di Armando Lancellotti
Olivier Razac, Storia politica del filo spinato. Genealogia di un dispositivo di potere, Ombre Corte, Verona, 2017, pp. 158, € 14,00
Quella che il maître de conférences in filosofia presso l’Università di Grenoble Olivier Razac propone in questo saggio – pubblicato in Francia per la prima volta nel 2000, poi una seconda volta nel 2009 e recentemente tradotto in Italia da Ombre Corte – è una tanto dettagliata quanto interessante analisi di un dispositivo di potere di per sé elementare e quasi primitivo, ma al contempo efficacissimo, per semplicità di realizzazione e flessibilità di utilizzo ed eccezionalmente conveniente nel rapporto costi-risultati e pertanto del tutto confacente alle esigenze e alle logiche economico-produttive del mondo moderno e della società capitalistica. A questo si aggiunga che, come ogni apparato o struttura di potere, dal piano fisico dell’esercizio impositivo della forza sulla carne viva dei corpi degli uomini e sulla materialità delle cose, esso subito si trasferisce in quello immateriale e figurativo dell’immaginario collettivo, assumendo e producendo significati simbolici che lì stabilmente si depositano. Questo strumento di controllo dei corpi e dello spazio, di delimitazione e separazione, di respingimento e difesa, di imposizione e appropriazione, di recinzione e reclusione è il filo spinato.
In un secolo di progresso tecnologico impressionante, mentre una quantità di oggetti obsoleti ingombrano le ceste della modernità, il filo spinato continua a mantenere la sua efficacia, rispetto a quello che gli viene richiesto, ovvero delimitare lo spazio, tracciare sul suolo le linee di una divisione attiva.[…] La sua ambigua brutalità, al tempo stesso intensa e discreta, ha segnato, oltre che i corpi, anche la mentalità di milioni d’uomini, tanto che, il più delle volte, non si osa neppure avvicinarsi. Tutto ciò è in potere di un semplice filo metallico guarnito di piccoli spine (pp. 19-20).
Ancora oggi, quindi, nonostante si tenda ad introdurre dispositivi di dominio e di delimitazione dello spazio sempre più immateriali, virtuali, il filo spinato continua ad essere impiegato su scala planetaria come uno dei più efficaci mezzi di esercizio, manifestazione ed ostentazione del potere, espressamente quello di governi e Stati, che lo impiegano per marcare e proteggere frontiere e confini, per erigere e fortificare barriere, per respingere ed allontanare gli indesiderati, per recingere e recludere categorie residuali, di volta in volta ritenute ostili o pericolose. E al momento della sua invenzione e realizzazione a fine Ottocento, il filo spinato aveva esso stesso già risposto a questa esigenza di dematerializzazione delle attrezzature di controllo e di limitazione fisica dello spazio, sostituendosi alla pesantezza dei muri e degli steccati, senza perdere nulla in termini di efficacia, anzi potenziandola. Già allora «si trattava […] di perdere in consistenza per guadagnare in potenza» (p. 20).
È il 1874, ci ricorda Razac, quando un colono dell’Illinois deposita il brevetto del filo spinato, che diverrà subito dopo uno strumento fondamentale della colonizzazione del continente a sostegno dell’insediamento dei contadini nelle terre dell’Ovest, soprattutto dopo che negli anni ’60, a causa della pressione dei coloni poveri senza terra, il governo accelera l’avanzata verso il West (Homestead Act). «Da quel momento, ogni cittadino americano può ottenere gratuitamente la proprietà di 80 ettari di terra pubblica, a condizione che la coltivi» (p.24) e il mezzo più efficiente con cui tracciare e marcare lo stanziamento e imporre la proprietà privata sulle terre consiste nello stendere e fissare una recinzione di filo spinato.
E la multifunzionalità del filo spinato presto lo trasforma da mezzo di “presa di possesso” e controllo dello spazio in arma e strumento per la guerra contro gli Indiani – ostacolo principale sulla strada della colonizzazione – sia perché esso è e rappresenta la frontiera che avanza e che respinge indietro, scaccia i popoli indigeni, sia perché è ciò che recinge le riserve che in seguito vengono a loro destinate e all’interno di queste interrompe gli spazi, delimita le terre, di fatto smantellando uno dei fondamenti dell’organizzazione economico sociale degli Indiani: lo spazio aperto del nomadismo e della caccia.
Ma il filo spinato è anche protagonista di un altro fondamentale episodio della storia americana ed infatti, dopo aver conquistato e privatizzato la terra e sconfitto, respinto e recluso gli indigeni lo vediamo frapporsi tra i coloni, gli agricoltori e gli allevatori stanziali da una parte e i cowboys, gli allevatori dell’open range e della prateria aperta dall’altra, che assistono all’avanzata ineluttabile di questo cavo metallico con timori ed atteggiamenti analoghi a quelli delle loro precedenti vittime, gli Indiani. Sono proprio i cowboys ad uscire sconfitti dal confronto impari e – osserva Razac – forse anche o soprattutto per questa ragione sono poi assurti a componente essenziale del mito fondativo dell’identità americana. Idealtipo identitario, icona dell’immaginario collettivo e cinematografico in particolare che sembrano, paradossalmente, reggersi sui valori di quel popolo e di quella società, quelli indiani, che i coloni americani hanno sterminato: spazio aperto, egualitarismo, nomadismo; quasi che si trattasse di un rimpianto – riflette l’autore – per un incontro tra popoli mai avvenuto o un senso di colpa per l’annientamento perpetrato.
Seconda tappa fondamentale di queste genealogia e storia del filo spinato ricostruite da Olivier Razac è la Grande Guerra e quando, dopo pochi mesi di violentissimi quanto inutili scontri, i fronti si bloccano e una guerra erroneamente immaginata dinamica e “di movimento” si rivela essere statica e “di logoramento”, allora protagonista assoluta diventa la trincea e si rende di vitale importanza la sua difesa, a cui i fitti, robusti e strettamente intrecciati reticolati di filo spinato danno un contributo insostituibile. «Sono utilizzati molti tipi di filo, più spesso un insieme di filo spinato, chiamato in questo caso “rovo artificiale”, e di fili di ferro lisci di vario spessore. I reticolati costituiti interamente da filo spinato sono rari per evidenti ragioni economiche, anche se il filo spinato costituisce l’elemento di maggior forza del reticolato» (p. 38).
Sono la leggerezza e la “sobrietà” a fare la fortuna di questo strumento di presidio militare e infatti «Di giorno, localizzarlo dagli aerei o dagli aerostati risulta un’impresa difficile e a volte i soldati sono tratti in inganno. […] Leggero, il filo spinato resiste bene ai bombardamenti. La flessibilità del filo di ferro lo fa piegare piuttosto che rompere, ma soprattutto un reticolato, anche quando danneggiato, resta un ostacolo considerevole. Mentre una costosa fortificazione crollerebbe rapidamente, le reti assorbono le esplosioni. […] Idea geometrica geniale, il reticolato in fil di ferro consiste proprio nel togliere il superfluo, l’imponente, a vantaggio della pura efficacia, svuotando la muraglia difensiva e lasciandone soltanto un sottile scheletro metallico» (pp. 38-39).
A guerra avanzata, la realizzazione e l’impiego massiccio dei carri armati ridurranno di molto l’efficacia dei reticolati di filo spinato, ma essi permarranno indelebilmente nell’immaginario del soldato, in cui si staglia con orrore la terribile figura del corpo che penzola intrappolato senza vita su questi rovi di spine metalliche o che si dimena disperatamente nel tentativo vano di liberarsi per mettersi al riparo. Si configura così un’estetica dell’orrore, del «mostruoso sublime che sorge dallo scatenamento della tecnica moderna. Attraverso i crateri e il fango della no man’s land, gli alberi sradicati e i villaggi cento volte rasi al suolo, si svela l’essenziale disumanità del mondo industriale, la sua potenza di distruzione, di fronte alla quale l’individuo, ormai soverchiato, è stordito dallo stupore» (p. 42). Si può pertanto parlare – conclude Razac – «di un ruolo “artistico” del filo spinato, nell’evocazione del sublime negativo delle forze di distruzione sprigionate dalla guerra moderna» (p. 44).
Ma è comunque il campo di concentramento, il lager, il “luogo storico” del Novecento in cui il filo spinato sprigiona tutte le sua potenzialità, tanto materiali quanto simboliche, a tal punto che si può sostenere che esso è consustanziale al lager, ne costituisce l’essenza: non c’è lager fino a quando non c’è filo spinato che lo delimiti e lo protegga, ma non da un pericolo esterno questa volta, bensì da un nemico che vi è rinchiuso all’interno. Anche se gli storici ormai concordano nell’indicare nei campi inglesi realizzati durante la guerra anglo-boera il primo esempio di utilizzo di dispositivi concentrazionari, è il sistema dei lager nazisti quello che funge da modello esemplare, ancor di più di quello dei gulag sovietici e nonostante le differenze per tempi e luoghi di installazione e di apertura, per tipologia, finalità, dimensione ed altro ancora, è possibile ricostruire una struttura modello del lager nazista.
Il campo è circondato da un doppio recinto di fili spinati carichi di corrente elettrica e alto circa quattro metri. Il recinto è costantemente sorvegliato dalle garitte, intervallate ogni ottanta metri e disposte sul lato esterno del recinto stesso. […] L’amministrazione del campo (la Kommandantur), così come le caserme e gli alloggi delle SS, sono ovviamente all’esterno dei fili spinati, ma vicino al campo. In generale, il sistema – baracche, doppia fila di fili spinati carichi di corrente elettrica, torrette – si trova in tutti i campi nazisti. Costituisce il paesaggio concentrazionario tipo. Ma si può sostenere che l’elemento centrale della costruzione di un campo è, paradossalmente, il recinto di filo spinato (p. 47).
La “consustanzialità” di filo spinato e lager è data anche dal fatto che tanto il secondo quanto il primo sono concepiti come dispositivi temporanei, di fatto anche nel caso dei campi di più lunga attività; sono, inoltre, di rapida istallazione e di relativamente rapido smantellamento, sono strutture efficaci per la loro flessibilità di impiego, ma soprattutto questa simbiosi tra filo e lager è dovuta al fatto che il filo spinato diventa lo strumento in assoluto più efficace, materialmente e simbolicamente, per realizzare la gestione totalitaria dello spazio che il lager persegue come obiettivo; il filo spinato è lo strumento perfetto di esercizio di un potere biopolitico totalitario.
Olivier Razac considera due modalità diverse, seppur non incompatibili o divergenti, di accostarsi ai lager e al loro studio: una vede in essi i luoghi dell’orrore e della violenza più brutale e sarà pertanto soprattutto interessata alla ricostruzione delle efferatezze lì perpetrate e delle loro dinamiche e conseguenze; l’altra osserva il lager come il luogo della costruzione e della manifestazione compiuta e completa della società totalitaria ed è questa seconda prospettiva quella che assume lo studioso francese. In tal caso «a passare in primo piano è la dimensione politica dei campi. I campi non sono buchi neri, ma la realizzazione materiale del sogno totalitario, una società del dominio totale. Allora l’architettura di un campo non è indifferente. Al contrario, essa è l’organizzazione totalitaria dell’ambiente» (p. 49).
In questa architettura politica in cui il potere scatena le sue velleità di dominio totale, il filo spinato procede alla partizione degli spazi e alla loro organizzazione gerarchica, innanzi tutto operando la separazione netta, la rottura non ricomponibile delle relazioni con la società e il mondo esterni e precedenti l’ingresso nel campo e delineando uno spazio del “qui”, dell’al di qua del reticolato, che diviene luogo dell’arbitrio assoluto, della possibilità dell’inconcepibile, della sineddoche disumanizzante che riduce un individuo, un essere umano a mero corpo da controllare e distruggere o ad una sua parte, ein Kopf (una testa), ein Stück (un pezzo).
All’interno del campo poi è sempre il reticolato di filo spinato che ritaglia spazi negli spazi, organizzandoli e distinguendoli per destinazione d’uso o per altri criteri ancora una volta arbitrari e creando un labirinto del dominio totale, del potere di vita e di morte, dal quale l’internato viene inghiottito.
Se il campo di concentramento è il luogo della reclusione estrema, allora il filo spinato ne è il simbolo universale che per potenza evocativa supera tutti gli altri possibili ed immaginabili, è la metafora più potente della violenza politica. «Il filo spinato è divenuto dunque un simbolo pressoché universale dei campi e in generale delle violenze fasciste o totalitarie, per la sua funzione nella gestione politica dello spazio, ma anche per la forte capacità evocativa» (p. 54). Una potenza simbolica tale che finisce per invertire, fa notare Razac, il rapporto tra simbolo e fenomeno, al punto che «non è più: “là dove ci sono fili spinati, c’è la brutalità del potere”, ma “si riconoscerà un’applicazione brutale del potere in presenza di fili spinati o di dispositivi equivalenti”» (p. 55).
Partendo dalle considerazioni del M. Foucault di Spazi altri. I luoghi delle eterotopie (1967), Razac sostiene che mentre nel medioevo lo spazio veniva concepito e rappresentato “qualitativamente”, cioè come organizzazione e articolazione di luoghi dotati di una loro intrinseca caratteristica, sacra o profana, benefica o malefica e così via, nell’età moderna dei Galileo e dei Descartes lo spazio diviene quantità geometrica uniforme, è la res exstensa cartesiana e pertanto non vi sono più «spazi definiti a priori, ma un’estensione che si differenzia quantitativamente e per coordinate del tutto astratte» (p. 59). Nello spazio astratto e geometrico della modernità interviene poi il gesto dislocante della tecnica che istituisce le “eterotopie”.
«Tutto questo porta a un’inversione del ruolo della recinzione. Se negli spazi magici, mitologici o cosmologici i mezzi di differenziazione spaziale sono la conseguenza di una particolarità naturale del luogo, nella modernità è piuttosto la particolarità di un luogo a derivare dall’utilizzo di mezzi tecnici sullo spazio indifferenziato» (p. 60). In altre parole, non sono le qualità dei luoghi che suddividono lo spazio, ma la partizione tecnica dello spazio che distingue e fonda i luoghi. Occorre pertanto interrogarsi – osserva Razac – sui dispositivi tecnologici che aprono, chiudono, mettono in comunicazione e quindi istituiscono i luoghi e articolano lo spazio e tra questi vi è, in una posizione di assoluta rilevanza, il filo spinato che presenta tutte e tre le caratteristiche che contraddistinguono i moderni dispositivi biopolitici di organizzazione dello spazio: radicalizzazione, animalizzazione, gerarchizzazione.
Il filo spinato radicalizza l’azione di separazione dello spazio fino a diventare lo strumento – dice Razac – con cui tracciare una netta frontiera tra la vita e la morte: essere al di là o al di qua del filo spinato – a seconda che esso presti la sua forza di dispositivo violento di potere ad una frontiera che respinge o ad una recinzione che detiene-contiene – significa trovarsi «in una non condizione assoluta» (p. 63), ovvero nella condizione della morte. Ma il complementare dell’esclusione omicida è sempre un atto di inclusione altrettanto forte; il filo spinato esclude e include, apre e chiude, o meglio, separa e chiude su loro stesse due metà non più ricomponibili.
Razac osserva questo fenomeno di radicalizzazione della suddivisione dello spazio in tutti e tre i casi scelti quasi come figure fenomenologiche prototipiche dell’impiego del filo spinato: la frontiera e la prateria americane, la trincea della Grande Guerra e il lager, ma è in quest’ultimo «caso che la frontiera tra la vita e la morte raggiunge una incandescenza inedita. […] Con il campo, la forma geometrica della violenza estrema viene trovata chiudendo l’“esterno” su se stesso. Non deve sembrare una contraddizione parlare di “esterno” riferendosi allo spazio racchiuso dal reticolato, è anzi l’esterno per eccellenza, il luogo/non-luogo del regno assoluto dell’arbitrio e della morte. Qui non c’è possibilità di fuga» (pp. 70-71).
Il campo di concentramento è per eccellenza l’eterotopia del potere biopolitico totalitario e pertanto non è un luogo dislocato in un’altra parte del mondo, ma è “fuori dal mondo”, è il “non luogo” della negazione totale di senso, valori e vita. Ma ancora una volta per una sorta di dialettica della complementarietà la distruzione totale si rovescia nella velleità della creazione, quella «del “nuovo uomo” totalitario, incarnazione dell’obbedienza cieca» (p. 73).
Ragionando sulle differenze tra dispositivi di recinzione di natura passiva, quali steccati, muri di cinta o altro – che svolgono essenzialmente la funzione del segno che indica un limite – e dispositivi di recinzione attivi, quale è il filo spinato – che antepongono il fare all’indicare e agiscono sul corpo che ad essi si avvicina – e operando frequenti riferimenti a La volontà di sapere di Foucault e a Homo sacer di Agamben, Razac affronta la questione della animalizzazione degli individui nell’età e nella società della biopolitica, intesa quest’ultima come «una maniera di governare che si sviluppa in epoca moderna, perlomeno a partire dal XVIII secolo e che si caratterizza per il fatto che la vita, intesa nel suo senso biologico, diventa la principale questione politica al posto del legame tra il sovrano e i suoi sudditi. […] Oggetto della biopolitica – che intende costruire, attraverso strumenti tecnici e sociali, le condizioni ottimali di sopravvivenza della masse che governa – è, dunque, la popolazione vista nell’insieme dei suoi processi biologici (demografia, salute, possibilità fisiche alla produzione…). […] La biopolitica […] si concentra sulla vita biologica della popolazione. Ciò che le interessa sono le funzioni animali dei corpi e delle masse. […] La biopolitica è una governamentalità pastorale, che si occupa dell’allevamento degli esseri viventi» (p. 76-77).
Ma la biopolitica può trasformarsi in tanatopolitica – come sostiene Agamben – quando gli atti “pastorali” di organizzazione e governo della vita di una popolazione conducono alla opposizione manichea ad un’altra popolazione estranea ed esterna alla precedente e ciò che ne consegue è una distinzione, una separazione tra il “gregge”, la “mandria”, la massa biopoliticamente governata e protetta e la “muta” delle “bestie selvatiche”, che i dispositivi di separazione e difesa devono respingere.
Pure il processo di animalizzazione raggiunge il suo culmine all’interno della realtà concentrazionaria, dove, anche attraverso la predisposizione di un’adeguata strumentazione lessicale, gli internati sono disumanizzati e trasformati in parassiti, ratti, vermi, in corporeità anonima e bruta o in mera materialità fisica e a queste che Razac chiama “metafore biopolitiche” conseguono e corrispondono fattive forme di intervento sulla animalità così creata: recinti che recludono, vagoni bestiame che trasportano, some lavorative insostenibili, per terminare con procedure di “disinfestazione” radicali. Cosicché Razac conclude che «a rifletterci più attentamente, si nota come l’animalizzazione dell’uomo rispecchi l’obiettivo supremo della politica totalitaria, in quanto biopolitica assoluta» (p. 82), anche alla luce del fatto che il processo di animalizzazione in atto in un campo di concentramento (ma lo stesso discorso vale per il ghetto) produce nel carnefice l’effetto di autoconferma dell’ideologia animalizzante, la convinzione dell’animalità della vittima.
Ma nel lager si verificano anche effetti di inversione o sovrapposizione degli aspetti e dei termini dei processi biopolitici: «Allo stesso tempo, anche le SS devono idealmente essere ridotte, nello svolgimento delle loro funzioni, a “dei burattini che non mostravano il pur minimo accenno di spontaneità”. Il campo, in quanto modello della società totalitaria, animalizza tutti: il padrone e lo schiavo, il carnefice e la vittima» (p. 83). In tal modo si invertono i significati tra l’al di qua e l’al di là del filo spinato, tra “mandria” da accudire e “muta” da sterminare, tra spazio della biopolitica e spazio della tanatopolitica.
La gerarchizzazione della vita operata dalla biopolitica moderna viene considerata da Razac sulla scorta della analisi di Foucault riguardanti le differenze tra la gestione medievale della lebbra e quella moderna della peste. Il lebbroso nel medioevo è l’escluso assoluto, completamente espulso dalla comunità di appartenenza, dalla società dei vivi, in quanto è considerato un “già morto in vita”, a tal punto che ancor prima del decesso può avvenire la trasmissione ereditaria dei beni. Foucault – ricorda Razac – mette in relazione questo trattamento dei lebbrosi con l’atto fondativo tradizionale della sovranità monarchica, che tramite editto mette al bando il suddito e lo distingue dalla modalità moderna di gestione geopolitica delle epidemie di peste, che, conseguentemente allo sviluppo di apparati amministrativi razionali e “positivisti”, non esclude l’uno – il lebbroso-appestato – per includere-salvare gli altri, ma predispone «l’inclusione piuttosto che l’esclusione, il riconoscimento piuttosto che il disconoscimento, l’assistenza piuttosto che l’abbandono» (p. 87).
L’obiettivo di una simile tecnica politica», che «è quello di tutelare con la maggior efficacia possibile la popolazione» (p. 87), viene conseguito attraverso la messa in opera di almeno quattro azioni principali: la quarantena, la suddivisione della città in settori, la sorveglianza attenta della persone e le azioni di cernita interne alla popolazione quando necessarie. È un potere politico moderno che opera biopoliticamente quello che è in grado di mettere in atto un tale modello di gestione sociale. Pertanto le conclusioni di Razac sono che «visto come modello disciplinare, la gestione dell’epidemia di peste si struttura in quattro fasi collegate tra loro: la reclusione consente la suddivisione in settori, la quale a sua volta permette la cernita o selezione, che garantisce una maggiore efficienza nella produzione [di salute]. Da questo punto di vista, il campo di concentramento si ispira alla città in preda alla peste, più che al lebbrosario (p. 88).
Quello del lager è uno spazio accuratamente articolato – in settori, sezioni, sotto-sezioni, blocchi, spazi rigidamente riservati a categorie specifiche, ecc – come quello della città in preda all’epidemia di peste ed anche nel lager la suddivisione tecnica dello spazio comporta una gerarchizzazione di esso che in sostanza è una gerarchizzazione della vita: attraversare gli spazi del campo significa avvicinarsi o (raramente) allontanarsi dalla morte; un attraversamento che può avvenire diacronicamente o sincronicamente. «I campi non sono occupati da una massa indifferenziata, ma da gruppi definiti da una doppia gerarchia. In primo luogo, una gerarchia “diacronica”, che corrisponde alla tappa che si è raggiunta nel processo di distruzione» (p. 90); in secondo luogo, una gerarchia sincronica, cioè« la selezione differenziata [che] porta a passare da una categoria a un’altra, anche se vi sono categorie da cui è impossibile sfilarsi – ciò vale, ad esempio, per i deportati per ragioni razziali nei campi nazisti» (p. 92). La differenza essenziale è che in un caso – la città aggredita dalla peste – il fine è la sopravvivenza della popolazione, nell’altro – il lager – è il suo annientamento: la biopolitica si capovolge in tanatopolitica.
Il paragone che segue a quello tra città appestata e lager è quello tra il campo di concentramento ed un qualsiasi luogo produttivo dell’età industriale, la fabbrica in primis, dal momento che «la separazione del campo in zone distinte e strettamente delimitate corrisponde alle necessità dell’organizzazione della produzione – che si tratti della produzione di cadaveri e, successivamente, delle ceneri, come a Treblinka, dove tra l’altro gli indumenti e i beni sequestrati ai deportati consentono grandi lucri, o dello sfruttamento del lavoro sfiancante degli schiavi, nei campi di concentramento. […] In questi luoghi, la produzione della desolazione è assicurata da una organizzazione meticolosa ed efficace dello spazio e non è certo dall’abbandono in un non luogo trascurato. Non solo. L’importanza di questa organizzazione nella produzione concentrazionaria non si distingue da quella che ha in qualunque altro luogo produttivo dell’era industriale» (p. 93).
L’accostamento tra dinamiche e meccanismi produttivi di tipo industriale e di tipo concentrazionario e tra il comandante di un lager e il capo o il responsabile di un’impresa, conduce Razac a concludere la sua analisi del campo di concentramento come luogo della biopolitica totalitaria, riprendendo le due diverse letture al riguardo di Foucault e di Alain Brossat.
Una certa lettura di Foucault […] permette di far apparire una inquietante prossimità tra la politica totalitaria e le democrazie moderne, che ha come tramite le tecnologie disciplinari e biopolitiche. Da un lato, i regimi totalitari coniugano la produzione di un terrore in chiave repressiva con una efficiente produttività economica e sociale. Dall’altro, “il passaggio tra il disciplinamento e il totalitarismo avviene con una gradualità, definita da una radicalizzazione estrema delle tecniche del disciplinamento” [Brossat]. In sostanza, ciò significa che le tecnologie politiche delle moderne democrazie non sono incompatibili con il totalitarismo e, al tempo stesso, che a dividerli è il grado, non la natura. […] Alain Brossat rovescia l’argomentazione di Foucault facendo notare come questa eluda, in realtà, l’eterogeneità del tempo e dello spazio totalitari malgrado la sua “contiguità” con il capitalismo borghese. Per Brossat, Foucault si mantiene nell’ordine del relativo, mentre la separazione totalitaria è dell’ordine dell’assoluto e si esprime nella figura del tiranno totalitario, anti-pastore che desidera la morte del suo gregge. In questo senso, la differenza tra i sue sistemi attiene alla natura, non al grado (p. 95).
Si tratta, pertanto, di un’oscillazione tra biopolitica e tanatopolitica che non esclude mai completamente uno dei due estremi.
Così, mentre Foucault afferma che con la biopolitica “non si tratta più di far entrare in gioco la morte nel campo della sovranità, ma di distribuire ciò che è vivente in un dominio di valori e di utilità” [M. Foucault, La volontà di sapere], noi sosteniamo piuttosto che nella biopolitica moderna non si può fare l’uno senza fare l’altro. Non si può esercitare il diritto sovrano di morte sulle masse senza l’organizzazione biopolitica della produzione e, all’inverso, non è possibile organizzare la popolazione per la produzione senza trasformarla in una massa animale esposta alla morte erogata dal sovrano. Più ancora che un intreccio, si tratta qui di una oscillazione permanente tra il relativismo biopolitico e l’assolutismo tanatapolitico – senza dubbio assai difficile da immaginare. Questa vibrazione sta nel cuore del totalitarismo tanto quanto in quello dei regimi democratici, anche se la differenza d’accento, tra un regime orientato verso la morte e uno verso la vita, è tutt’altro che trascurabile (pp. 95-96).
Dopo la ricostruzione della storia del filo spinato e la sua attenta analisi in quanto dispositivo di potere biopolitico, Razac conclude il suo lavoro prendendo in considerazione i numerosissimi casi del presente o del passato più prossimo in cui il filo spinato continua ad essere largamente e sistematicamente impiegato con conseguente riproposizione di tutte le dinamiche biopolitiche (e tanatopolitiche) sopra considerate: le frontiere che segnano divisioni “storiche” come quella tra le due Coree o quella tra Cipro greca e Cipro turca, oppure i reticolati, i muri e le barriere che intrappolano i «palestinesi […] su quel che resta del loro territorio, sottoposti a un processo di esclusione, di frantumazione e di spossessamento» (p. 113) che ricorda quello usato per gli indiani dell’America del Nord. Oppure, ancora, le frontiere per la difesa del privilegio economico del primo mondo, come quella tra Messico e Usa o quelle europee che respingono i migranti o li recludono in campi profughi. Non solo confini e frontiere, ma anche i luoghi di detenzione impiegano permanentemente il filo spinato, che – osserva Razac – «come interfaccia, è un dispositivo centrale nella produzione e nella riproduzione dell’interno come campo biopolitico e del fuori come deserto tanatopolitico» (p. 117).
Insieme all’autore di questo interessante saggio, osserviamo, concludendo, che il filo spinato è solo un dispositivo di potere, un mero strumento, per quanto estremamente efficace e pertanto come la sua presenza non è sufficiente per qualificare come totalitaria la forma di esercizio del potere politico di chi lo utilizza, così non è sufficiente l’identità democratica di uno Stato per escludere a priori la natura totalitaria di alcuni suoi dispositivi di potere e di governo.
Foto di Ivano Di Maria – “Europe, Around the Borders“