. Aveva la punta dei peli della pelliccia marrone, il resto era bianco».
Questo coniglio esiste per davvero. Non possiamo dubitarne, anche perché troviamo un passaggio che di fantasmatico ha ben poco:
«Con il coltello, il padre aprì il coniglio lungo una linea che partiva dallo stomaco, ne fece uscire la carne. Fumava. […] Tirarono fuori tutto quello che c’era di rosso dentro, lo mandarono giù a tocchi interi perché se lo avessero masticato avrebbero sentito il sapore di quello che stavano facendo. Restò solo la pelle».
Il ragazzo rimette, ma si sente in colpa e allora ringoia tutto, «il braccio piegato sulle labbra in modo da non perdere di nuovo il cibo». Viene dunque ripresa, in una forma estremizzata, la sequenza mangiare-sputare-rimangiare proposta nell’incipit, con l’aggiunta di un altro elemento che avrà sviluppi rilevanti: trattenere.
Quando il padre parla ancora del coniglio, il ragazzo dice «tornerà» − intanto non si vedono arrivare elicotteri o uomini sugli sci − e gli dà un nome, Slaney, perché le cose che hanno un nome sono reali.
Strada facendo, riceviamo ulteriori conferme del potere salvifico attribuito all’animale, che viene ucciso e divorato ma anche idealmente addomesticato: è una possibile ricompensa se ci si comporta bene, una sagoma da cartone animato incisa sulla corteccia dell’albero e un esserino da coccolare (il ragazzo invoca più volte il suo nome «non per mangiarlo di nuovo, ma solo per tenerlo tra le braccia»).
L’autore racconta gli allontanamenti e i ritorni del padre, che all’inizio si presenta a mani vuote ma che poi ha sempre il coniglio con sé, «sanguinante e meraviglioso, già aperto». Ci offre una serie di dettagli che non destano particolari sospetti, perché sembrano rispondere a un’ordinaria esigenza descrittiva e in linea di massima risultano comprensibili, considerato il contesto: la pelle del coniglio è sparita; il padre si appoggia a un bastone «per stare dritto»; si siede «con le gambe distese»; va a caccia appoggiandosi a due bastoni – è debole e affaticato, supponiamo − che lo fanno assomigliare a «un quadrupede coperto di stracci»; barcolla e vomita; è macchiato di sangue «per aver cacciato e mangiato»; non riesce a sedersi; cade su un fianco; si addormenta profondamente.
Ma tutto ciò nasconde qualcos’altro, ossia un secondo racconto. All’arrivo dei soccorsi, infatti, saremo colpiti da una terribile rivelazione che ci costringe a reinterpretare quanto letto finora: nella pelle del coniglio non c’era la carne del coniglio. Slaney è stato nutrito da un sacrificio.
Questo twist è così forte che relega tutto il resto sullo sfondo, ma nel frattempo viene aggiunto un riferimento ai futuri tic – non uno soltanto − del ragazzo:
«[…] distolse lo sguardo, le palpebre inferiori gli si serrarono a bloccare il campo visivo. Negli anni sarebbe diventato uno dei suoi tic, uno sguardo fisso che poteva suggerire pensosità a un potenziale datore di lavoro, ma in quel preciso momento […] era stato solo un modo per offuscare l’albero sotto il quale il padre stava ancora dormendo».
La narrazione potrebbe anche concludersi – e nella prima versione si concludeva − con la morte del padre e con il salvataggio del figlio. Se è vero che in un buon racconto ci sono sempre due racconti, uno visibile e l’altro segreto, noi lettori ci riterremmo soddisfatti.
Eppure all’autore non bastava, come ha spiegato in un’intervista pubblicata su “Cemetery Dance Magazine”: «[…] il racconto faceva il suo dovere, perlomeno secondo le mie intenzioni: mostrare fino a che punto un padre può amare il figlio; una storia che mi portavo dietro da anni […], però non andava oltre, mostrava solo quello. E le storie devono essere di più, devono fare effettivamente qualcosa».
Ignoriamo cosa sia accaduto dopo il rientro a casa. Sappiamo però che, durante il colloquio, il ragazzo ormai adulto, pieno di tic non specificati eccetto uno, ripensa a suo padre, alla neve e ai semi. Una parte di lui non ha mai lasciato il bosco.
«Perché sarebbe stato un tradimento, aveva fatto in modo di non rigettare quello che gli aveva dato il padre, non in quel momento e nemmeno anni dopo – qualche secondo fa – quando l’uomo dall’altra parte della scrivania si infila tutta intera una manciata di semi di girasole in bocca, poi tiene la mano lì per assicurarsi che non ne esca nessuno […]».
Si tratta della scena che ha innescato l’associazione iniziale: mangiare-trattenere, per evitare di sputare e quindi di perdere. Quando l’uomo dall’altra parte della scrivania chiede cosa ci sia scritto sul modulo − «Slade? Slake? Slather, slalom?» −, intuiamo che il ragazzo si è trasformato in ciò che ha mangiato e trattenuto. Appena vede fuori dalla finestra un coniglietto marrone che lo osserva («Tra poco sarà bianco»), non manifesta stupore né spavento, ma fa finta di niente e sorride.
Questo nuovo twist disvela il terzo racconto, che parla di un trauma non elaborato e ormai intrapsichico. La necessità di non tradire il genitore, di tenerlo con sé, nel tempo è sfociata in un mascheramento difensivo − come lo era il coniglio −, la trasfigurazione accettabile dell’inaccettabile; una condizione che influenza spesso i processi associativi, organizzativi e sintetici che sostengono l’autocoscienza e l’auto-conoscenza, alterando le funzioni integratrici della memoria.
Veniamo trasportati ancora più in alto – o più in basso – rispetto allo spazio letterario fin qui attraversato. Sulle prime, il sacrificio del padre ha un impatto schiacciante, anche perché suscita una reazione complessa da gestire, un misto di commozione e di orrore, due sentimenti stridenti, se non antitetici. Tuttavia il fatto che il figlio subisca le conseguenze – degenerate − di quell’esperienza, ha un peso maggiore, che richiede una successiva messa a fuoco per essere riconosciuto; scardina l’idea di normalità presupposta dalla ricerca di un lavoro e ci autorizza a muovere un altro passo, verso l’alto o verso il basso: se la mente del protagonista, con cui siamo stati chiamati a identificarci, è disturbata, forse quello che abbiamo letto non è del tutto vero.
Affiora così la possibilità di un quarto racconto, inquietante perché inesistente, che ognuno di noi immaginerà come vuole.
Qualunque sia la direzione scelta, Nel nome del coniglio è un grande bosco narrativo dal quale non si esce, a meno che non si accetti di restare dentro, per guardare nella pelle, sotto la neve, oltre la fame.