di Perez Gallo
[Tutte le foto sono di Felipe Perini] Gli scorsi 12, 13, 14 e 15 aprile, a San Cristobal de las Casas, Chiapas, presso le strutture dell’Unitierra Cideci, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha fatto il punto: sulla propria storia, su cosa vuol dire essere davvero anticapitalisti, sulla crisi del cosiddetto ciclo progressista in America latina, su ciò che significa l’elezione di Trump e il moltiplicarsi di frontiere, muri e fili spinati. E soprattutto, sulla proposta del Congresso Nazionale Indigeno di una candidatura indipendente per la contesa presidenziale nel 2018 e su come questa scelta, a dispetto di come in molti hanno pensato, non sia affatto incompatibile ai principi del comandare ubbidendo, ma sia piuttosto il tentativo di rinnovare la lotta contro la finca-Stato (fattoria-Stato) e il suo vero padrone-finquero (fattore), il capitale.
E’ questa la metafora “agricola” utilizzata dal subcomandante insurgente Moises il primo giorno di incontri, quella di una “fattorizzazione” del mondo sotto i comandi del capitale globale, che si serve delle classi politiche come il padrone della fattoria, il latifondista, si serve di maggiordomi e caporali. Un capitale che mentre calpesta sempre più la sovranità nazionale dei popoli, moltiplica i muri per dividere i popoli stessi, come nel caso della barriera che il neo-presidente statunitense Donald Trump intende estendere lungo il confine messicano.
E mentre una vertente dell’incontro è stata l’analisi dei “muri del capitale”, un’altra è stata quella delle “crepe” che la sinistra deve saper aprire su quegli stessi muri.
Una categoria, quella di “sinistra”, che torna prepotentemente in auge nel discorso zapatista, dopo anni in cui il tradimento delle sinistre istituzionali in tutto il mondo, non ultime quelle latinoamericane, hanno gettato un tale discredito sul termine a cui dovunque, e sulla spinta della stesso EZLN, si era preferito la dicotomia alto-basso.
Ma forse solo gli zapatisti potevano essere in grado di dare nuovo vigore alla parola sinistra, e lo hanno fatto con discorsi chiari, con prese di posizione nette.
In primo luogo affermando una forte vicinanza con la rivoluzione cubana e con il suo defunto leader Fidel Castro, come fa tanto l’ospite d’onore Pablo Gonzales Casanova, 95enne ex rettore dell’Università Nazionale Autonoma del Messico, quanto lo stesso Subcomandante Galeano (“Fidel Castro è il Maradona della politica internazionale”). Una vicinanza che, a ben vedere, sta nel dna degli zapatisti da quel lontano 1969, quando in varie parti del paese, e ispirati dalla rivoluzione di 10 anni prima, nascevano i nuclei guerriglieri delle Fuerzas de Liberaciòn Nacional, nel seno dei quali era nato proprio l’EZ nel lontano 1983 nel cuore della Selva Lacandona.
Allo stesso modo, prendendo fortemente le distanze da quei progetti di sinistra di governo che si sono succeduti in vari paesi dell’America latina, fatti di estrattivismo, accordi con il gran capitale e una crescente cooptazione dei movimenti sociali. Progetti a lungo non adeguatamente compresi nella loro natura di continuità con le politiche neoliberiste, come ha segnalato il direttore della rivista Rebeldía Sergio Rodriguez Lascano, che ha evidenziato come dietro agli entusiasmi per i governi autoproclamatisi post-neoliberisti ci sia l’illusione diffusa secondo cui un sistema sociale si ridurrebbe alla forma di governo e a quell’altra illusione per cui il neoliberismo si possa considerare semplicemente a partire dalle politiche di distribuzione dei redditi. Progetti che oggi la sinistra istituzionale messicana, sotto le insegne del Movimiento de Regeneración Nacional e il suo leader Andrés Manuel Lòpez Obrador, vorrebbe replicare in Messico. Progetti che il professore della Escuela Nacional de Antropología e Historia Carlos Aguirre Rojas, tra gli ospiti dell’incontro, ha descritto come diversi dalla destra neoliberista tradizionale per il solo fatto di essere vincolati, invece che con il capitale transnazionale, con quei settori di capitalismo nazionali più dipendenti dal consumo interno dei propri paesi. Cosa evidente, nel caso di Lòpez Obrador, dall’appoggio da questi ricevuto da parte di Carlos Slim, il monopolista delle telefonia in Messico e uno degli uomini più ricchi del mondo. E in questo senso netta è stata la critica di Galeano quando ha dichiarato che “non vogliamo scegliere tra un padrone crudele e uno buono, semplicemente non vogliamo padroni”.
Infine, la parola “sinistra” è risuonata forte e chiara nella critica della politologa Paulina Fernandez, che facendo la genealogia di quelli che sono i partiti della sinistra istituzionale messicana ha dimostrato di come non ci sia nella loro proposta politica nessun progetto di alternativa di sistema, nemmeno velatamente, e di come essi abbiano partecipato alla trasformazione della “dittatura perfetta” messicana da affare esclusivo del PRI (Partido Revolucionario Institucional) a una sorte di cogestione partitocratica, una sorta di democratizzazione della corruzione.
E mentre vengono messi a nudo i limiti e le miserie di una sinistra latinoamericana e non solo che ha abbandonato la lotta contro il capitalismo in nome della partecipazione alla sua amministrazione, si evidenzia anche come questa stessa sinistra abbia non sia in grado di rinnovare le proprie categorie, che abbia abdicato a sviluppare un pensiero critico. È il caso, in primo luogo, dei molti intellettuali che, da sinistra, hanno salutato eventi come il Brexit e la vittoria di Trump come una sorta di rivolta contro Wall Street e la fine della globalizzazione. Nel mirino è, in primo luogo, il vicepresidente della Bolivia Alvaro García Linera, che rivendicò per sé e per i cosiddetti governi post-neoliberisti l’avere aperto il varco a questa rottura della globalizzazione neoliberista. “E’ possibile che il vicepresidente della Bolivia – lo irride Lascano – consideri che i crescenti investimenti cinesi in paesi come Ecuador e Bolivia non faccia parte della globalizzazione perché in Cina il partito che sta al potere è ‘comunista’”. Ed è lo stesso Lascano a ricordare come il Brexit si sia accompagnato a un’ulteriore abbassamento delle imposte per il capitale straniero nella City e che il primo obiettivo di Trump è fare a pezzi la pur moderatissima legge di regolamentazione finanziaria attuata da Obama, il Dodd-Frank Act.
Il mondo, dicono gli zapatisti, è già entrato nella “tormenta”, in quella che viene definita “quarta guerra mondiale”, che il capitale ha dichiarato a tutti i popoli della terra, per aprirsi nuove vie di accumulazione a scapito della loro stessa sopravvivenza, e a scapito della stessa possibilità di vita umana nel pianeta. Per affrontare questa guerra non ci sono altre strade al di fuori dell’organizzazione collettiva. È su questo tasto che premono tanto Moises (“costruiamo noi il mondo dove ci sarà vita. Per farlo dovremo essere organizzati e organizzate”) come Galeano (“quello che si vede ora non è nemmeno lontanamente il punto più algido. Il peggio deve ancora venire. E le individualità, per quanto brillanti e capaci si sentano, non potranno sopravvivere se non con altri, altre, altr*”).
Ed è solo in questa chiave che si può provare a leggere la candidatura che il Congresso Nazionale Indigeno intende lanciare per le presidenziali del 3 giugno 2018, quando una donna di lingua e di sangue indigeno si presenterà, come portavoce di un Consiglio Indigeno di Governo democraticamente scelto tra i 43 popoli indigeni che conformano il CNI, alle elezioni presidenziali. Come, in primo luogo, un momento organizzativo e di lotta. Carlos González dello stesso CNI lo dice in maniera lampante: “La proposta di un consiglio indigeno di governo per governare questo Paese è una proposta per attaccare la tormenta che già ci colpisce, per affrontare e resistere alla guerra che cerca la nostra distruzione”; la candidatura si propone quindi “l’incursione formale nel processo elettorale del 2018, ma non è una proposta ‘elettoralista’ (…). Non vogliamo competere con i partiti politici, né è nostro proposito la conquista del potere politico putrefatto. Abbiamo la ferma convinzione che è urgente smontare il potere di quelli in alto, non amministrarlo. (…) Le elezioni sono per eccellenza la festa di quelli in alto, lo spazio e la forma con cui i finqueros di questo mondo costruiscono e ricostruiscono il consenso politico che occupano per continuare ad accumulare profitti e potere all’infinito. Vogliamo calarci in questa festa, e vogliamo rovinargliela”.
Elezioni, quindi, ma con una strategia, un programma e uno stile tali che è impossibile analizzare la proposta come una semplice proposta elettorale. Ed è proprio l’incapacità di comprendere appieno la scelta all’interno di categorie politiche ormai stantie che rende la scommessa interessante. Il Congresso Nazionale Indigeno non proporrà un candidato, ma un Consiglio Indigeno di Governo scelto in base agli usi e i costumi delle comunità aderenti; sceglierà al suo interno una portavoce, perché nessuno più di una donna indigena è un soggetto più sfruttato, discriminato e marginalizzato dal quel connubio di capitalismo feroce, patriarcato e colonialismo che attraversa a tutti i livelli la società messicana (a tal riguardo molto interessante è stato l’intervento di María de Jesús Patricio, indigena nahua di Jalisco, che ha portato molti esempi di lotte nel paese, come nella comunità michoacana di Cherán o nell’Istmo di Tehuantepec, dove sono state proprio le donne a portare avanti le iniziative di lotta piú forti, e a sopportare il peso maggiore dell’autonomia comunitaria); porterà avanti, insieme alle tappe necessarie del calendario de arriba, come i tempi di registrazione e di raccolta firme, un calendario de abajo fatto di carovane in tutto il paese, tessitura di rapporti dentro le comunità indigene e con tutti i settori oppressi della società messicana; e manterrà ben saldi tutti quegli strumenti di cui dispongono gli indigeni in Messico, e che poco hanno a che vedere con una organizzazione elettoralista: polizie comunitarie, assemblee permanenti, un esercito di liberazione mobilitato e costantemente all’erta.
Perché, come ha detto ancora Carlos González, “per noi è chiaro: dopo il 3 giugno 2018 (giorno delle elezioni presidenziali, ndr) la guerra capitalista aumenterà sproporzionatamente. La nostra rabbia, la nostra decisione, la nostra dignità e la nostra resistenza anche”.
Intanto, EZLN e CNI lanciano le prossime tappe. Per voce di Moises, gli zapatisti annunciano di aver raccolto 3 tonnellate di caffè, destinate ad appoggiare in migranti nella finca di Trump: “ci siamo ricordati del 1994, del 1995… in quel tempo chiedevamo alla società civile del Messico e del mondo di aiutarci. Ora, ci siamo detti, tocca a noi. (…) Ma quando ci siamo frugati le tasche, abbiamo visto che non ci sono euro, non ci sono dollari, non c’è nulla. Però, a ben vedere, abbiamo il risultato del lavoro collettivo dei villaggi, delle regioni e dei municipi autonomi ribelli zapatisti”. Quanto al CNI, si annunciano quattro giorni di incontro dal 26 al 28 maggio, ancora al Cideci, a San Cristobal de las Casas, quando probabilmente si conformerà il Consiglio Nazionale Indigeno e si renderà pubblico il nome della sua candidata-portavoce.