di Sandro Moiso
Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate. I centri di diffusione delle diversità agricole, Pentàgora, Savona 2016 (II edizione), pp. 232, €14,00
“Andremo al rogo, bruceremo, ma non rinnegheremo mai le nostre opinioni!” (Nikolaj Vavilov)
Nikolaj Ivanovič Vavilov, nato a Mosca nel 1887, fu un agronomo, botanico e genetista russo.
La ripubblicazione della sua opera più famosa, pubblicata per la prima volta nel 1926 nell’URSS e giunta oggi alla sua seconda edizione italiana per i tipi di Pentàgora, permette però di ricordarlo proprio in occasione di quella rivoluzione d’Ottobre, di cui si celebra quest’anno il centenario, della quale egli fu contemporaneamente eroe e successiva vittima della sua degenerazione staliniana.
Certo lo scienziato russo non incarna le qualità epiche dell’eroe rivoluzionario che dirige le masse o che cade nell’azione avvolto da un autentico sudario costituito dalla bandiera rossa del Partito. Incarna però lo spirito di rinnovamento sociale, economico, culturale e scientifico che quella rivoluzione avrebbe dovuto rappresentare e che la controrivoluzione staliniana, con il suo atteggiamento inquisitoriale degno dei tempi di Galileo e del Sant’Uffizio, avrebbe finito col reprimere e distruggere. Finendo col trasformare anche la scienza in un puro dettato ideologico.
Laureatosi nel 1911 , Vavilov alternò, fino al 1917, attività di ricerca e di insegnamento sia in Russia che in altri paesi europei dove venne in contatto con il genetista inglese William Bateson. Dopo essere diventato, proprio nel 1917, prima docente presso presso l’Istituto agrario di Voronež e poi all’ Università di Saratov, vinse per tre volte il premio Lenin.
La prima volta nel 1926 proprio per il suo lavoro sulle origini delle piante coltivate.
In quest’opera, che egli dedicò alla memoria del botanico francese Alphonse De Candolle, che nel 1882 aveva per la prima volta tentato di individuare i luoghi d’origine delle piante coltivate nella sua Origine des plantes cultivées, lo scienziato russo amplia su scala planetaria la ricerca dei luoghi d’origine delle piante coltivate, individuandoli non nei luoghi in cui queste si sono maggiormente affermate come colture selezionate, ma là dove tali piante presentano la maggior quantità di varietà e differenze.
Proprio in queste aree era possibile rintracciare varietà con caratteristiche che potevano rivelarsi vantaggiose per l’agricoltura come, ad esempio, la resistenza alla siccità, al freddo o a specifiche malattie. Un tipo di pianta più adatto ad un determinato ambiente poteva garantire migliori rese produttive e, di conseguenza, maggiore produzione di cibo. Costringendo, per certi versi, l’uomo a farsi collaboratore della Natura e dell’ambiente e non suo proprietario e manipolatore. Intuendo ciò finì così col diventare il “padre” e il nume tutelare di tutte le ricerche scientifiche che, in seguito, avrebbero fatto della ricerca e della difesa delle biodiversità la loro ragione d’essere.
Devo confessare di essermi imbattuto per la prima volta nel suo nome durante la lettura di un testo sulla biodiversità pubblicato in Italia negli anni ’90,1 e che le vicende della sua vita e delle sue ricerche mi avevano incuriosito anche per la determinazione con cui i ricercatori che lavoravano presso l’Istituto di botanica applicata di Leningrado, sorto per sua iniziativa, difesero la preziosissima raccolta di semi e piante, sia dai concittadini affamati che dai soldati tedeschi, nel corso dell’assedio della città durante il secondo conflitto mondiale.
L’assedio di Leningrado può essere considerato come una delle battaglie più importanti della seconda guerra mondiale e come uno degli assedi più lunghi e sanguinosi della Storia. Sempre messi in ombra dalla battaglia di Stalingrado, i 900 giorni dell’assedio della città sul Baltico furono in realtà determinanti per fermare, fin dai primi mesi dell’Operazione Barbarossa, l’avanzata tedesca verso oriente.
Iniziato l’8 settembre 1941 e terminato il 18 gennaio 1944, anche se la celebrazione della sua conclusione si è sempre tenuta il 27 gennaio, l’assedio vide cadere come vittime dei combattimenti, della fame e del freddo un milione e 250.000 dei suoi difensori, tra cittadini e militari sovietici. Nel corso di questi avvenimenti, quattordici ricercatori dell’Istituto preferirono morire di fame piuttosto che cibarsi delle sementi affidate alla loro custodia. Fedeli alla volontà di Vavilov che non potè essere presente a causa del suo arresto, operato dalla NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni) nel 1940.
A causa delle 64 spedizioni di ricerca ed indagine che aveva condotto in tutto il mondo egli non solo era venuto a conoscenza delle infinite varietà delle piante coltivate, principalmente cerealicole o a stelo, di cui si era da sempre occupato, ma era entrato in contatto con la malaria in Siria, con il tifo e i banditi in Etiopia, con una frana sulle montagne del Caucaso e con un incidente aereo nel deserto del Sahara.
“La prima volta che viaggiò all’estero esclusivamente per raccogliere delle piante fu in Iran, nel 1916. Mentre si trovava là fu derubato, aggredito e quindi abbandonato dalle sue guide. Al suo ritorno in Russia, con i testi in tedesco e le note in inglese, fu immediatamente arrestato al confine come spia. Tre giorni più tardi fu rilasciato insieme con i suoi campioni che andarono a costituire la più grande collezione mondiale di semi“ 2
Ma fu durante una spedizione nell’Ucraina Occidentale che la vita di Vavilov subì una drammatica svolta. Il 6 agosto 1940 fu arrestato a Chernovicy, nei pressi del confine rumeno. E successivamente sottoposto a quattrocento interrogatori distribuiti su un arco di settecento ore nel corso di undici mesi al termine dei quali confessò i suoi gravi crimini. Cosa per cui fu processato dal Collegio militare del Tribunale Supremo e, il 9 luglio del 1941, condannato a morte.
“In un processo durato cinque minuti, senza avvocati, ritrattò la propria confessione, ma ciò nonostante fu ritenuto colpevole di «aver ordito una cospirazione di destra, di aver fatto la spia per conto dell’Inghilterra e di aver sabotato l’agricoltura». […]Per due anni aspettò l’esecuzione. Si ritiene che in questo periodo abbia scritto un lungo libro intitolato «Storia dello sviluppo dell’agricoltura», ma il manoscritto no fu mai trovato. Nel frattempo la famiglia e gli amici si diedero da fare per il suo rilascio (parecchi furono uccisi o imprigionati per i loro sforzi), sebbene non avessero mai avuto modo di sapere se fosse ancora vivo. La sua sentenza di morte fu commutata nel 1942, ma non fu mai rilasciato. Il 26 gennaio 1943 morì in un ospedale-gulag a Saratov.3 Nel 1960 un giornalista sovietico autorizzato ad indagare sulla sua morte,4 a quanto pare, trovò i risultati dell’autopsia che indicava come Vavilov fosse morto di fame”.5
La vera colpa di Vavilov, che nel 1939 era stato eletto presidente del VII Congresso internazionale di Genetica, era stata in realtà quella di opporsi al collega Lysenko che, ispirandosi alle teorie neolamarckiste che sviluppavano in botanica una sorta di teoria dell’adattamento delle specie al clima e ai sistemi agricoli, era diventato il pupillo di Stalin avendo promesso un considerevole aumento di produttività dell’agricoltura sovietica attraverso l’applicazione, poi rivelatasi fallimentare nel corso dei successivi piani quinquennali, delle sue teorie. Mentre all’epoca Vavilov era accusato di difendere la genetica classica mendeliana, considerata dagli ideologi del partito una «pseudoscienza borghese».
Nell’inverno del 1985, al Museo Politecnico di Mosca, mentre un pubblico di scienziati assisteva alla prima di un documentario su Vavilov, un altro scienziato, Vladimir Pavlovič Efroimson, nonostante non fosse stato invitato a parlare, affermò: “Il grande studioso. Genio di statura mondiale, orgoglio della scienza patria, l’accademico Nikolaj Ivanovič Vavilov non è morto. E’ crepato. Crepato come un cane in un carcere di Saratov…e bisogna che tutti quelli che si sono qui raccolti lo sappiano e lo ricordino”6
Vittima e martire di una lotta che vede ancora oggi contrapporsi le conoscenze scientifiche e le esigenze produttivistiche e del profitto, Nikolaj Vavilov fu e rimane, nonostante alcune sue formulazioni siano da considerarsi superate, importante proprio per aver saputo indicare nella ricchezza di diversità insite nelle razze e nelle specie un modello di sviluppo casuale e naturale allo stesso tempo, in cui la varietà delle origini e delle caratteristiche arricchisce la vita e la sua evoluzione. Anche e soprattutto, forse, per la specie umana.
Vavilov non utilizzò soltanto gli strumenti delle genetica e della botanica ai fini delle sue ricerche, ma li affiancò con i risultati provenienti dalla linguistica, dalla geografia, dalla storia, dall’archeologia e dalla climatologia. Senza tralasciare la ricerca sul campo e l’indagine tra i popoli agricoltori e le loro più antiche memorie. Rivoluzionario nel metodo e nelle intenzioni, collegò la varietà delle piante coltivate alle loro zone d’origine che, spesso, erano anche zone di diversità umana, non solo culturale.
Gli ufficiali dell’NKVD che diedero alle fiamme molti quaderni ove lo scienziato aveva accuratamente annotato i risultati delle sue spedizioni scientifiche, oltre a manoscritti preparatori per libri da pubblicare, danneggiarono quindi non solo le conoscenze botaniche della loro epoca, ma in prospettiva, esattamente come lo stalinismo stava facendo con il movimento operaio e comunista e nei confronti della concezione dei compiti che la lotta di classe avrebbe dovuto avere, anche il futuro della specie e delle sue conoscenze scientifiche, ritardandone enormemente il progresso.
In particolare Vavilov, nel corso delle sue ricerche e dei suoi studi, aveva individuato nelle zone di montagna, e non nelle pianure, l’origine delle colture e dell’uso delle piante più adatte a sfamare le comunità umane. Proprio per questo, come nel testo sulle origini delle piante coltivate qui presentato, lo scienziato aveva individuato tra le montagne, le loro valli, le loro differenze morfologiche e climatiche dipendenti dalla geografia e dall’altitudine la meravigliosa culla delle società umane e delle loro differenze culturali ed organizzative.
“Un esame più approfondito dell’Asia sud-occidentale, dell’Asia minore, dell’Africa settentrionale ha dimostrato negli ultimi anni che tutta la diversità varietale delle piante agrarie e orticole è racchiusa in prevalenza nelle regioni montuose. La concentrazione della diversità varietale e razziale è risultata trovarsi nelle regioni montuose perciò guardare alle valli dei grandi fiumi come al centro dell’origine delle colture vegetali è radicalmente sbagliato“.7
In un processo che vede sempre l’uomo interagire con le altre specie e con l’ambiente, in pagine che, come in quelle dedicate al sopravvento di piante considerate infestanti, come nel caso di alcuni tipi di avena o di canapa, su altre piante coltivate in particolari climi o a particolari altitudini, diventano di pura poesia. Rivelando l’amore disinteressato dello scienziato per l’oggetto del suo studio e per tutte le specie che concorrono al manifestarsi e alla riproduzione della vita e dell’evoluzione su scala planetaria.
Nel fare questo l’autore, però, non dimentica che “il ruolo decisivo nell’elezione dell’una o dell’altra regione montuosa quale centro di formazione l’hanno avuto i motivi storici e non solo la diversità dell’ambiente“,8 anche se la storia della coltivazione e della contemporanea evoluzione delle società deve essere a suo avviso spostata molto più indietro dei circa diecimila anni cui ci ha abituato la storiografia ufficiale. Nelle zone montuose infatti non occorrevano tutte quelle opere di contenimento e controllo delle acque che avrebbero dato poi il via alle grandi civiltà storiche. “Il controllo dell’acqua per l’irrigazione non richiede qui grandi sforzi. Il flusso gravitazionale dei torrenti montani può essere facilmente deviato verso i campi. Le regioni di alta montagna spesso si prestano alla coltura non irrigua grazie alla maggiore quantità di precipitazioni nelle zone elevate“.9
Un libro non sempre facile, a tratti destinato ad un pubblico di specialisti come avverte la sua bravissima traduttrice e curatrice Caterina Maria Fiannacca, ma che può essere letto anche da tutti coloro che interessandosi alla storia della rivoluzione sovietica non intendono accontentarsi di una narrazione mitica e retorica, per trovare invece nel passato le radici del nostro futuro. Obiettivo che, in fin dei conti, era anche quello di Vavilov che, proprio per questo, ci è ancora così vicino.
E se questo non bastasse non si dimentichi il possibile lettore che sotto i suoi occhi scorreranno storie di cui sono protagonisti segale, avena, frumento, miglio, canapa, cimici rosse, steccati abbandonati, popoli nomadi e popoli stanziali, valli e altopiani, paesi e aree geografiche il cui nome (Afghanistan, Bukhara, Pamir, Khiva, Samara solo per citarne alcuni) oggi sembra dimenticato o ridotto a cronaca di guerra mentre, insieme a tanti altri, potrebbero ancora riservarci immense e preziose sorprese.
Cary Fowler – Pat Mooney, Biodiversità e futuro dell’alimentazione, Red Edizioni 1993 ↩
C.Fowler – P.Mooney, op. cit. pag.54 ↩
Dove la sua famiglia era stata costretta a trasferirsi di imperio, senza mai essere informata che in quella stessa città era detenuto lo stesso Nikolaj ↩
Dopo la morte di Stalin, Vavilov era stato riabilitato dalla Corte suprema sovietica nel 1955 ↩
C.Fowler – P.Mooney, op. cit pag.55 ↩
Caterina Maria Fiannacca, Andremo al rogo, appendice a Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate, Pentàgora 2016, pag. 216 ↩
Vavilov, pag.150 ↩
pag.151 ↩
Vavilov, pag.152 ↩